GIOVANNI E NORI
GIOVANNI E NORI UNA STORIA DI AMORE E RESISTENZA
Daniele Biacchessi (voce narrante, testo, regia)
Gang (voce, chitarre)
Gaetano Liguori (pianoforte)
Quanto è lungo il cammino di una vita?
Quanto è tortuoso, complicato, imprevedibile?
Spesso è lo specchio di quello che volevamo essere da giovani e siamo oggi.
E se avessimo scelto di camminare in modo coerente, senza venderci al migliore offerente, senza fare compromessi imbarazzanti, senza barattare le nostre idee, la nostra sarebbe una vita straordinaria.
Ogni mattino ci potremmo guardare davanti ad uno specchio ed essere orgogliosi di quello che siamo.
Questa è una storia di coerenza che parte da lontano.
Giovanni Pesce nasce il 22 febbraio 1918 da Visone d’Acqui, in provincia di Alessandria.
Giovanni ha una madre, Maria Bianchin, cattolica praticante; un padre, Riccardo Pesce, uno scalpellino; tre fratelli, Gilfredo, Luigi e Ilio.
Da Visone, la famiglia se ne va in pochi anni.
Riccardo è un socialista, un antifascista.
In Italia, il fascismo sta diventando regime e la famiglia Pesce si trasferisce nel Sud della Francia, a La Grand’- Combe, distretto del Gard
Giovanni è ormai diventato Jeanu.
La cantina gestita dalla madre Maria è una stanza con sedie e tavoli, una stufa a carbone, due scaffali con stoviglie, bottiglie, bicchieri, grandi pentole e il paiolo di rame per rimestare la polenta. E lì, Jeanu ascolta i racconti dei minatori italiani, polacchi, algerini, tedeschi, slavi, francesi. Molti di loro sono fuggiti dai loro paesi per ragioni politiche.
Per i minatori della Grand’- Combe i ritmi di lavoro sono esasperanti, senza le più elementari norme di sicurezza e igieniche, multe inflitte senza alcun motivo, minacce di espulsione dalla Francia.
I minatori sono costretti a vivere in baracche di legno e di mattoni, in lunghe file uguali, separate da divisori. La loro vita fuori dalla miniera si snoda intorno a sei metri quadrati per riposare, raccogliersi, ricordare.
In otto e più persone, ammassate in soli sei metri quadrati.
C’è chi si ubriaca per dimenticare, chi litiga e si azzuffa nelle capanne, chi cade stremato dalla stanchezza, chi russa e parla nel sonno, chi respira rotolando per la silicosi. E Jeanu è sempre lì vicino, al loro fianco.
Nella miniera Giovanni lavora per quattro anni e mezzo. Il primo impatto è forte. Jeanu si avvia all’imboccatura della galleria, sale con tre minatori su un vagoncino preceduto e seguito da decine di carrelli, infine viene inghiottito nel tunnel, fino giù, alla miniera.
Lui vuole stare lì.
E’ una sua decisione. Sente quella scelta come un dovere, per stare vicino agli amici e ai compagni che lavorano dentro il pozzo.
Jeanu non è più un ragazzo, è ormai diventato Giovanni, un uomo tra gli uomini, i migliori che avesse mai conosciuto.
In Italia le camice nere di Benito Mussolini hanno assassinato Giacomo Matteotti, Giovanni Amendola Pietro Gobetti, i fratelli Carlo e Nello Rosselli, occupato il Parlamento, chiuso i giornali, i partiti, tutte le voci libere, costretto gli oppositori al carcere o all’esilio.
Per Giovanni inizia una stagione di presa di coscienza politica.
Diventa un comunista. Ora Giovanni sa esattamente da che parte stare.
Giovanni Pesce è ancora in Francia e a Milano, il 27 agosto 1923, nasce Onorina Brambilla.
Cresce nel rione dei Tre Furcei, a Lambrate, in una casa operaia, di ringhiera.
La famiglia Brambilla in un appartamento di due stanze, piccolo e ordinato. Il bagno è sul balcone, in comune con gli altri inquilini dello stabile. Nell’ingresso c’è una cucina e un divano che all’occorrenza diventa un letto. E’ il luogo preferito da Onorina: ci vive, ci dorme, così di notte può leggere fino a tardi senza disturbare la sua famiglia.
Onorina ha una sorella di nome Wanda che vive con padre e madre nell’altra stanza, accanto ad un armadio con lo specchio e un secchio di rame per lavarsi. Nel pomeriggio le due bimbe restano sole, i vicini le tengono d’occhio. Giocano in cortile intorno ad un grande ceppo di cemento che diventa la loro cucina immaginaria, il loro gioco preferito.
I genitori di Onorina sono operai e antifascisti. Il padre Romeo è socialista e rifiuta la tessera del Partito nazionale fascista. La madre Maria insegna alle figlie Onorina e Wanda la fierezza delle loro condizioni economiche e sociali, il senso critico sullo stato delle cose, il perenne dubbio sulla demagogia e sulla propaganda del regime fascista.
Perché per Maria ribellarsi ai soprusi della dittatura è cosa giusta e doverosa.
Cosa significa la parola solidarietà?
Avere uno sguardo sempre proiettato sul mondo.
Senza la curiosità di osservare il mondo con altri occhi non c’è solidarietà.
Oggi questo valore si sta perdendo, in pochi lo praticano davvero, ma c’è stato un tempo dove noi conoscevamo tutto dell’Algeria e il colonialismo francese, di Corea, Cambogia e Vietnam e delle guerre americane, del Cile di Salvador Allende e del colpo di stato di Pinochet pilotato dalla Cia.
Eravamo solidali con gli altri popoli.
E molti anni prima di noi c’era anche chi rischiava la vita perché altri popoli potessero ancora vivere nella libertà.
E’ il 16 febbraio 1936.
Le notizie che provengono dalla Spagna sono travolgenti.
Il Frente popular vince le elezioni.
Il successo della sinistra crea forti aspettative tra operai e contadini, ma provoca la reazione violenta dei settori più conservatori della società spagnola, di Esercito e Chiesa.
Così inizia la guerra civile spagnola.
Per tre anni si combattono il governo repubblicano eletto dagli spagnoli e le forze nazionaliste guidate da Francisco Franco.
Gli insorti pensano ad una guerra lampo da vincere in un mese. Nei loro piani c’è la immediata presa di Madrid e Barcellona e la conquista di buona parte delle città, ma non fanno i conti con la popolazione che si schiera subito a fianco del governo repubblicano e con i volontari delle Brigate internazionali.
Vi aderiscono militanti e leader italiani come il socialista Pietro Nenni, i comunisti Palmiro Togliatti, Luigi Longo, l’azionista Carlo Rosselli, l’anarchico Camillo Berneri, il repubblicano Randolfo Pacciardi.
Vi aderisce anche Giovanni Pesce.
Il 17 novembre 1936, Giovanni parte dalla stazione di Alès insieme ad altre venti persone, verso la battaglia, verso la guerra civile spagnola.
Giovanni raggiunge Figueras.
Poi è alla stazione di Barcellona, quando i volontari repubblicani sono accolti da una folla in festa: ci sono donne, vecchi, bambini, ci sono i rappresentanti delle istituzioni, i ragazzi con i fazzoletti, le donne dai mille sorrisi e abbracci portano doni, uomini arrampicati sugli alberi. Di stazione in stazione, una folla immensa li applaude, li saluta, offre cibo, vino, calore, passione e impegno civile.
Riparte verso le tappe della sua istruzione militare, verso la guerra teorica.
La prima fermata è Albacete.
E’ un porto di mare dove approdano operai, contadini, minatori, anziani e giovani. Giovanni incrocia militanti comunisti, anarchici, socialisti, repubblicani. Sono uomini che hanno abbandonato la casa e l’azienda, miseri braccianti del Mezzogiorno di Italia, della Croazia, delle pianure d’Ungheria, minatori tedeschi. Il professore dell’Università Sorbona di Parigi e il minatore della Grand’ – Combe dividono una gavetta per mangiare, un po’ di paglia per dormire, un fucile per combattere. Tutti lasciano affetti, ambizioni, passioni.
Giovanni si sposta a trenta chilometri, alla Roda, per ultimare le esercitazioni. Ormai è un uomo pronto per la guerra e parte per il fronte.
Il suo battesimo di fuoco è a Boadilla del Monte, non lontano da Madrid.
Con il fucile strappato ad un nemico segue i compagni mentre i fascisti si ritirano a causa dell’avanzata dei francesi. Intorno a Giovanni c’è la tempesta: gli aerei fascisti cadono in picchiata contro le forze repubblicane e i volontari delle Brigate internazionali. Giovanni vede i primi morti in battaglia, ascolta le urla dei feriti, annusa il sapore del sangue.
Metro dopo metro, di battaglia in battaglia, nel fango, nella polvere, con il vento contrario, con il freddo che gli entra nelle ossa, Giovanni agguanta i fronti di Majadahonda, Arganda e Rio Jarama.
Scrive le pagine epiche della guerra civile spagnola.
Giovanni Pesce, Domenico Tomat e Ivo Faleschini piazzano le mitraglie sulla strada dal Rio Jarama verso Madrid, sparano all’impazzata contro i marocchini del Tercio che avanzano a cavallo con le loro divise lucide, con le sciabole sguainate, e impediscono ai franchisti di entrare a Madrid con un anno di anticipo.
E lui andava avanti, sguardo fisso, un moschetto in mano, poche munizioni, ma andava avanti, sotto la pioggia, con il sole che spaccava le pietre, con il vento che gli modellava il volto. Lui andava avanti.
Dopo la vittoria sul rio Jarama è la volta della mitica battaglia di Guadalajara.
Giovanni parte con la seconda compagnia, sotto la pioggia. sui camion sobbalzanti nel buio, il freddo indurito dal vento. La compagnia si mette in marcia verso Brihuega, dopo alcuni giorni di assalti riesce a sfondare le linee nemiche, i fascisti fuggono sotto i colpi degli aerei repubblicani. In centinaia vengono fatti prigionieri.
Dopo Guadalajara, Giovanni arriva a Brunete.
Viene raggiunto da una pallottola trapassante nella gamba.
E lui andava avanti, sguardo fisso, un moschetto in mano, poche munizioni, ma andava avanti, sotto la pioggia, con il sole che spaccava le pietre, con il vento che gli modellava il volto. Lui andava avanti.
Giovanni ritorna nella mischia: destinazione Huesca, in Aragona, svariati chilometri a est di Madrid.
La battaglia è difficile, ardua, impossibile.
Nella battaglia di Saragozza, a Farlete, Giovanni viene colpito da diverse schegge al torace e alla schiena
E lui andava avanti, sguardo fisso, un moschetto in mano, poche munizioni, ma andava avanti, sotto la pioggia, con il sole che spaccava le pietre, con il vento che gli modellava il volto. Lui andava avanti.
Giovanni torna ancora al fronte.
Le truppe repubblicane iniziano la traversata del fiume Ebro.
E’ l’ultima grande battaglia della guerra civile spagnola.
Inizia un terrificante bombardamento a tappeto intorno all’Ebro.
Gli ordigni franchisti e fascisti, sollevano un inferno di polvere, schegge, pietre.
Giovanni emerge sull’onda d’urto provocata dallo scoppio di una bomba di elevata potenza, sputa sangue, troppo sangue.
Viene portato all’ospedale di Barcellona.
I garibaldini affrontano per settimane senza interruzione bombardamenti aerei e attacchi della fanteria, in una resistenza eroica sulla sierra, fino alla definitiva sconfitta.
Quando Giovanni viene dimesso, le Brigate internazionali sono ormai sciolte.
E’ la vittoria del fascismo e del nazismo, l’inizio della Seconda guerra mondiale.
Onorina Brambilla vive nella Milano fascista. E’ impiegata alla società metallurgica Paronitti che produce macchine utensili. E’ una ragazza volonterosa, disponibile, dimostra una grande capacità di apprendimento. Così dopo tre mesi di tirocinio, viene assunta a tempo indeterminato a soli 14 anni. Onorina si fa subito voler bene, sarà per quel volto solare, quel sorriso sereno e felice. I colleghi scherzosamente la chiamano Topolino.
Lei non ha ancora una coscienza politica sviluppata. Certo, e’ cresciuta in quartiere operaio, da una famiglia socialista e antifascista, ma la prima vera prova resta l’ambiente in cui lavora.
Fra le sue colleghe c’é Delfina Della Bitta, addetta all’archivio. Le due ragazze diventano subito amiche. Un giorno Delfina le confida di essere comunista. Le lunghe conversazioni e i libri presi in prestito alla biblioteca del Circolo filologico in via Clerici, le aprono la coscienza sul piano culturale e politico.
L’amicizia tra Onorina e Delfina diventa sempre più forte, la relazione più intima. Le due ragazze si fidano e non nascondono le proprie idee, la visione di un mondo nuovo, il sogno di un’umanità libero diventano sempre più simili, ma c’è bisogno di un esempio concreto, di qualcuno che davvero possa rappresentare quell’idea. Non è facile durante un regime spietato, una dittatura feroce come il fascismo di Benito Mussolini, perché nelle case e nei posti di lavoro anche i muri a volte sanno ascoltare.
Un giorno Delfina le presenta Giulio Pastore, un operaio specializzato, alto e robusto, taciturno. E’ un veterano del Partito comunista italiano. Pastore ha alle spalle anni di carcere e di confino, ma nonostante il suo passato di antifascista, in fabbrica è uno dei migliori e i padroni non possono fare a meno di lui. Pastore risponde con calma a tutte le domande delle ragazze. Le racconta storie di uomini e donne che non si arrendono e non rinnegano i loro ideali. Descrive a Delfina e Onorina la brutta malattia della dittatura fascista: le persecuzioni, gli orrori, il carcere, l’esilio.
Nel 1941 Onorina se ne va dalla Paronitti. Lei è ormai un’impiegata efficiente, una segretaria esperta, una veloce stenodattilografa. Infatti, trova un altro posto in una ditta che produce binari per le ferrovie. Si aggira tra i capannoni, i macchinari, gli attrezzi, incrocia i primi operai ribelli milanesi.
Giovanni rientra in Francia e il Paese è cambiato.
Per molti italiani come lui inizia l’epoca del ritorno in patria clandestino.
Giovanni sceglie la via più semplice, quella in treno.
Dopo alcuni giorni viene arrestato dalla polizia fascista.
Viene condannato dal Tribunale speciale per la sicurezza dello Stato, e nell’estate 1940 trasferito al confino di Ventotene con il peso di una condanna di cinque anni.
Giovanni ha 22 anni e sembra abbia già vissuto una vita intera.
Parte da Torino scortato da due carabinieri, sosta per una notte nel carcere milanese di San Vittore.
Poi, dalla stazione centrale di Milano, riprende la marcia verso il penitenziario di Gaeta.
L’ultima tappa è Ventotene.
E’ un’isola delle Pontine a sud di Ponza, non lontana da Santo Stefano. E’ un lembo di terra lungo 2.700 metri e largo meno d’un terzo. L’unica altura è la Punta dell’Arco. L’isola è costellata da spiagge, caverne, strapiombi. D’estate il caldo è torrido, d’inverno soffiano forti venti di tramontana. La flora è tipicamente mediterranea con ulivi, gelsi, fichi d’india, agave, robinia e fiori colorati e profumati.
Ci sono due o tre negozi, la farmacia, la chiesa di Santa Candida. Le vie hanno nomi che sanno di mare e terra: Granili, Ulivi, Calanave. Le case degli abitanti sono tutte ad un piano, il tetto bianco di calce, i colori a volte tenui. Per due volte la settimana il traghetto postale trasporta persone, viveri, provviste di ogni tipo, condizioni del mare permettendo.
Per lunghi anni, Ventotene diventa la casa di circa 800 confinati antifascisti.
A Ventotene arrivano cattolici, socialisti, repubblicani, militanti di Giustizia e libertà, anarchici.
Giovanni vive in uno dei dodici padiglioni confinari in tufo e cemento: settanta persone ammassate in pochi metri quadrati che dormono sopra brande sfatte, coperte e lenzuola sporche e lacerate, in un’autentica bolgia.
Alle prime luci dell’alba c’é la sveglia. Il caffè arriva in camera ma è brodaglia nerastra. Il latte è poco e non basta per tutti. Dalle 8:00 del mattino i confinati iniziano a passeggiare lungo le vie dell’isola, non più di due alla volta: dopo qualche minuto ognuno si scambia il compagno, così le notizie, le discussioni, i documenti, le decisioni politiche girano per tutta la comunità. Tutto avviene intorno a piazza Castello, un forte borbonico, un semplice spiazzo di terra battuta.
A pranzo e cena i prigionieri mangiano nelle sette mense autogestite di via Granili: pastasciutta, verdure coltivate negli orti, qualche volta carne, di domenica e alle feste comandate c’è il dolce.
Ed è proprio nell’isola di Ventotene che avviene la mutazione genetica di Giovanni Pesce.
Per quel giovane proletario italiano, emigrato in Francia, ex minatore, l’esperienza carceraria diventa fondamentale alla sua formazione culturale. A Ventotene Giovanni Pesce incontra Umberto Terracini, di cui diventa grande amico, e Camilla Ravera.
Tra i molti intellettuali presenti a Ventotene, Giovanni Pesce fa subito amicizia con Eugenio Curiel.
Intanto la fine del regime fascista si avvicina, lenta ma inesorabile.
24 luglio 1943, ore 17:00.
Inizia la riunione del Gran consiglio del fascismo, organismo costituzionale e direttorio politico del Partito nazionale fascista.
Alle 3:00 di notte del 25 luglio, viene approvato l’ordine del giorno dei gerarchi Giuseppe Bottai, Dino Grandi e Galeazzo Ciano. Prevede la restituzione dell’alto Comando al re.
Benito Mussolini viene destituito e subito arrestato.
25 luglio 1943, ore 22:45. Il popolo italiano apprende dalla radio che il re ha assunto il Comando supremo delle forze armate e Pietro Badoglio è a capo del governo militare del Paese con pieni poteri. Benito Mussolini viene condotto per tre giorni alla caserma della Legione allievi carabinieri, nel quartiere Prati di Roma. Poi trasferito via mare nelle isole di Ventotene, Ponza, Maddalena. Infine rinchiuso in una cella a Campo Imperatore, in Abruzzo, sorvegliato da 250 uomini tra carabinieri e guardia di finanza.
Ovunque, le manifestazioni di piazza salutano la caduta del regime fascista.
Anche a Ventotene i confinati radunati in piazza Castello applaudono la caduta del fascismo.
Si alzano canti da stadio, qualcuno sventola la bandiera rossa e il tricolore, in molti gridano «Viva l’Italia libera».
I simboli del regime fascista e la rete di controllo si dissolvono in pochi giorni. Viene tolto il filo spinato e i confinati possono finalmente camminare liberi per tutta l’isola.
Giovanni Pesce si imbarca il 23 agosto 1943 e torna in treno nella sua Visone d’Acqui.
8 settembre 1943, ore 19:45: dopo cinque giorni di trattative, Pietro Badoglio annuncia l’armistizio dai microfoni dell’Eiar. La reazione e’ modesta e l’intero quartier generale dell’esercito italiano viene spazzato via in pochi attimi perché lasciato solo a combattere contro una forza ben più grande e attrezzata, quella tedesca.
9 settembre, ore 5:10. Il Re, la famiglia reale e Pietro Badoglio, seguiti da un corteo composto da generali e funzionari, abbandonano Roma, diretti a Pescara, dove li attende una corvetta che li trasporta in Puglia. L’Italia è ormai occupata da ore dai nazisti. L’esercito regolare muore schiacciato da una guerra più grande delle sue possibilità militari, lasciato a sé stesso nelle ore dell’agonia, dal re e dal Comando supremo militare. Gli ufficiali di professione attendono ordini che non arriveranno mai. I soldati sfondano le porte, escono dalle camerate, abbandonano le caserme, le armi pesanti e leggere, tutti i loro mezzi, barattano per pochi soldi ogni abito borghese, ogni via di scampo, ogni ritorno a casa. L’Italia si trasforma in un’immensa retrovia dove i soldati fuggono e si nascondono nelle case di famiglia, nei boschi, nelle valli, tra sentieri impervi, piccoli borghi e rifugi di montagna.
Allora inizia la Resistenza.
Per i ribelli saranno anni lunghi, difficili, febbrili.
Prendere e sotterrare armi dappertutto: nei boschi, nelle baite di montagna, negli scantinati dei palazzi delle città, perfino nelle tombe dei piccoli cimiteri. Trasportarle con carri riempiti di segatura, coperti di fascine, di fieno.
Procurarsi farina, lardo, pane, benzina. Scambiare sale con olio e olio con munizioni. Cercare vestiti, scarpe, calzettoni di lana, tagliare legna, cuocere cibo per centinaia di persone, fabbricare letti con tronchi di pino e sacchi di paglia e di foglie, curarsi dalla scabbia, dai pidocchi. Sparare precisi senza consumare colpi inutili, tenere le armi in sicurezza, abbandonare e conquistare postazioni, fuggire da attacchi improvvisi del nemico, sganciarsi dai rastrellamenti, lanciarsi in dirupi scoscesi, bui e spaventosi, con zaini pesanti, sotto piogge torrenziali e nevicate, sotto il caldo sole di agosto. Fare i turni di notte in mezzo alla nebbia fitta, ascoltare i rumori dei boschi, dove anche il più impercettibile fruscio può rappresentare un pericolo, girare rasenti ai muri delle case, mischiarsi alla folla delle piazze nelle città. Stampare giornali clandestini, distribuirli attraverso camioncini coperti da cassette di frutta e verdura, nelle sporte delle donne, nelle carrozzelle dei bambini, nei carrelli da negozio.
E ancora comprendere il linguaggio della povera gente, capire i loro bisogni, i dialetti, gli sguardi solitari dei montanari. Decifrare i segreti di città grigie, morte quando scende la sera ed entra in vigore il coprifuoco, dove per le strade si incontrano solo le pattuglie tedesche e fasciste con le loro camionette. E infine vivere nel silenzio di case senza acqua, luce e riscaldamento, in città dove le razioni delle tessere annonarie sono appena al livello della mera sussistenza, dove ci si muove di notte come gatti tra migliaia di case distrutte dai bombardamenti e di giorno nella paura di essere arrestati, incarcerati, torturati, fucilati senza alcun processo e senza aver diritto ad un avvocato che possa difenderli.
Tedeschi e fascisti cercano Giovanni Pesce ovunque e l’arresto lo sfiora di un soffio nella casa della zia Celeste, a Visone d’Acqui.
Raggiunge Torino, inizia la guerra dei Gap.
A Torino, Giovanni Pesce prende il nome di battaglia Ivaldi.
Compie sopralluoghi con la sua bicicletta.
Mette a fuoco l’intera rete viaria della città, controlla vicoli, strade, sbocchi laterali. Impara a memoria l’ubicazione delle caserme, dei comandi fascisti e nazisti, dei depositi degli autoveicoli, dei locali pubblici frequentati da ufficiali delle SS.
Deve subito agire, dare un segnale chiaro ai torinesi.
Il 23 dicembre 1943, la prima azione e’ contro il maresciallo della Milizia Aldo Morej.
Giovanni spara con due pistole, tre colpi alla schiena e il quarto alla tempia, lo uccide e poi fugge con la sua bicicletta tra il parapiglia generale e torna nella base.
Il secondo colpo di mano e’ un attentato dinamitardo contro un locale gremito di tedeschi e fascisti E’ il 2 gennaio 1944. Andrea si accende una sigaretta, attiva la miccia con la brace. Giovanni deposita l’ordigno sul davanzale. Antonio, in funzione da palo, li attende alle biciclette. Dopo pochi secondi si sente forte e chiaro il boato fragoroso della bomba. I tre partigiani sono già lontani, pedalano tranquilli in corso Stati Uniti.
Il terzo attacco e’ a dir poco temerario. Il 12 gennaio 1944, Giovanni ha l’ordine di eliminare due ufficiali nazisti sotto i portici di Corso Vittorio Emanuele. Dal caffè di fronte escono i due tedeschi, Giovanni si avvicina e li ammazza con dodici colpi precisi. E due. D’improvviso si volta, intorno la gente fugge, dal caffè escono altri due nazisti con le machine pistole in pugno che corrono verso di lui. Giovanni sta per sparare, ma le armi non hanno più proiettili. Gira l’angolo di via Gioberti, cambia i caricatori. Intanto i due tedeschi gli sono sempre addosso, Giovanni esce allo scoperto, preme il grilletto e li elimina. E quattro. Ne arrivano altri di corsa, non sono lontani, Giovanni gli scarica addosso un intero caricatore, qualcuno resta ferito anche in modo grave, infine raggiunge la bicicletta di Antonio, si confonde nel traffico urbano e torna nel suo rifugio.
Il lavoro dei gappisti di Giovanni Pesce e’ febbrile. L’obiettivo e’ essere in pochissimi, meno di dieci, e sembrare in migliaia agli occhi del nemico e della popolazione. E’ la tecnica della guerriglia. All’orrore delle deportazioni, delle torture, delle fucilazioni nazifasciste, i partigiani rispondono con il terrore.
Giovanni Pesce diventa il ricercato numero uno. Sulla sua testa pesano otto taglie record per quegli anni, per un ammontare di oltre 100mila lire. Ma lui è ineffabile, colpisce e diventa un fantasma, uccide il nemico e si mischia alla folla della città, come un operaio o un artigiano qualsiasi. Ormai e’ la vera primula rossa dell’antifascismo italiano.
Il blitz e’ fissato la notte tra il 16 e il 17 maggio 1944.
Una stazione radio Eiar sul fiume Stura, in Corso Giulio Cesare, disturba le trasmissioni di Radio Londra. Gli antifascisti non possono ascoltare i commenti del colonnello Harold Stevens e i messaggi in codice rivolti ai partigiani, preceduti dalla nona sinfonia di Ludwig van Beethoven.
Le parole escono monche dall’apparecchio, spesso incomprensibili, lontanissime. I fruscii coprono le emissioni sonore. È così ogni sera. Bisogna fermare il disturbo, rendere in chiaro Radio Londra. Lo chiedono gli inglesi, lo vuole il partito.
Giovanni Pesce, Giuseppe Bravin, Francesco Valentino e Dante Di Nanni disarmano nove carabinieri di guardia dentro la stazione radio ma non li uccidono. I miracolati avvertono i camerati e i partigiani vengono sorpresi da un intero reparto nemico.
Dall’alto del ponte della strada per Milano, almeno cento tedeschi sparano con ogni arma contro i quattro partigiani, inquadrati dai riflettori manovrati dai genieri. Per i gappisti l’unica via di salvezza sta alle spalle dei tedeschi, cioè verso il ponte. A pochi metri dallo sbarramento, i quattro aprono anch’essi il fuoco. La reazione improvvisa sconcerta il nemico. Si apre un piccolo varco e i quattro passano, ma d’improvviso tornano a splendere gli occhi accecanti dei riflettori.
I partigiani sono tutti feriti.
Giuseppe Bravin e Francesco Valentino vengono catturati.
Del gruppo, Giovanni riesce a salvare se stesso e Dante Di Nanni, colpito gravemente da sette proiettili al ventre, alla testa e alle gambe.
L’ultimo viaggio di Dante Di Nanni è tortuoso.
Torino è piena di posti di blocco di fascisti e nazisti, ma Giovanni conosce i percorsi meno battuti, le strade secondarie, gli anfratti segreti della città. Prima porta il ragazzo in una cascina, poi, attraverso un carretto guidato da un contadino, nella sua base di via San Bernardino 14, in borgo San Paolo a Torino. Pesce chiama un medico antifascista che visita Di Nanni e ordina il suo immediato ricovero in ospedale.
Così lascia il ragazzo, esce dalla base e va ad organizzare il trasporto del ferito.
Poco dopo, in via San Bernardino 14, arrivano i fascisti e i nazisti avvertiti da un delatore.
Dante Di Nanni organizza la sua ultima battaglia solitaria, uno contro cento. Nove morti tra fascisti e nazisti, diciassette feriti: tutti uccisi dal ragazzo in una girandola di colpi precisi.
Ora tirano dalla strada, dal campanile e dalle case più lontane. Gli sono addosso, non gli lasciano scampo. Di Nanni toglie di tasca l’ultima cartuccia, la innesta nel caricatore e arma il carrello. Il modo migliore di finirla sarebbe di appoggiare la canna del mitra sotto il mento, tirando il grilletto poi con il pollice. Forse a Di Nanni sembra una cosa ridicola; da ufficiale di carriera. E mentre attorno continuano a sparare, si rovescia di nuovo sul ventre, punta il mitra al campanile e attende, al riparo dei colpi. Quando viene il momento mira con cura, come fosse a una gara di tiro. L’ultimo fascista cade fulminato col colpo. Adesso non c’è più niente da fare: allora Di Nanni afferra le sbarre della ringhiera e con uno sforzo disperato si leva in piedi aspettando la raffica. Gli spari invece cessano sul tetto, nella strada, dalle finestre delle case, si vedono apparire uno alla volta fascisti e tedeschi. Guardano il Gappista che li aveva decimati e messi in fuga. Incerti e sconcertati, guardano il ragazzo coperto di sangue che li ha battuti. E non sparano. È in quell’attimo che Di Nanni si appoggia in avanti, premendo il ventre alla ringhiera e saluta col pugno alzato gridando Viva l’Italia. Poi si getta di schianto con le braccia aperte nella strada stretta, piena di silenzio”.
Milano è rasa al suolo dai bombardamenti degli aerei alleati. La città è in fiamme: colpiti Duomo, Palazzo Reale, Castello Sforzesco, Scala, Sant’Ambrogio e molte chiese, la Pinacoteca di Brera, gran parte dei teatri, le principali fabbriche, l’Archivio di Stato. Sono ridotti i trasporti pubblici urbani. Interi quartieri sono devastati, alcune famiglie rimangono sepolte vive negli scantinati sotto immensi cumuli di macerie. Tra 1200 e 2000 vittime. Per molti non vi è neppure il conforto di un funerale. 184 bambini e 19 maestre muoiono durante un attacco aereo alleato nella scuola elementare Francesco Crispi del quartiere popolare di Gorla, il 20 ottobre 1944.
Milano e’ spopolata.
200mila milanesi sono sfollati altrove, in prevalenza sono operai. La borghesia e’ invece riparata nelle campagne, nelle valli lombarde, in riva ai laghi.
Milano è affamata.
Il costo della vita diviene elevatissimo grazie alla fissazione del tasso di cambio lira- marco nel rapporto di dieci a uno. La razione di pane giornaliera scende a 150 grammi a persona. I buoni del Tesoro perdono ogni valore. La borsa nera arricchisce gli speculatori, mentre la maggioranza della popolazione vive con un terzo del minimo della sopravvivenza. Mancano zucchero, sale, scarpe, carburante. Mettere in tavola cibo ogni giorno costa ormai fatica.
Milano e’ senza lavoro.
12mila licenziamenti colpiscono senza distinzioni le principali fabbriche della città. La difesa del posto di lavoro e del salario divengono necessità vitali, per operai e impiegati. È mera lotta alla sopravvivenza.
Milano è impaurita. I muri della città sono tappezzati di ordinanze e divieti dei nazifascisti con la minaccia di dure rappresaglie. Circolare a piedi o in bicicletta può essere un rischio per i civili. Per gli antifascisti sono mesi di torture, interrogatori, assassini, fucilazioni. Dal binario 21 della stazione centrale partono ogni giorno i carri merci carichi di oppositori al regime fascista e all’occupazione nazista ed ebrei, trasferiti nei campi di concentramento in Germania e Polonia. Molti di loro mai più ritorneranno.
Milano è disseminata di luoghi dell’orrore dove sono attive le compagnie di ventura, i contabili della morte del fascismo e del nazismo.
Walter Rauff e Theodor Saevecke, funzionari della (Sipo-Sd), risiedono all’hotel Regina.
La X Mas del principe Junio Valerio Borghese occupa gli uffici di piazza Fiume, oggi piazza della Repubblica.
La legione autonoma mobile Ettore Muti è al palazzo Carmagnola in via Rovello 2, oggi Piccolo Teatro, e alla caserma Salinas di Pasquale Cardella, in via Tivoli 1, oggi Istituto scolastico Schiaparelli.
Nel carcere di San Vittore, si mettono in evidenza il maresciallo Helmuth Klemm e il caporalmaggiore Franz Staltmayer, detto la Belva o il porcaro, sempre con il frustino in mano e un inseparabile cane lupo.
Sempre a San Vittore operano i tenenti Manlio Melli e Dante Colombo, agenti dell’Ufficio politico investigativo (Upi), alle dipendenze del maggiore Ferdinando Bossi.
Il Reparto speciale di Polizia di Pietro Koch è invece a Villa Fossati, Villa Triste, in via Paolo Uccello 17-19.
In questo tragico clima vive Onorina Brambilla nel quartiere milanese di Lambrate.
Le case sono attrezzate con rifugi di fortuna, protetti da sacchi di sabbia e con uscite di soccorso verso l’esterno.
Dipinti sui muri ci sono cerchi neri con scritte bianche (Us, uscita di soccorso), ma sono insufficienti a proteggere la popolazione dai bombardamenti devastanti.
E allora, di sera e di notte, anche Onorina e la sua famiglia si nasconde nei rifugi a tenuta stagna con le porte blindate.
Li chiamano Rifugi civili.
Quando apri la porta, dentro ci puoi vedere un mondo fatto di cose e persone.
La donna che allatta il figlio, il nonno con la coperta addosso, la madre di famiglia che prepara il thermos con il caffè di cicoria.
C’è chi si porta la valigetta con le lettere dei figli dal fronte.
Una sera, in un rifugio affollato della zona, Onorina non riesce a trattenere la rabbia, sale sul tavolo e grida a tutti. «È ora di finirla con questa guerra!».
Anche per Onorina Brambilla giunge il tempo delle scelte. Durante gli scioperi del 1943 nelle fabbriche milanesi, Onorina trasporta i volantini che inneggiano alla ribellione. Con la madre Maria, nome di battaglia Tatiana, Onorina aderisce ai Gruppi di difesa della donna, una rete antifascista formata da sole donne. Onorina distribuisce «l’Unità» clandestina. Sono le sue prime azioni da resistente.
Il dramma sul fiume Stura, la morte di Dante Di Nanni, il ferimento, l’arresto e l’impiccagione dei compagni di battaglia Giuseppe Bravin e Francesco Valentino, segnano un solco profondo nel cammino di Giovanni Pesce.
Tedeschi e fascisti conoscono il suo nome di battaglia Ivaldi.
Non può stare a Torino un minuto in più, il nemico potrebbe arrivargli addosso da un momento all’altro, far cadere l’intera rete dei Gap.
Si trasferisce a Milano dove prende il Comando del 3° Gap, con il nome di battaglia Visone.
Come a Torino, Giovanni si informa sulla rete viaria di Milano, sulle sue vie di comunicazione, stazioni ferroviarie, ponti, strade, autostrade, vicoli, piazze, comandi e ritrovi dei nazifascisti, su tutte le vie di fuga possibili. Poi pensa a costruire basi sicure.
Di giorno in giorno Giovanni costruisce la rete cospirativa.
Poi passa all’azione.
E sulle vie partigiane milanesi, Giovanni incrocia Onorina Brambilla. E’ l’incontro decisivo. Giovanni la chiama subito confidenzialmente Nori e diventa la sua staffetta partigiana, nome di battaglia Sandra.
Tra Giovanni e Nori inizia ben presto una storia d’amore che durerà l’intera vita.
Sono i mesi dei drammi, dell’atto temerario, della solitudine. Perché il gappista è un anonimo, vive tappato in casa, trascorre solo lunghe ore, giorni, settimane. Sente aleggiare intorno la paura e ne scopre i mille volti. E’ sempre teso, all’erta. Prima di quella con il nemico deve vincere la battaglia di nervi con se stesso. Perché una cosa é combattere in montagna, in cui un ribelle crede di avere le spalle al sicuro. Vede arrivare il nemico, sceglie lui il momento dell’azione. Ben diversa è la vita in città. Il ribelle é isolato, non ha le spalle al sicuro, non ha compagni che lo aiutano, non può avere contatti con la propria famiglia, moglie, fidanzata. Gli unici rapporti consentiti sono quelli con il Comando, ma non diretti: tutto deve avvenire tramite le reciproche staffette che fissano gli appuntamenti e si accordano sulle azioni. Chi non rispetta le regole è perduto. Molti gappisti vengono arrestati e fucilati perché parlano direttamente o indirettamente con la loro compagna. Non è cosa per tutti. E’ vita grama. Per combattere in una città come Milano ci vogliono persone con caratteristiche particolari, che ragionano con sentimento, intelligenza, arguzia, curiosità, ma posseggono una forte coscienza morale, una grande motivazione politica. Nonostante le misure di massima vigilanza adottate e sperimentate con successo da Giovanni, Milano è anche un crocevia di spie e delatori al servizio del nemico.
Giovanni Jannelli, nome di battaglia Arconati, é una spia al servizio del nemico: nel suo portafoglio conserva la tessera delle Ss numero 44, con tanto di foto e firma di un funzionario nazista. Arconati è riuscito a conquistare la fiducia dei partigiani milanesi grazie ai suoi modi affabili ed eleganti.
Dispone di depositi di armi e di un gruppo pronto all’azione.
Così Giovanni lo incontra a Milano, ma Arconati parla ad alta voce, a volte a sproposito, fa troppe domande.
Più che un incontro tra partigiani sembra un vero e proprio interrogatorio.
E Giovanni si insospettisce.
Alle 17:30 del 12 settembre 1944, Giovanni deve vedere Arconati in Piazza Argentina: gli vuole proporre la consegna di un pacco d’armi. Nello stesso giorno, in via Ponzio 35, vicino alla piscina, cade in uno scontro a fuoco con i fascisti il gappista Olivero Conti Romeo e viene ferito Antonio Sironi, poi ricoverato al Policlinico.
A quel punto, Giovanni preferisce liberare subito Sironi dal Policlinico prima che possa venire arrestato e invia le staffette Sandra e Narva in Piazza Argentina per comunicare ad Arconati lo slittamento dell’incontro.
L’appuntamento è una trappola.
Le staffette vengono arrestate.
Nori viene torturata al Comando delle Ss di Monza, inviata nel carcere San Vittore e inghiottita nel campo di transito e di polizia di Bolzano- Gries.
Il primo impatto di Nori con Bolzano è un pugno nello stomaco.
Il campo è circondato da un muro di cemento con rotoli di filo spinato dispiegati lungo i quattro lati, all’angolo dei quali sorgono garitte di legno con guardie armate munite di mitragliatrice.
Ci sono le baracche, i prigionieri, le mura, i reticolati.
Il cibo é una disgustosa brodaglia.
Le condizioni generali sono insalubri: topi, pidocchi, scarafaggi corrono dappertutto.
La divisa del campo é una casacca con pantaloni di tela da imballaggio bianco sporco e sulla schiena spicca una grande croce rossa: detenuta politica.
A Nori le viene assegnato il numero di matricola 6087, col triangolo rosso dei politici e viene destinata al blocco F.
Gli aguzzini infliggono ai prigionieri le punizioni più dure, anche per futili motivi: calci, colpi di randello, frustate.
Le torture si svolgono nei blocchi, nella palazzina del Comando, nelle celle di punizione, stanzette di cemento, buie e gelate.
Nori è ormai imprigionata nella macchina dell’orrore nazista.
Giovanni Pesce viene spedito a dirigere i partigiani della Valle Olona, dopo l’arresto di Nori. Poi a dicembre torna alla guida dei suoi Gap.
Il 16 dicembre 1944, Benito Mussolini è atteso a Milano. Giovanni apprende la notizia dalla radio, dalle prime pagine dei giornali e dalla serrata propaganda degli apparati del regime. Il duce è in difficoltà perché sul piano militare la guerra è ormai persa. Così intende motivare i suoi repubblichini e rivitalizzare la metropoli lombarda, fortemente scossa dagli ultimi sviluppi del conflitto bellico, nella fallace speranza di un rilancio politico.
Il programma ufficiale, improvvisato in poche ore, prevede un suo discorso al teatro Lirico e il giorno dopo la sua presenza al corteo che sfila nel centro di Milano, da corso Garibaldi a piazza Castello.
Giovanni vuole colpire il duce a tutti i costi.
Ma come fare?
Mussolini si muove sempre scortato dalla Guardia nazionale repubblicana, dalle Brigate nere, dalla X Mas del principe Junio Valerio Borghese, dalla legione autonoma mobile Ettore Muti.
Allora Giovanni fissa un appuntamento in corso Venezia con Dante Conti e Italo Busetto.
La discussione diventa aspra, perché un‘azione dinamitarda di quelle dimensioni può provocare certamente numerose vittime tra i civili.
Il partito è incerto, poi diventa indisponibile.
Giovanni raggiunge comunque il teatro Lirico, capisce che non c’è margine per l’operazione e cerca quindi una soluzione alternativa.
Il teatro Lirico quel giorno è stracolmo e il duce sprona con forza i fascisti milanesi.
Come previsto, il 17 dicembre 1944, Mussolini sfila in mezzo al corteo delle camice nere armate fino ai denti e ai fascisti milanesi che urlano slogan lugubri e agitano bandiere, labari e gagliardetti. I gappisti seguono l’adunata da lontano: attraversano in modo rapido via Cusani, Foro Bonaparte, e sbucano in piazza Luca Beltrami, dove migliaia di persone attendono il duce con trepidazione.
Mussolini parla dalla torretta di un mezzo corazzato in piazza Cordusio. Appena terminato il discorso, saluta la folla e percorre via Dante a bordo di una macchina scoperta che procede a passo d’uomo.
Giovanni e i suoi partigiani riprendono la marcia di avvicinamento, mantenendo la debita distanza di sicurezza.
Percorrono a piedi via Pozzone, via Rovello, via S. Tommaso, fino all’angolo di via Dante.
La folla è sempre più impetuosa e vibrante.
Una donna riesce perfino a rompere il cordone di sicurezza ed a consegnare personalmente un mazzo di fiori a Mussolini. Il rischio che l’azione provochi vittime innocenti tra la popolazione è altissimo.
Giovanni non dispone di un rifugio in quella zona dove può nascondersi nei momenti successivi all’attacco.
Non c’è nulla da fare.
Con rammarico, rinuncia all’impresa.
E’ l’ultimo inverno prima della fine della seconda guerra mondiale.
I primi mesi del 1945 sono i peggiori.
A Milano, la luce, il gas e l’acqua vengono erogati solo per qualche ora al giorno e non tutti i giorni.
Diminuiscono le razioni alimentari. Tutto è limitato: pane nero, carne, latte, caffè di cicoria, capi di abbigliamento, sigarette, sale. Per acquistare ci vogliono i bollini delle tessere nominative. La razione individuale di pane giornaliera scende fino a 100 grammi. Non è sufficiente avere la tessera perché spesso mancano i prodotti. Davanti ai negozi permangono file interminabili e milanesi resistono anche quando suona l’allarme aereo. Poi ci sono le mense collettive che somministrano un pasto caldo per 5 lire: zuppa di verdura, un pezzo di mortadella, poco altro.
Nelle case il freddo è pungente, entra nelle ossa e non fa dormire. I geloni gonfiano i piedi. Qualcuno gira con pantofole di stoffa perché non riesce neppure a infilarsi le scarpe.
Si soffre la fame, il freddo, si sfidano le bombe e le persecuzioni nazifasciste, ma nessuno intende mollare.
16 marzo 1945.
La strada verso la Liberazione è ormai segnata.
Mancano soltanto 40 giorni, ma gli ultimi colpi del fascismo sono brutali. Alla fabbrica aeronautica Caproni di Milano, si distingue per efferatezza Cesare Cesarini, tenente colonnello onorario della legione autonoma mobile Ettore Muti e capo dell’ufficio personale della fabbrica aeronautica milanese di Taliedo.
Cesare Cesarini è il dobermann del fascismo, una specie di gigante, l’immagine della prepotenza e del terrore.
Assiste agli arresti, ordina la schedatura dei lavoratori e consegna gli elenchi ai nazisti.
Ma quel giorno di marzo, Cesare Cesarini incontra sul suo cammino il gappista Giovanni Pesce Visone.
È il giorno della sua morte.
Sono le 7:20 e mi scopro impaziente e tranquillo. Da piazza Grandi spunta Cesarini. Non ho bisogno di muovermi. È lui stesso che mi viene incontro col passo tracotante, di chi non vuole nessuno sul suo cammino. Ma sulla sua via ci sono io, il figlio dell’operaio piemontese fuggito in Francia per non subire la prepotenza dei Cesarini di ieri e di oggi. Gli sbarro la strada. Gli spiano in faccia le due rivoltelle e la sua faccia rivela soltanto stupore. Non avrebbe mai creduto possibile che qualcuno osasse fermarlo. Gli grido forte, perché gli operai che sono attorno sentano: ‘Cesarini, hai finito di deportare i lavoratori della Caproni’. Sparo. Tenta di mettere mano alla fondina ma è già a terra assieme a uno dei suoi accompagnatori. L’altro cerca di togliersi di spalla il mitra, ma non fa in tempo. Le mie armi sono scariche. Grido: ‘Giustizia è fatta, insorgete contro il fascismo’. La gente che, al rumore degli spari, si è gettata a terra, si alza e applaude. Alcuni gridano: ‘Hanno ucciso Cesarini, evviva’. È il momento di fuggire. La strada è libera.
Nel frattempo Giovanni sta già organizzando l’insurrezione a Milano, gli ultimi spari verso la democrazia, verso la libertà conquistata.
E’ l’alba del 24 aprile.
In piazza Castello, a Milano, Giovanni Pesce incontra Franco Conti della Pirelli: «Siamo alla stretta finale, tra poche ore sarà dato l’ordine dell’insurrezione. Questa volta ci siamo, questa volta è scontro aperto».
Conti è commosso, emozionato, assicura che alla Pirelli gli operai sono pronti da ore.
Giovanni guarda piazza Castello e la città non è più la stessa.
Un ragazzo canta e fischietta mentre pedala con la sua bicicletta.
Uomini e donne camminano verso i luoghi di lavoro con la testa alta, non più ricurvi, impauriti e rassegnati come poche settimane prima.
Sente odore di primavera e di libertà.
Perché tutto quello che sta per accadere a Milano non può che avvenire in primavera, soltanto in primavera.
E in quei minuti che sembrano eterni, Giovanni ritorna indietro con i ricordi della sua vita, come fosse un film in bianco e nero che sta prendendo colore, mentre si avvia la tanto attesa Liberazione.
I giorni dell’infanzia passati con la famiglia a Visone d’Acqui, l’immigrazione in Francia, il lavoro in miniera, la guerra civile spagnola, la ritirata, il ritorno a La Grand’-Combe, il viaggio di ritorno in Italia, l’arresto, il carcere, il confino di Ventotene, la sua crescita culturale e politica, i libri proibiti dal regime letti e divorati.
E ancora la guerra dei Gap a Torino e Milano, le notti e i giorni consumati a guardare il soffitto e studiare cartine topografiche delle città, il senso di solitudine e di sconfitta, i volti delle decine di compagni e amici uccisi in battaglia in Spagna e in Italia.
E infine la paura, la rabbia, le mille azioni, i colpi di mano, la morte sfiorata di un soffio, il volto della sua Nori torturata a Monza e segregata da mesi nel campo di concentramento di Bolzano, la cui sorte conosce solo attraverso le lettere che gli legge Maria, la mamma di Nori.
Non c’è più tempo per i ricordi, perché Giovanni va di fretta, deve liberare l’Italia e c’è ancora un gran lavoro da fare.
Soprattutto deve salvare gli impianti, gli stabilimenti, le fabbriche, perché il giorno dopo la Liberazione, il Paese deve mettersi in moto e ricostruirsi una dignità offesa e calpestata dal fascismo.
Non si può fermare, neanche per un attimo, perché tutto è in movimento, tutto gira velocemente..
E’ una forza inarrestabile.
E’ la forza della Liberazione.
E allora si parte
Luigi Longo fa recapitare un bigliettino a Pietro Secchia: «La và a minuti».
Così Secchia mobilita tutte le staffette, ogni mezzo di collegamento e predispone migliaia di copie dell’ordine dell’insurrezione destinato alle formazioni garibaldine.
Il Comitato di liberazione Nazionale Alta Italia dirama l’ordine dello sciopero generale a partire dal 25 aprile.
Tutto deve cadere in poco tempo nelle mani partigiane, in azioni simultanee: edifici governativi, commissariati di polizia, istituti economici, banche, sedi direzionali di fabbriche e società, stazioni, telegrafi, comandi, ritrovi fascisti, redazioni di giornali.
Il funzionamento dei servizi pubblici deve riprendere immediatamente sotto la gestione degli insorti e nell’interesse di tutta la popolazione.
Le staffette girano per Milano in bicicletta e portano ai distaccamenti l’ordine del piano insurrezionale.
Tutto è pronto.
Sono ore concitate.
Il sole sorge finalmente nel giorno dei giorni.
Il 25 aprile 1945, la ribellione di Milano al fascismo e al nazismo parte all’alba.
Leo Valiani del Partito d’Azione scrive l’ordine decisivo a matita su un biglietto.
Quel foglietto va subito ad accendere i fuochi dell’insurrezione milanese in tutte le fabbriche e i quartieri della città.
Alle ore 8:00 precise, nel collegio dei salesiani di via Copernico si riunisce il Comitato di liberazione nazionale dell’alta Italia (Clnai), e proclama l’insurrezione.
Assume tutti i poteri civili e militari, scioglie i reparti armati fascisti, assicura il trattamento di prigionieri di guerra a quelli tedeschi.
E ancora nomina le commissioni di giustizia per la funzione inquirente, i tribunali di guerra e le corti d’assise popolari per quella giudicante al palazzo di Giustizia.
Alle 13:00, inizia lo sciopero generale.
Le colonne di manifestanti si formano ovunque.
Le fabbriche milanesi sono presidiate dagli operai in armi.
Ogni reparto, ogni ufficio ha insediato il suo gruppo organizzato, il suo Cln aziendale.
Sparano i cecchini, sparano i fascisti dalle autocolonne in fuga, sparano i partigiani.
Per Giovanni, il lavoro è febbrile.
Il 25 aprile è un giorno che vale cento anni.
Si mette in cammino per la città perché vuole verificare di persona se tutti i comitati clandestini hanno messo in pratica l’ordine di occupazione delle fabbriche.
Giovanni ha cento itinerari, cento istruzioni da dare agli operai, cento informazioni da ricevere e da trasmettere.
Intanto Mussolini fugge via da Milano, abbandonato dai suoi stessi alleati, e in città, la sera del 25 aprile, avviene qualcosa di unico, straordinario, indimenticabile e poco conosciuto.
Nonostante sia ancora in vigore il coprifuoco, alcuni patrioti compiono un piccolo grande miracolo.
Nelle case dei milanesi brillano le luci delle lampadine.
Tutto d’improvviso si illumina come in una sorta di rito magico:gli appartamenti, i reparti delle fabbriche, i lampioni delle strade e delle piazze.
Il lavoro paziente, delicato e pericoloso delle squadre operaie delle Sap, iniziato mesi prima, ha permesso di salvare gli impianti di produzione dell’energia elettrica, le grandi centrali della Valtellina della Aem, quelle che distribuiscono la corrente al capoluogo lombardo.
Il 26 aprile 1945, di mattina, il 4° battaglione della guardia di finanza occupa il palazzo della prefettura in corso Monforte di Milano. L’azionista Riccardo Lombardi è il nuovo prefetto della città. Il socialista Antonio Greppi varca il portone di Palazzo Marino. È il primo sindaco della Milano democratica. Dalla stazione radio di Morivione il comandante delle Brigate Matteotti, Corrado Bonfantini, annuncia la liberazione di Milano.
Il 30 aprile 1945, i tedeschi se ne vanno a gambe levate dal campo di concentramento di transito e polizia di Bolzano.
Prima di andarsene, i nazisti spalancano i portoni del lager e consegnano ai detenuti un documento che attesta la loro uscita.
A quel punto, i deportati attendono solo l’arrivo degli americani, ma c’è chi pensa di anticipare la fuga.
Il viaggio di trasferimento di Nori verso Milano inizia il 1 maggio 1945.
Sotto la fitta neve, con alcuni compagni come Carlo Milanesi, si inerpica sul passo della Mendola, attraversa la Val di Non e il passo del Tonale.
Gli scampati dal lager di Bolzano si fermano la notte presso i contadini ai quali chiedono qualche patata, latte e polenta, riparo nelle stalle.
Sono stanchi, denutriti, malmessi, i vestiti sono degli stracci, non posseggono una lira.
Saranno aiutati dai partigiani cattolici delle Fiamme verdi.
Nei loro posti di ristoro di Ponte di Legno verranno curati, lavati, rifocillati, messi in piedi.
Finalmente un pullman li trasferisce a Lovere.
Poi, il 7 maggio 1945, Nori raggiunge Milano in treno.
Saluta i suoi compagni di detenzione e, come se tutto fosse normale, prende il tram numero 7, raggiunge la sua abitazione a Lambrate, in via Alfonso Corti 30.
Il primo abbraccio è con la sorella Wanda.
Sul terrazzo di ringhiera, Nori e Wanda attendono il ritorno di Giovanni e della madre Maria dalla manifestazione dei partigiani in Piazza Duomo, quella che anticipa la loro definitiva smobilitazione dell’8 maggio con la consegna delle armi alle forze alleate.
Nori rivede Visone mentre sfila in corteo, in pochi secondi è già in strada.
Visone allarga le braccia, grida di gioia, corre veloce verso Nori.
Si abbracciano, sono emozionati, piangono, ridono, e ancora piangono per interminabili minuti, finalmente si baciano.
Arrivano i gappisti di Giovanni, gli amici, i compagni e i vicini di casa di Nori.
Inizia la grande festa al comando dei Gap.
L’incubo della guerra è finito.
Riprende la loro storia di amore e di Resistenza, ma questa volta in tempo di pace.
Giovanni Pesce ci lascia il 27 luglio 2007.
Onorina Brambilla Pesce ci abbandona il 6 novembre 2011.
Ai loro funerali, folle immense di cittadini milanesi hanno voluto rendere omaggio alla loro immutata coerenza.
Oggi Visone e Sandra riposano entrambi al Famedio del Cimitero maggiore, il tempio dei cittadini illustri della città di Milano.
Forse un giorno ci diranno che tutto quello che avete ascoltato stasera non è mai accaduto. Per questo ho narrato la storia di due italiani, Giovanni Pesce, nomi di battaglia Ivaldi Visone e Onorina Brambilla, nome di battaglia Sandra, detta Nori. Vi ho raccontato questa storia per metterla in sicurezza, per salvarla dall’oblio, per curarla dalle ingiurie del tempo e difenderla da ogni revisionismo, per portarla fino ad oggi e consegnarla indenne alle nuove generazioni, che nulla sanno, perché nulla è scritto nei loro libri di testo. Perché la memoria di Giovanni e Nori e quella della Resistenza non vadano mai smarrite.
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