L’inchiesta sull’omicidio di Fausto e Iaio
Vista la scarsa informazione sull’omicidio di Fausto e Iaio che circola nella rete, tra cui quella propagata da un minuscolo gruppo di pseudo rivoluzionari da tastiera non pervenuti in 38 anni di inchieste, pubblico il riassunto dell’indagine sulla morte di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, tratto dal mio libro “Fausto e Iaio, la speranza muore a 18 anni”, ora ristampato per la terza volta con il film “Il sogno di Fausto e Iaio”. Perché la conoscenza sia un bene comune e ognuno si faccia la sua opinione. Lo dedico a Mauro Brutto, Umberto Gay, Fabio Poletti e ai tanti ignoti al grande pubblico ma veri compagni che hanno lavorato a questa indagine.
L’inchiesta sull’omicidio di Fausto e Iaio
Daniele Biacchessi
Milano, 18 marzo 1978. Tardo pomeriggio.
FaustoTinelli e Lorenzo Iannucci detto Iaio, diciannove anni,
sono due amici inseparabili: due ragazzi impegnati a sinistra,
frequentano il centro sociale Leoncavallo.
Negli ultimi mesi fanno parte di un gruppo di giovani che
lavorano ad un dossier sullo spaccio di eroina a Milano.
Non sono militanti di partiti politici.
Spesso di sabato si recano a casa di Fausto dove la madre
Danila prepara la cena.
L’appuntamento è alle 19,30 alla “Crota piemunteisa” di via
Leoncavallo, proprio davanti al centro sociale.
Fausto raggiunge il locale intorno alle 19.
Nella sala biliardo sono presenti tre giovani mai visti prima.
Lo confermano alcuni testimoni.
Lorenzo arriva alle 19,35, in ritardo di pochi minuti.
Alle 19,45, Fausto e Lorenzo escono dal locale, attraversano
la strada e a piedi si incamminano lungo via Lambrate.
Il tragitto è breve, trecento metri.
I due ragazzi si trovano ora in piazza San Materno, svoltano
a sinistra in via Casoretto. Altri ottanta metri e sono davanti al
chiosco dei giornali.
L’edicolante li sente commentare i titoli dei quotidiani del
pomeriggio, “La Notte” e “Il Corriere d’informazione”, con gli
articoli relativi alle indagini sul sequestro del presidente della
Democrazia cristiana Aldo Moro e l’uccisione dei cinque uomini
di scorta, fatti avvenuti soltanto due giorni prima (16 marzo
1978), a Roma, in via Fani.
Fausto e Lorenzo stanno percorrendo il tratto di strada tra
via Casoretto e via Mancinelli.
Sono le 19,58.
Trepersonesonofermedavantialportonedell’AndersonSchool.
Fausto e Lorenzo vengono attirati da qualcosa o da qualcuno
in via Mancinelli.
Il campanile della chiesa del Casoretto batte le 20.
Il loro cammino si ferma, per sempre.
Otto proiettili Winchester, calibro 7,65, vengono sparati da
un killer professionista. Un’esecuzione.
I corpi si accasciano a terra. Il primo a cadere è Fausto. Il proiettile
lo colpisce all’addome; gli altri tre in rapida successione
all’emitorace sinistro, al braccio destro e alla regione lombare
sinistra. Fausto compie una torsione su se stesso. Il quinto proiettile
lo raggiunge di striscio bucando gli indumenti.
Poi tocca a Lorenzo. Tre colpi lo fanno crollare sul marciapiede,
mentre tenta una fuga impossibile.
Vicine ai killer si trovano Marisa Biffi e le sue due figlie
minori Alessandra e Cinzia Frontini. Dice la signora Biffi:
“Tre ragazzi sono in piedi sul marciapiede e si trovano a 5-6
metri da me. Contemporaneamente un altro giovane è leggermente
piegato e si comprime lo stomaco con entrambe le mani.
Odo tre colpi attutiti che lì per lì sembrano petardi tanto che
penso che quel gruppo di quattro persone sta scherzando. Non
vedo alcuna fiammata di arma da fuoco. I tre giovani sul marciapiede
scappano velocemente mentre quello che è piegato su
se stesso cade in terra. Solo allora comprendo che è successa
una cosa pazzesca e mi avvicino al giovane caduto anziché
entrare subito nella parrocchia. Scorgo la fisionomia di un
ragazzo steso per terra in una pozza di sangue. Subito oltre il
suo corpo e quindi più vicino alla via Leoncavallo, c’è davanti
a me, a un paio di metri, il corpo di questo ragazzo che prima
non avevo visto né in piedi né a terra. Posso senz’altro affermare
che quello che cade per primo è Lorenzo Iannucci mentre
quello già steso a terra è Fausto Tinelli. Nessuno dei due ragazzi
pronuncia alcuna parola, neppure un’invocazione di aiuto.
Altrettanto fanno gli assassini che fuggono nel silenzio, avviandosi
verso via Leoncavallo. Escludo di aver visto mettersi in
moto una macchina verso via Mancinelli, subito dopo gli spari.
Noto che il giovane con l’impermeabile ha un sacchetto che
sembra di cellophane bianco in mano. Mi pare che lo abbia
diretto verso il killer che si contorce e che entrambe le mani
stanno dentro il sacchetto. Il giovane sta sparando verso
Iannucci. Non ho visto altri sacchetti nelle mani dei due giovani
e non ho neppure visto alcuno di loro assumere un atteggiamento
quale quello che può assumere uno sparatore. Secondo
me allo Iannucci spara una sola persona. Forse i colpi sono
attutiti da un’arma dotata di silenziatore. Ripeto: ho la netta
impressione che il sacchetto bianco sia di plastica e che l’assassino
vi tenga le mani dentro. Le braccia del giovane comunque
sono distese in avanti.”
Marisa Biffi riconosce dunque due killer.
Il primo è alto circa un metro e settanta, snello, capelli castano
scuri, indossa un impermeabile chiaro. Il secondo è simile al
primo come corporatura, porta un giubbotto color cammello.
Alessandra e Cinzia Frontini osservano il delitto dalla stessa
visuale della madre Marisa Biffi.
Le tre testimonianze sono sovrapponibili.
Spunta il quarto teste.
Natale Di Francesco, invalido civile, nota tre giovani in fuga
all’incrocio tra via Mancinelli e via Leoncavallo, a pochi metri
dal centro sociale.
Due assassini sono di corporatura normale, alti un metro e
settanta, capelli scuri e lisci.
Sul luogo del duplice delitto non vengono rinvenuti bossoli,
né proiettili.
Due calibro 7,65 sono ritrovati tra gli indumenti di Fausto e
Lorenzo.
Accanto al corpo senza vita di Iaio, i killer lasciano un berretto
di lana di colore blu intriso di sangue.
Sarà distrutto nel 1988 dall’Ufficio Corpi di Reato del
Tribunale di Milano.
Intorno alle 20,10 in piazza Durante, la polizia ritrova una
pistola calibro 9, lanciata da una persona a bordo di una motocicletta
di grossa cilindrata.
E pochi minuti dopo, in piazza Aspromonte, Pierre Manuel
Orbeson e Magda Margutti notano due giovani a bordo di una
Kawasaki color verde chiaro.
La coppia osserva attentamente la scena: il passeggero scende
dalla moto, toglie dalla targa una sorta di copertura legata
con un elastico ed entra in una vicina pizzeria.
Pierre Manuel Orbeson memorizza il numero della targa
(MI 538738) e lo passa al giornalista Antonio Belloni.
La moto è intestata a Gaetano Russo, pregiudicato per rapina
e furti, e Antonio Ausilio, incriminato per vari reati, tra cui
tentato omicidio.
Sul loro conto, nessun ulteriore accertamento viene svolto
dalla polizia giudiziaria.
Mauro Brutto, cronista del quotidiano “L’Unità”, è uno dei
primi colleghi a raggiungere via Mancinelli. Ascolta con attenzione
le parole del capo di Gabinetto della questura di Milano,
Bessone: “È chiaro. Si tratta di un regolamento di conti, una
faida fra gruppi della nuova sinistra o inerente al traffico di stupefacenti”.
Mauro Brutto corre in redazione e compone il suo
articolo.
“È stato possibile compiere una prima analisi sui due corpi che
riconferma la ferocia degli assassini e la chiara volontà di uccidere.
Iannucci è stato raggiunto da due colpi alla gola, sparati dal
basso verso l’alto, come se il killer avesse estratto la pistola
improvvisamente,mentre era a lui vicino. Sul corpo di Tinelli
sono stati contati 7 fori di entrata: due al torace, uno nella regione
ascellare destra, uno all’inguine dalla parte destra, uno al
braccio destro, uno al gluteo destro e l’ultimo al fianco destro. È
evidente che ha continuato a sparare al giovane anche dopo che
era caduto a terra.”
Alcuni inquirenti fanno circolare la voce che è una calibro
32 a uccidere Fausto e Iaio. Mauro Brutto smonta il tentativo
di deviare l’indagine verso altre piste.
“Non si capisce per quale motivo gli attentatori dovrebbero
aver modificato la pistola le cui munizioni, le 7,65, sono facilmente
reperibili. I killer hanno usato pistole automatiche avvolte
in sacchetti di plastica. Ecco perché sul luogo dell’omicidio non
sono stati trovati i bossoli e i testimoni hanno sentito colpi ovattati.
Un particolare che conferma il livello di professionalità: gli
assassini non intendevano rinunciare al vantaggio della rapidità
di tiro fornita da una pistola automatica senza però correre il
rischio di disperdere i bossoli e lasciare quindi una traccia. La
necessità da parte degli assassini di sfruttare la rapidità di tiro
delle automatiche indica che intendevano essere certi di uccidere
nel minor tempo possibile per non dare ai testimoni la possibilità
di descrivere, anche in modo approssimativo, i loro volti.”
Nei suoi articoli, Mauro Brutto puntualizza gli elementi certi
del duplice omicidio:
“L’unico dato certo che polizia e magistrato hanno confermato
alla stampa è che Lorenzo e Fausto sono caduti in un vero e proprio
agguato e non sono stati vittime di una lite o di un diverbio
scoppiato all’improvviso. Anche se i due ragazzi sono stati visti
da alcuni testimoni parlare con gli assassini, costoro li avevano
attesi lungo la strada che portava a casa di Tinelli, con in tasca
pistole avvolte in sacchetti di plastica per impedire ai bossoli di
cadere in terra e cancellare un’importante traccia”.
Infine Mauro Brutto si pone una domanda:
“Cosa è accaduto negli ultimi dieci minuti di vita di Fausto e
Lorenzo? Questo vuoto di dieci minuti nella ricostruzione di ciò
che è avvenuto sabato 18 marzo al Casoretto era apparso già da
alcuni giorni come l’elemento risolutivo del caso…”.
Mauro Brutto lavora sull’omicidio di Fausto Tinelli e
Lorenzo Iannucci. Giorni, settimane, mesi. Svolge un lavoro di
controinformazione insieme a un gruppo di giovani: sono
amici di Fausto e Iaio, studenti del Casoretto, frequentatori del
Leoncavallo, giornalisti come Umberto Gay. Sopra taccuini
annota le piste da seguire e ricostruisce in modo meticoloso le
ore che precedono l’omicidio.
“Ore 15. Lorenzo Iannucci si trova davanti alla trattoria di via
Leoncavallo davanti al centro sociale, sale su una Mini Minor
rossa con alcuni amici. Ore 18,30, la compagnia di Iannucci rientra
in trattoria. Ore 19. Roberto P. e la sua ragazza riferiscono al
magistrato che a quell’ora Fausto Tinelli era nella trattoria vicino
al biliardo. Accanto a lui c’erano tre giovani intenti a guardare
il gioco, mai visti prima…”
Mauro Brutto si concentra sul modello della pistola e rileva
che “il killer ha sparato con una Beretta bifilare calibro 7,65”.
Il cronista cerca indizi, trova forse prove, ma…
25 novembre 1978, ore 20,45. Mauro Brutto esce dalla sua
macchina ed entra nel bar tabacchi in via Murat 36. Rimane
giusto il tempo per comprare due pacchetti di sigarette, beve
un aperitivo poi schizza fuori. Supera la prima metà della strada,
proprio sulla striscia bianca che divide le carreggiate.
Guarda da una parte, c’è una Fiat 127 rossa, attende il passaggio
ma nella direzione opposta appare una Simca 1100 bianca
che viaggia a 70 chilometri all’ora. La vettura punta su Mauro,
lo coglie di striscio, quanto basta per farlo finire sotto le ruote
della 127 che lo travolgono e lo uccidono.
Questa almeno resta la versione ufficiale a cui nessuno
crede, ancora oggi.
Per l’omicidio di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, la prima
pista imboccata dagli inquirenti è quella di un regolamento di
conti di spacciatori di droga. Poi la versione ufficiale si trasforma:
duplice omicidio maturato all’interno dei gruppi di sinistra
del quartiere.
Nei giorni successivi, avviene almeno un fatto strano. Nel
1988, viene descritto dai giornalisti Umberto Gay e Fabio
Poletti nel dossier di controinformazione di Radio Popolare:
“Mentre i familiari di Fausto si trovano a Trento dove hanno
seppellito il giovane, si verifica un fatto inquietante. La vicina
del pianerottolo, un tardo pomeriggio, sente dei rumori. Sa che
nell’appartamento di Tinelli non c’è nessuno e, incuriosita, si
mette a sbirciare dallo spioncino. Nota sul pianerottolo degli
uomini che aprono la porta ed entrano nell’appartamento. In un
primo tempo racconterà che erano persone in divisa: in seguito si
sentirà di confermare che erano muniti di torce. Sta di fatto che
quando Danila Tinelli rientra a Milano scopre che sono scomparsi
proprio i nastri su cui Fausto registrava i risultati di un’indagi-
ne sullo spaccio di eroina nel quartiere. Non manca nient’altro,
solo i nastri, la porta d’ingresso non risulterà essere stata forzata.
All’epoca a Danila Tinelli non erano stati restituiti gli effetti personali
di Fausto, fra cui le chiavi di casa”.
Le indagini del sostituto procuratore di Milano Armando
Spataro e del poliziotto Carmine Scotti provano la pista politica
dell’assassinio e la matrice di destra dei killer. Infatti giungono
le rivendicazioni.
18 marzo 1978, ore 21,30. L’Ansa riceve una telefonata da
una cabina di Milano, piazza Oberdan: “Sergio Ramelli piangeva
vendetta, ieri è stato vendicato. Giustiziere d’Italia. Firmato:
gruppo armato Ramelli”.
22 marzo 1978, il giorno dei funerali di Fausto Tinelli e
Lorenzo Iannucci, ore 8,25. Seconda telefonata all’agenzia
Ansa: “Mentre si celebrano i funerali rivendicano l’eliminazione
dei due giovani di Lotta Continua avvenuta per vendicare l’uccisione
dei nostri camerati. Firmato: ‘Gruppi Nazionali Rivoluzionari’”.
23 marzo 1978, ore 21,30. Roma, via Leone IV. In una cabina
telefonica, la polizia rinviene un volantino in triplice copia
firmata “Esercito Nazionale Rivoluzionario, Brigata Combattente
Franco Anselmi”. Il documento è scritto con una macchina
elettrica, porta un simbolo nuovo, come intestazione una
runa celtica in un cerchio con le iniziali ENR.
“Sabato 18 marzo una nostra brigata armata di Milano ha giustiziato
i servi del sistema Tinelli Fausto e Iannucci Lorenzo. Con
questo gesto vogliamo vendicare la morte di tutti i camerati assassinati
dagli strumenti della reazione e della sovversione. Noi non
crediamo nella lotta comunista contro lo Stato, perché, avendo
tutte le forze di sinistra la medesima mentalità di questo sistema,
esse sono solamente i servi di questo regime. È quindi per questa
ragione che l’unica forza veramente rivoluzionaria è rappresentata
dall’estrema destra. Sappiano i sovversivi che non riusciranno a
eliminarci: da questo momento cominceremo ad agire, nulla ci
potrà fermare; siamo stanchi di piangere i nostri camerati. Falvella,
Ramelli, Zicchieri, Mantakas, Ciavatta, Bigonzetti, Recchioni
marciano nelle nostre file e gridano vendetta. Viva la rivoluzione
fascista, morte al sistema e ai suoi servi, onore ai camerati assassinati
dal Fronte Rosso e dalla reazione.”
25 marzo 1978. Milano. Al Commissariato di polizia Porta
Genova giunge via posta un foglio scritto con lettere ricavate
da articoli di stampa: “Abbiamo giustiziato Tinelli e Iannucci.
Firmato: Gruppo Prima Linea Destra Nazionale”. La pista di destra
è confermata anche dalla perizia balistica, riassunta dal
giudice delle udienze preliminari Clementina Forleo, nell’atto
di archiviazione del 6 dicembre 2000:
“La perizia disposta sui proiettili estratti dai corpi dei due giovani
e sui proiettili rinvenuti nei loro indumenti portava alla
conclusione che tutti, di cal. 7,65, erano stati esplosi dalla medesima
arma, una pistola appunto cal. 7,65, e che con molta probabilità,
trattavasi di arma piuttosto vecchia, del tipo Beretta mod.
34 con originaria canna cal. 9 o mod. 35. Quanto ai proiettili in
questione, una prima perizia evidenziava trattarsi di proiettili di
marca Winchester, mentre una seconda perizia, effettuata per
comparare gli stessi con altri sequestrati nel corso dell’indagine e
di altre parallele, parlerà di proiettili di marca Fiocchi. Il fatto
che sul posto non fossero stati rinvenuti bossoli si spiegava, conformemente
con quanto notato dai testi oculari, con il fatto che
l’arma fosse avvolta in un sacchetto di plastica, e ciò evidentemente,
proprio per evitare la dispersione dei bossoli. Tale pratica
risulterà alquanto diffusa negli ambienti della destra eversiva
romana, pure avvezzi all’utilizzo di armi vecchie del tipo indicato,
oltre che di capi di abbigliamento, impermeabili chiari, analoghi
a quelli indossati dagli autori del delitto”.
Gli investigatori perquisiscono le abitazioni di alcuni fascisti
milanesi. Sono Gianluca Oss Pinter, Antonio Mingolla, i fratelli
Mario e Giuseppe Bortoluzzi, Luigi Brusaferri. Il magistrato
Armando Spataro ordina alla polizia giudiziaria di inserire
microspie nei telefoni del bar Il Pirata di via Pordenone a
Milano. Gli inquirenti ascoltano strane conversazioni; c’è chi
dice di aver dimenticato un impermeabile bianco in un locale
come ricorda il giudice Clementina Forleo:
“Sempre nell’ambito della pista relativa agli ambienti dell’estrema
destra locale, le indagini si accentravano a un certo
punto su Mingolla Antonio e i fratelli Bortoluzzi. In particolare,
il 21.3.1978, il Mingolla e il Bortoluzzi Mario rimanevano coinvolti
in un incidente stradale mentre si trovavano a bordo della
motocicletta del primo. Gli operanti intervenuti rinvenivano
nella disponibilità del Mingolla una pistola Smith & Wesson cal.
44 Magnum, mentre nell’abitazione dei fratelli Bortoluzzi, Mario
e Giuseppe, venivano trovate due pistole Beretta, una cal. 6,35 e
l’altra cal. 7,65, quest’ultima non efficiente, oltre a munizioni
per pistola cal. 44.
Intanto, nel bar Il Pirata, ubicato in via Pordenone e frequentato
dai tre, veniva sequestrato un impermeabile chiaro che la titolare,
Mazzocchi Natalina, riferiva essere stato lasciato nel locale la
domenica o il lunedì precedente, e comunque sicuramente dopo
l’uccisione dei due ragazzi. Tale impermeabile veniva riconosciuto
da Bortoluzzi Giuseppe come appartenente a suo fratello Mario.
Su tale indumento veniva effettuata perizia chimica per l’accertamento
di eventuale presenza di polvere da sparo, che dava tuttavia
esito negativo. Importante rilevare che nel corso dell’intercettazione
dell’utenza in uso a tale bar, il 24.3.1978, interveniva una conversazione
in cui un dipendente dello stesso, Gallo Giuseppe,
informava Bortoluzzi Mario, chiamante dal carcere Beccaria, del
sequestro dell’impermeabile in questione, ricevendo poi dal predetto
l’incarico di contattare Gigi Cris, il quale sarà poi identificato
in Brusaferri Luigi, noto esponente della destra locale.
Nell’abitazione dei Bortoluzzi venivano inoltre rinvenuti tre giubbotti
color nocciola.
Mentre Bortoluzzi Mario si avvaleva della facoltà di non
rispondere, il Mingolla e il Bortoluzzi Giuseppe negavano ogni
addebito, anche in relazione alle armi sequestrate. Ma mentre il
primo dichiarava di non conoscere Oss Pinter, il secondo affermava
il contrario, aggiungendo di averlo incontrato nel bar Il
Pirata, posto frequentato anche dal Mingolla, dopo l’aggressione
subita e con la testa rasata. Oss Pinter, da parte sua, negava di
conoscere sia il Mingolla che i fratelli Bortoluzzi.
Circa i movimenti dei tre il giorno del fatto, il Mingolla
dichiarava dapprima di non ricordare dove fosse stato, riferendo
successivamente di aver trascorso l’intero pomeriggio a controllare i conti della settimana presso la biglietteria dell’Air Terminal
gestita dalla madre. Bortoluzzi Giuseppe dichiarava di essersi
recato con il fratello Mario alle 19,00-19,30 presso la pizzeria Da
Aldo sita in via Tolmezzo. Anche tale alibi non veniva verificato.
Va aggiunto che, successivamente, Bortoluzzi Mario ammetterà
la paternità dell’impermeabile rinvenuto nel bar Il Pirata, pur
escludendo ogni rapporto dello stesso con il fatto in questione, e
affermando di aver telefonato al Gallo per farlo sparire temendo
di venire perciò coinvolto nelle indagini, avendo appreso che gli
autori del fatto indossavano un capo analogo. Quanto al riferimento
a Gigi Cris contenuto nella conversazione intercettata, il
Bortoluzzi lo riferiva alla prospettiva di avere lo stesso difensore
del suddetto”.
Le indagini dureranno anni. Le carte passeranno nel corso
del tempo tra le mani di numerosi giudici e magistrati: Armando
Spataro, Graziella Mascarello, Attilio Barazzetta fino al giudice
Guido Salvini, uno dei massimi esperti di eversione nera.
Al termine dell’inchiesta restano tre gli indiziati: Mario
Corsi detto Marione, neofascista, Massimo Carminati e
Claudio Bracci, affiliati alla banda della Magliana. Un lavoro
paziente e attento dei documenti di rivendicazione, degli atti
giudiziari di altri processi, lunghi periodi di meticolose letture
e riflessioni portano il giudice Guido Salvini a formulare
un’ipotesi:
“Il delitto fu rivendicato da un volantino a firma ‘Esercito
Nazionale Rivoluzionario, Brigata Combattente Franco Anselmi’
e numerosi pentiti già aderenti a gruppi di estrema destra
hanno indicato nell’ambiente romano dei Nar il contesto in cui
fu preparato l’attentato. Il comportamento degli sparatori riporta
inequivocabilmente a una matrice eversiva di destra: esecuzione
a sangue freddo delle due vittime mentre esse si trovavano nei
pressi di un centro sociale di sinistra, giovane età degli sparatori,
abbigliamento, utilizzo di un sacchetto di plastica per raccogliere
i bossoli e non consentire una perizia comparativa con altri episodi
analoghi”.
Guido Salvini delinea le accuse per Mario Corsi.
“Gli elementi a carico di Mario Corsi possono così sintetizzarsi:
Sequestro nella sua abitazione, nel 1978 a seguito di un arresto
avvenuto a Roma per un’altra aggressione, di fotografie di
Fausto e Iaio e dei funerali degli stessi acquisite presso l’archivio
di uno zio giornalista a Cremona. La disponibilità di tali fotografie
appare assolutamente ingiustificata trattandosi non di fotografie
di camerati, ma di avversari politici caduti in un’altra città.
Presenza di Mario Corsi, unitamente ad altri camerati romani,
secondo la testimonianza di Mario Spotti sostanzialmente non
smentita dallo stesso Corsi, a Cremona nei giorni circostanti
l’omicidio. In tale città, in quel periodo prestava servizio militare
un altro esponente del F.U.A.N., Guido Zappavigna, mentre
Mario Spotti si era poco tempo prima recato a Roma per acquistare
una pistola da Franco Anselmi. Mario Spotti ha inoltre ammesso
di avere distrutto la propria agenda del 1978 che poteva fornire
ulteriori dettagli dei legami logistici fra Roma e la Lombardia.
Lo stesso, coinvolto in altre vicende di armi a Bolzano, si è suicidato
nel 1995.
Indicazioni, sia pur generiche, in ordine alla responsabilità del
gruppo Corsi nel duplice omicidio, provenienti dai pentiti dell’area
di estrema destra Cristiano Fioravanti, Walter Sordi, Stefano
Soderini, Paolo Bianchi, Patrizio Trochei e Angelo Izzo, mentre
le indicazioni di Sergio Calore e Paolo Aleardi riguardano genericamente
la destra romana. In particolare Paolo Bianchi
avrebbe ricevuto dal Corsi una sorta di confessione diretta e
caratterizzata da qualche particolare in occasione di una successiva
azione di autofinanziamento commessa in comune con il gruppo
di Corsi.
Soprattutto Angelo Izzo ha parlato di un episodio avvenuto a
Milano nel 1978 riconducibile, quale modus operandi, al duplice
omicidio di Fausto e Iaio in quanto rivolto contro un altro
esponente del Leoncavallo (seppure a livello più alto) e commesso
da elementi dell’estrema destra romana in trasferta.
Angelo Izzo ha infatti dichiarato di avere appreso da Valerio
Fioravanti e Mario Corsi che costoro si erano recati a Milano, nel
1979, insieme a Guido Zappavigna con l’intenzione di uccidere
Andrea Bellini, esponente prima del gruppo Casoretto e poi del
circolo Leoncavallo, che allora era sospettato di avere partecipato
all’uccisione dello studente missino Sergio Ramelli.
In tale occasione Guido Zappavigna aveva preso alloggio presso
un albergo, portando con sé le armi necessarie per l’azione, e
Valerio Fioravanti gli aveva addirittura chiesto di provare uno
dei silenziatori sparando un colpo all’interno della camera.
Il gruppo, appoggiato da una struttura logistica milanese conosciuta
da Fioravanti, aveva avuto a disposizione un furgone con
targhe false ma, dopo alcuni appostamenti, non avendo potuto
vedere Bellini, aveva rinunciato all’operazione. In tale occasione
Mario Corsi si era lamentato con Fioravanti in quanto per l’azione
dell’anno precedente egli non aveva potuto usufruire degli
appoggi logistici di cui Fioravanti disponeva a Milano.
L’episodio raccontato da Izzo ha trovato significativi elementi
di riscontro. Infatti Guido Zappavigna ha preso alloggio presso
l’Hotel Cristallo di Milano dal 12 al 18 aprile 1979, circostanza
neutra e generica che Izzo non avrebbe potuto conoscere se non
gli fosse stata raccontata in relazione a qualche episodio significativo
per il gruppo; Valerio Fioravanti ha confessato tale episodio
in termini abbastanza analoghi a quelli riferiti da Izzo pur rifiutandosi
di indicare il nome dei complici; Andrea Bellini ha fornito
una descrizione dei suoi movimenti in tale periodo compatibile
con gli altri elementi acquisiti.”
Poi il giudice Guido Salvini analizza la posizione di Massimo
Carminati e Claudio Bracci.
“Per quanto concerne Massimo Carminati e Claudio Bracci,
facenti parte del gruppo dell’Eur, gli elementi indiziari nei loro
confronti possono essere così sintetizzati:
Massimo Carminati è attualmente imputato, quale esecutore
materiale, dell’omicidio di Mino Pecorelli nonché della collocazione
di un M.A.B. proveniente dall’arsenale del Ministero della
Sanità e di materiale esplosivo, nel gennaio del 1981, sul treno
Taranto-Bologna (a fini di “depistaggio” delle indagini sulla strage
di Bologna) e di vari reati connessi al ruolo di alto livello ricoperto
nella banda della Magliana dopo la fine della sua esperienza
politica nell’area dei Nar; Stefano Soderini, Angelo Izzo e
Cristiano Fioravanti hanno sottolineato l’estrema pericolosità di
Carminati e del suo gruppo, caratterizzato da un anticomunismo
viscerale, molto compartimentato e probabilmente responsabiledi altre azioni di “killeraggio” quali l’omicidio a Roma dell’esponente
dell’Autonomia Operaia Valerio Verbano.
Walter Sordi e Cristiano Fioravanti, sulla base di voci e di valutazioni
di ambiente, hanno quindi indicato il gruppo di Carminati
quale possibile responsabile del duplice omicidio di Milano, indicazione
che correva nell’area dell’estrema destra romana in parallelo
a quella del gruppo di Mario Corsi.
Massimo Carminati era assai legato a Franco Anselmi (a nome
del quale era stato intestato il volantino di rivendicazione), tanto
da compiere insieme a Claudio Bracci un attentato dinamitardo
in danno dell’Armeria Centofanti dove era stato ucciso Anselmi,
precedendo così l’azione anche più grave, contro il titolare dell’Armeria,
progettata dal gruppo di Valerio Fioravanti.
L’attentato all’Armeria Centofanti è stato individuato in quello
commesso deponendo una latta con circa un chilogrammo di
esplosivo, nella notte fra il 17 e il 18 maggio 1978. Maurizio Abbatino,
esponente di spicco della banda della Magliana e divenuto
collaboratore di giustizia, ha d’altronde raccontato che Massimo
Carminati era molto esperto nel fabbricare ordigni esplosivi artigianali
utilizzando soprattutto barattoli come contenitori.
Nel deposito di armi ed esplosivi rinvenuto alla fine del 1981
in uno scantinato del Ministero della Sanità e gestito in comune
dal gruppo di Abbatino e dal gruppo di Carminati, sono stati
inoltre sequestrati barattoli con esplosivo del tutto analoghi a
quello usato per l’attentato all’Armeria Centofanti e vari sacchetti
di esplosivo sciolto (tritolo con nitrato di ammonio) del tutto
identico a quello utilizzato per l’attentato.
All’epoca, il gruppo di Massimo Carminati (nato del resto a
Milano) frequentava con una certa assiduità la nostra città.
Le caratteristiche somatiche e di abbigliamento quantomeno
di uno degli assassini di Fausto e Iaio (molto giovane, magro, con
un impermeabile chiaro) sono decisamente compatibili con la
persona di Massimo Carminati. L’impermeabile chiaro, indossato
probabilmente da due degli aggressori, era del resto quasi una
‘divisa’ per gli esponenti della destra romana.”
E dalle carte giudiziarie del giudice Guido Salvini spuntano
proprio le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia
della destra eversiva. Paolo Bianchi, uno dei più importanti esponenti di Ordine Nuovo, davanti al giudice istruttore il 15
maggio 1982:
“Prima dell’arresto, Mario Corsi mi aveva fatto capire che lui
e gente del suo gruppo, i Nar, a Milano, avevano ucciso due
ragazzi di sinistra, Fausto e Iaio (…) da quello che avevo capito
erano certamente degli avversari politici che andavano eliminati.
Avevo capito che gli autori del fatto erano partiti da Roma per
Milano, trovando poi altre persone sul posto”.
Sempre Paolo Bianchi davanti al giudice istruttore l’11 gennaio
1983:
“Corsi non approvava per esempio la scelta di commettere
rapine e sequestri per motivi di autofinanziamento, mentre era
più propenso a partecipare ad azioni di aggressione di natura
esclusivamente politica. Fu in quell’occasione che mi disse di
avere partecipato all’uccisione di Fausto e Iaio. Ricordo anche
che, quando egli me ne parlò, io neppure ricordavo di chi si trattasse,
e solo in seguito collegai le confidenze fattemi dal Corsi,
che mi parlò dell’uccisione di due ragazzi che a Milano facevano
attività politica, a Fausto e Iaio (…) Ricordo che il Corsi mi disse
che a Milano c’era una parente dove si era rifugiato, anzi dove si
era appoggiato”.
Ancora Paolo Bianchi davanti al giudice istruttore il 23 ottobre
1985:
“Corsi (…) mi disse che lui e il suo gruppo avevano ucciso due
ragazzi a Milano, accennando a due ragazzi di natura genericamente
di sinistra o che secondo loro dovevano essere di sinistra
(…) Corsi mi accennò a una cabina telefonica in relazione a quel
fatto. Sforzandomi di ricordare tali frammenti di discorsi, questa
cabina era connessa al fatto che in quella circostanza era passata
una volante dei carabinieri o della polizia e loro se l’erano cavata
per un pelo”.
Cristiano Fioravanti davanti all’autorità giudiziaria il 27 giugno
1990:
“(…) l’episodio di Fausto e Iaio era attribuito con insistenza,
nel nostro ambiente, al gruppo dei Prati (…) e in particolare al
gruppo di Corsi (…) mi risulta che Corsi andasse spesso da una
zia a Milano o comunque da suoi parenti”.
Cristiano Fioravanti racconta ancora il 21 giugno 1991:
“(…)in un periodo sia precedente sia seguente la morte di Franco
Anselmi, Massimo Carminati e Claudio Bracci (…) andavano
con una certa regolarità a Milano (…) la morte di Franco Anselmi
provocò un grosso coinvolgimento fra noi perché gli eravamo tutti
molto affezionati. Pensavamo di uccidere Danilo Centofanti, l’armiere
che era stato responsabile della morte di Anselmi e avevamo
già studiato il modo di agire; tuttavia Carminati e Bracci, agendo
da soli, prima dell’attuazione del nostro piano, lo resero in un
certo senso impossibile perché misero una bomba all’Armeria
Centofanti, provocando l’allontanamento della famiglia dell’armiere
(…) Per quanto concerne la responsabilità dell’omicidio di
Fausto e Iaio a Milano (…) posso dire che nel nostro ambiente era
dato per probabile che fosse un’azione della destra romana (…) si
ipotizzava la responsabilità o di Mario Corsi o della coppia Massimo
Carminati-Claudio Bracci, perché si trattava delle uniche persone
che, a quanto ci risultava, avessero dei contatti con Milano”.
Il collaboratore di giustizia Paolo Aleandri davanti ai magistrati
il 15 maggio 1982:
“Sull’episodio dell’uccisione di Fausto e Iaio posso dire che in
tutti gli ambienti della destra romana si era sicuri del fatto che
fosse opera della destra (…) non ricordo specificamente chi ne
parlava nell’ambiente, ma era un fatto noto che fosse opera di
romani che forse si erano avvalsi di qualche basista per l’individuazione
degli obiettivi”.
Il pentito Walter Sordi ricorda un particolare il 2 novembre
1982:
“Nel gennaio 1980 sono stato per otto giorni in carcere con
Mario Corsi e Dario Pedretti; gli stessi si scambiavano battute in relazione al duplice omicidio dei due ragazzi di Milano, come a
dire che erano stati loro. Parlando con Gilberto Cavallini ricordo
che questi diceva che era certamente cosa attribuibile alla destra,
escludeva Milano attribuendo il fatto a quello di Roma”.
E il 10 gennaio 1983, Walter Sordi ribadisce:
“(…) sentii fare delle allusioni a tale omicidio da Corsi Mario,
Dario Pedretti e Marco Di Vittorio. Ricordo che proprio in quel
periodo mi parlarono delle comunicazioni giudiziarie ricevute in
relazione all’uccisione di Fausto e Iaio; facevano dell’ironia su
tale fatto lasciandomi intendere che ne sapessero qualcosa, o
meglio che in qualche modo c’entrassero. Non mi fornirono indicazioni
precise (…) però mi pare che tra loro si scambiassero frasi
del tipo ‘ti hanno cioccato’ e altre analoghe”.
Anche Patrizio Trochei aggiunge particolari:
“(…) Ho attivamente partecipato nell’anno 1977-1978 al
Fuan1 di Roma, cui apparteneva anche Corsi. Direttamente e preventivamente
non sapevo dell’omicidio avvenuto a Milano di
Fausto e Iaio. Fin da allora, in ogni caso, circolavano voci che attribuivano
il fatto a Corsi. Quantomeno io sapevo che il Corsi si era
vantato in giro di avere partecipato a questa azione. Corsi non
godeva di grossa stima da parte nostra, non aveva alcuna preparazione
e interesse politico, era sostanzialmente un “gradasso” che
approfittava della nostra sigla per giustificare l’esercizio di violenza…
Sapevo che il Corsi aveva una zia a Milano; io personalmente
non avevo alcun contatto con gli ambienti fascisti milanesi; i
rapporti con Milano erano sostanzialmente tenuti dal Pedretti”.
Infine sui possibili scenari, significativa la lettera di Angelo
Izzo alla Digos del 5 febbraio 1992. Viene riportata nella sentenza
ordinaria del 1994 sul depistaggio del treno Taranto-
Milano, avvenuto il 13 gennaio 1981 e successivo alla strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Massimo Carminati
è stato indiziato anche per questo depistaggio, insieme
a Giuseppe Belmonte e Pietro Musumeci, vertici del Sismi,
entrambi iscritti alla loggia massonica P2 di Licio Gelli.
“Massimo Carminati nasce nell’ambiente dell’estremismo di
destra come amico e compagno di scuola di Valerio Fioravanti, al
quale si lega in modo forte, e di Franco Anselmi. In breve diviene
un personaggio carismatico di uno dei gruppi fondanti dei
Nar: quello cosiddetto dell’Eur. Pur partecipando solo marginalmente
a scontri, sparatorie ed episodi della miniguerra che ha
insanguinato la capitale intorno al 1977 fra estremisti di destra e
di sinistra, Carminati gode di grandissimo prestigio. Probabilmente
perché è la persona dell’ambiente di destra maggiormente
legata già allora alla malavita romana, alla nascente banda della
Magliana. Un altro motivo di prestigio naturalmente potrebbe
essere legato all’omicidio milanese di Fausto e Iaio, a cui potrebbe
aver partecipato. In questo caso il movente vero di tale omicidio
sarebbe da ricollegare non tanto alla faida tra rossi e neri, ma
considerata la personalità di Carminati e i rapporti che deteneva
con ambienti strani, l’omicidio del Casoretto sarebbe da addebitarsi
a manovre di spezzoni deviati dei servizi segreti controllati
all’epoca dalla P2. Carminati nel 1977 partecipa al sequestro
Iacorossi e a rapine in banca correo di quelli della Magliana. Forse
ha mano nell’omicidio del dirigente missino Pistoleri ed è già
un personaggio con molti legami che vanno dall’ambiente di
Avanguardia Nazionale di Stefano Delle Chiaie, a Franco Giuseppucci
detto il Negro, a Danilo Abbruciati, a Flavio Carboni.
Questo gli permette di tenere un rapporto di superiorità con i sorgenti
terroristi neri, ai quali è in grado di fornire appoggi e aiuti
di ogni genere”.
Le carte del giudice Guido Salvini giungono sul tavolo del
sostituto procuratore di Milano Stefano Dambruosio che ordina
un accertamento generale al consulente Aldo Gianuli, esperto
di eversione nera e stragismo. La perizia è protocollata 30
luglio 1999. Aldo Gianuli esamina cento fascicoli, tre faldoni da
un migliaio di pagine, tremila documenti. Lavora negli archivi
del Dipartimento Centrale di Polizia e Prevenzione, della Guar-dia di Finanza. Gianuli è un segugio ma deve ammettere che “i
fascicoli sull’omicidio si presentavano poveri, non comparivano
note confidenziali, nessun scambio epistolare con altri corpi di
polizia, nessun passaggio d’inchiesta. Il silenzio appare strano.
Totale assenza di veline confidenziali. Nessun rapporto della squadra
narcotici sulla possibile pista relativa al libro bianco contro
l’eroina, al quale lavoravano Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci.
Nessun informatore ha acquisito la minima notizia sul caso”.
Nella sua perizia, Gianuli ipotizza che qualcuno possa più o
meno in modo doloso aver fatto sparire l’originale di documenti
dal fascicolo principale. Gianuli descrive tre piste investigative,
già ampiamente apparse nelle carte giudiziarie, nel dossier
di controinformazione di Umberto Gay e Fabio Poletti per
Radio Popolare del 1988, nel mio libro Fausto e Iaio. La speranza
muore a diciotto anni2:
“Pista Nar: delitto a scopo di vendetta maturato nello scontro
tra destra e sinistra. Pista narcotraffico: delitto finalizzato a impedire
l’uscita del libro bianco dei collettivi autonomi contro l’eroina.
Pista di via Montenevoso: delitto maturato per la vicinanza
della casa di Fausto Tinelli al covo delle Brigate Rosse”.
Aldo Gianuli si sofferma sulla cosiddetta pista di via
Montenevoso.
“Fausto Tinelli abitava in via Montenevoso 9 mentre l’appartamento
affittato dalle Br dove sono state rinvenute anni dopo le
lettere di Aldo Moro era ubicato in via Montenevoso 8. Era possibile
guardare dentro il covo. Si esclude però che Tinelli potesse
aver visto qualcosa. La doppia coincidenza, via Montenevoso e
l’omicidio realizzato 59 ore dopo il rapimento Moro, resta un
inquietante punto irrisolto. Come inusuale è il documento brigatista
con cui si rende onore ai due ragazzi uccisi. È stato accertato
che nello stesso stabile in cui aveva sede il covo terroristico, era
stata presente, ma in epoca antecedente, la sede di una società commerciale fittizia, la ‘Nuova Kelsea’ di Alberto Dugnani, la
quale nel 1975 finiva al centro di una complessa indagine che
vedeva Alberto Dugnani legato al noto contrabbandiere Ettore
Cicchellero, nome presente nel libro bianco sull’eroina.”
Così Aldo Gianuli conclude la sua perizia:
“Sono emersi alcuni elementi utili per proseguire l’inchiesta.
Le ipotesi di partenza vanno estese perché spesso si intrecciano.
Si dovrebbero ascoltare il maresciallo Ermanno Alduzzi, coordinatore
della rete dei confidenti, i giornalisti Pino Adriano e
Umberto Gay per gli appunti di Mauro Brutto. Chiedere a Sisde
e Sismi se siano in possesso di materiale documentario, estendere
l’indagine agli archivi dell’ex Pci, svolgere accertamenti sugli
inquilini e proprietari di via Montenevoso 8”.
Nulla di tutto questo è stato fatto. Così nessun accertamento
suggerito dall’avvocato di parte civile Luigi Mariani (memoria
difensiva sulle tre piste investigative) è stato mai approfondito.
La posizione di Mario Corsi, Massimo Carminati, Claudio
Bracci sarà archiviata il 6 dicembre 2000 dal giudice delle
udienze preliminari del Tribunale di Milano, Clementina
Forleo. Questa è la sua conclusione:
“(…) Le possibili ulteriori indagini prospettate sul punto dalla
consulenza tecnico-documentale effettuata dal professor Aldo
Giannuli sul materiale presente negli archivi del DCPP e della
GdF non consentirebbero, per pur parziale ammissione dello
stesso consulente, di pervenire a risultati in questa sede utili. Ciò,
quanto in particolare all’esame degli archivi del Sismi e del Sisde
e alle eventuali note in essi presenti, per l’accertata frequente
inattendibilità, in sedi parallele, di fonti di tal tipo (…) Pure
infruttuose appaiono in prospettiva le indagini proposte dalla
memoria, peraltro non configurante rituale opposizione, di recente
presentata dall’avvocato Mariani, difensore della famiglia
Tinelli, dal momento che le stesse (confronto dei proiettili con
cui furono uccisi i due ragazzi e il bossolo rinvenuto successivamente
in via Mancinelli da Mauro Brutto; esame delle cartine
topografiche rinvenute nell’abitazione dello Spotti; ulteriore audizione dell’Izzo; acquisizione di atti di altri procedimenti) evidentemente
non consentirebbero, qualunque ne fosse l’esito, di
superare gli esiti delle indagini finora svolte (…) Pur in presenza
dei significativi elementi indiziari a carico della destra eversiva e
in particolare degli attuali indagati (Massimo Carminati, Mario
Corsi e Claudio Bracci), appare evidente allo stato la non superabilità
in giudizio del limite appunto indiziario di questi elementi,
e ciò soprattutto per la natura de relato delle pur rilevanti
dichiarazioni”.
È dunque mancato il coraggio della giustizia e la forza della
politica. Forse perché l’omicidio di Fausto Tinelli e Lorenzo
Iannucci conserva ancora oggi qualcosa di indicibile.