Recensioni
DANIELE BIACCHESSI
TEATRO CIVILE
FAMIGLIA CRISTIANA (Orazione civile per la Resistenza)
REPUBBLICA (Il paese della vergogna)
ITALIA OGGI (Il paese della vergogna il cd)
LA PROVINCIA PAVESE (Il paese della vergogna)
LIBERTA’ (Il paese della vergogna)
LIBERAZIONE (Il paese della vergogna)
GAZZETTA DI REGGIO (Il paese della vergogna)
GAZZETTA DI LECCO (Il paese della vergogna)
L’ISOLA CHE NON C’ERA (Il paese della vergogna)
REPUBBLICA (Passione reporter)
L’UNITA’ (Storie dell’altra Italia)
ITALIA OGGI (Storie dell’altra Italia cd)
LEFT (Storie dell’altra Italia)
LIBERTA’ (Storie dall’altra Italia)
LA SERA (Storie dell’altra Italia)
L’ULTIMO BUSCADERO(Storie d’Italia cd)
GAZZETTA DI PARMA (Storie d’Italia)
GAZZETTA DI TARANTO (Teatro civile)
SANTANNADISTAZZEMA (La storia e la memoria)
La strana coppia, Outsider di Max Stefani
Daniele tu hai un passato di critico discografico (addirittura a fine anni settanta con me nel Mucchio) hai lavorato per tanti anni alla radio de “ Il Sole 24 ore”, hai scritto libri di denuncia. Come è nata l’idea di andare in giro per l’Italia a fare teatro politico o sociale che sia?
DB – Ho iniziato a realizzare il mio primo spettacolo in un viaggio a Cuba con l’Arci nel 2004. Prima di quella esperienza avevo scritto numerosi spettacoli con Stefano Paiusco, attore di Verona e con il poeta Raja Marazzini. Nel 2004 ho ideato “La storia e la memoria” il cui titolo si è trasformato in “La Hystoria y la memoria” in latino americano. Accompagnavo un viaggio di solidarietà con le Case della cultura di Trinidad, Nichero, Santiago de Cuba. Ho recitato davanti alla tomba di Josè Martì, al Parque Almendares, al Teatro Nacional di Nichero, alla Casa della Cultura di Trinidad, sul mare e nella giungla. Dal vivo mi sono mischiato con percussionisti, chitarristi e sezioni fiati cubani a dir poco straordinari. Diciamo che è stato un inizio internazionale. Poi sono tornato in Italia e ho percorso il nostro paese in lungo e in largo. E da quel momento non mi sono più fermato: una media di cento tra spettacoli, reading, conferenze l’anno. Il mio è teatro di narrazione, alla fine racconto storie importanti ma dimenticate. Le stragi nazifasciste del ‘44, la Resistenza, le stragi dell’era repubblicana, gli omicidi politici degli anni settanta come quello di Fausto e Iaio. E ancora Peppino Impastato, Libero Grassi, Falcone e Borsellino, i disastri ambientali come quello di Seveso, l’acqua pubblica, le morti sul lavoro. E ancora gli omicidi di Ilaria Alpi, Raffaele Ciriello, Maria Grazia Cutuli, Antonio Russo, Enzo Baldoni, Raffaele Ciriello.
Per te Marino è andata allo stesso modo?
MS – E’ nata da un’esigenza e un bisogno comune di costruire ponti fra esperienze, linguaggi, stili diversi. Ma tutti profondamente narrativi. E’ nata da una cultura che ci accomuna che è quella umanista, la stessa che tende stagione dopo stagione a far rinascere la primavera! La stessa che ancora oggi cerca di far ritrovare insieme sullo stesso prato, o campo che sia, una miriade di fiori diversi, dai colori e dalle forme più disparate. Dall’intento e dalla volontà politica di partecipare all’avvento di un Nuovo Umanesimo, che per me significa un’altra Revolution rock! Dal momento che il Rock’n’Roll non è altro che l’ennesima manifestazione, incarnazione storica della cultura Umanista. Così posso dire che, passando per Dylan, Guthrie e Strummer non ho fatto altro che tornare a casa! Visto che l’uomo universale è stato inventato qui, in Italia più di 500 anni fa….Fra noi e Daniele Biacchessi ci sono molte affinità elettive, per dirla con Goethe, o se vogliamo una comune educazione sentimentale, per dirla invece con Flaubert… come preferite. Sta di fatto che Daniele è un grandissimo amateur del rock’n’roll, dai Grateful Dead a Christy Moore, e penso che sia questo approccio comune nel modo di narrare che ci ha permesso di fare carovana, tour, giro, sulle strade del Grande Cerchio della Memoria. Quello stare insieme, del bene che ci vogliamo e del Grande applauso che ogni sera alla fine del Racconto riceviamo da chi si siede attorno al fuoco che accendiamo con i racconti di Daniele e le nostre canzoni.
Quale è la reazione del pubblico e quali sono i luoghi dove di solito andate?
DB – Recito e narro praticamente ovunque. Teatri, auditorium, chiese consacrate e sconsacrate, vie, piazze, luoghi storici, scuole medie superiori e inferiori, università. Ogni sera c’è un pubblico diverso e una reazione simile: stupore, rabbia, indignazione, consapevolezza, ammirazione, commozione. Ho recitato a Sant’Anna di Stazzema, a Marzabotto, a Monte Sole, a Roma in via Tasso, sulla Benedicta, davanti alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana a Milano, nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna, in via dei Georgofili, a Capaci, in via D’Amelio. Ovunque sia passata la Storia.
MS – Più che di “pubblico“ parlerei di mia comunità o una parte di essa, che sempre mi accoglie, mi ospita, si fa carico delle risorse necessarie affinché io possa continuare a camminare con le mie e nostre canzoni, e canta con me come io canto con essa. E’ il popolo mio quello che canta e lavora per il pane…io porto le rose! E siamo pari. E appartenenti.Ci tengo a ribadire questo fatto anche per quello che riguarda la narrazione che portiamo in giro con Daniele. Il nostro è un lavoro che cerca di tenere in vita la Memoria. Perché per fare un’Altra Storia. La Storia con la S maiuscola è appartenuta sempre ai vincitori e chi vince ne impone la propria versione con ogni mezzo che il potere gli mette a disposizione, dai manganelli alle comunicazioni di massa. Noi abbiamo sempre avuto Le Storie, al plurale, che fanno una Storia Altra, quella dei Vinti. Storie della violenza, dell’umiliazione, dello sfruttamento subiti e che non abbiamo dimenticato, anzi… Ma è proprio questa Memoria che da Vinti ci fa diventare Invincibili. Pronti a ripartire verso l’orizzonte della libertà della giustizia, della verità, verso l’Eternità. Tutto ciò non ha niente a che fare con le merci, l’intrattenimento, la spettacolarizzazione, il pubblico…Andiamo ovunque ci portano le storie, sia cantate che raccontate, ma sempre a casa!Lo abbiamo fatto sopra un camion o in un mulino, in più di 200 luoghi diversi e in molti siamo ritornati… ma sempre lontani dalla “Piazza “, dal luogo facile da raggiungere, soprattutto quei luoghi in cui si accede attraverso il telecomando. Perché siamo figli della Profezia! E il linguaggio del passato che interroga, la Narrazione che intende svegliare l’inedito che è in ognuno di noi, ha una forte attitudine alla profezia. Gesù, come altri predicatori, non ha mai predicato nelle piazze, i suoi luoghi erano scomodi e difficili da trovare, nei deserti, in cima alle montagne, in riva ai mari e mi pare che il Cristo ne sapesse di… Profezia! O no? Perché si riconosca, prenda forza da se’ e si sollevi contro.
Da chi è partita l’idea di abbinare parole con la musica?
DB – L’idea di abbinare musica e parole viene dai reading che ho sentito su disco di Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti, Gregory Corso e ascoltato dal vivo alla libreria City Light di San Francisco, dove è nato tutto. Dunque all’inizio fu il jazz di Michele Fusiello e Gaetano Liguori. Poi sono arrivati i Gang. Marino lo conosco da molti anni. Ho sempre ammirato la sua coerenza e la sua passione civile. Penso che Le radici e le ali sia il disco che ha cambiato la vita a molti e ha indicato un modello produttivo, un modo di realizzare musica d’impegno civile di qualità. Perché Marino c’era prima di tutti gli altri e ci sarà anche dopo attraverso le sue canzoni. Marino ha fatto capire che si poteva fare del rock politico senza essere banali, senza dipendere dai soliti stilemi del cantautorato italiano, senza vendersi alle major della musica. Marino ha preso il testimone dalla cultura degli anni Settanta, l’ha riportata negli anni Ottanta con suoni prevalentemente inglesi (vedi Clash, Billy Bragg), poi ha inventato la nuova canzone popolare negli anni Novanta e ora negli anni Duemila si è mischiato al teatro civile e alla ballata popolare di Woody Guthrie e Bob Dylan. Era normale che le nostre strade artistiche s’incrociassero. Da una parte ci sono le mie storie di loser, di perdenti che cercano verità e giustizia su vicende atroci e ancora tutte da scoprire nei contorni. Dall’altra ci sono le sue storie di confine. Era inevitabile che tutto ciò avvenisse anche perché alla base di questo sodalizio c’è soprattutto l’amicizia e la stima reciproca.
MS – Non ho mai neanche lontanamente pensato di fare la stessa cosa con altri scrittori se non con Daniele… come ho già detto è un fatto di affinità. Innanzi tutto il narrare di Daniele Biacchessi nasce da un’esigenza di Incontro. Andare per incontrare, dire e conoscere, imparare. Lui non è il sollito mestierante laureatosi con pieni voti all’accademia di arte drammatica di chennesò, è uno al quale preme accendere il Fuoco! far si che il Fuoco attraverso la Narrazione ritorni. E attorno a quello ci si possa sedere, ascoltare e condividere, con il Sentimento, le storie. Nel suo modo di lavorare io ho sempre riconosciuto questo e l’ho applaudito io per primo. Noi con lui veniamo da quella scuola in cui si fa musica canzone libro film con e per il Sentimento. Anche Daniele almeno secondo me da precedenza a questo poichè in quello che facciamo è mezzo e fine Il Sentimento del Tempo. Non apparteniamo entrambi alla scuola francese dei Valery, quella secondo cui la poesia si fa con le parole , ma siamo alunni di Woody Guthrie come di Fenoglio o Pavese o addirittura di Pasolini: “ La Rivoluzione non è più che un Sentimento “ sono sue parole.
Daniele oltre che con i Gang ti esibisci con altri musicisti?
DB – Collaborano stabilmente con me negli spettacoli Michele Fusiello al sassofono, Gaetano Liguori al piano acustico ed elettrico, ovviamente Marino e Sandro Severini dei Gang, Massimo Priviero, Andrea Sigona, Alfonso De Pietro e decine di altri bravissimi artisti.
Ci sono altri artisti con i quali ameresti lavorare?
DB – Certamente con Paolo Fresu che reputo il miglior musicista italiano e l’unico che può essere considerato un artista di respiro internazionale.
Tu Marino, ci sono scrittori con i quali ameresti lavorare?
MS – I miei preferiti ad oggi sono De Luca e Maggiani, italiani e viventi, ma non saprei proprio su quale ponte incontrarmi con loro… Con Erri abbiamo musicato un suo racconto, magari in futuro si potrebbe ripetere con lui un’esperienza del genere ma niente di più. Peraltro Erri con Gianmaria Testa, e Gabriele Tirabassi ha realizzato “Don Chisciotte, gli Invincibili “, un capolavoro!Ad essere sincero e onesto devo ammettere che nel corso del tempo ho mantenuto un’indole e un modo di fare che secondo me è molto punk, anche se lo ritrovo in Dylan o nella poesia di Pasolini, cioè quel senso di incompiuta, di una cosa che si sarebbe potuta far meglio, si sarebbe potuto renderla perfetta ma non è avvenuto…. in modo che siano poi gli altri a perfezionarla. E’ un modo per chiamare, per far dire ad ognuno “ anch’io posso farlo “ e magari anche meglio… e con Daniele questo accade come in molti dischi e concerti dei Gang, la banda dei Fratelli Severini…
Come si svolge lo spettacolo e quali difficoltà avete avuto?
DB – Con i Gang ho realizzato quattro spettacoli che hanno strutture simili che possiamo definire teatro canzone nell’eccezione più alta. “Il paese della vergogna” (140 repliche), “Storie dell’altra Italia” con Massimo Priviero (30 repliche), “Passione Reporter e il nuovo “Orazione civile per la Resistenza- La rossa primavera” con Michele Fusiello. Tranne che per “Storie dell’altra Italia”, gli altri sono tratti da miei libro omonimi. Certamente “Il paese della vergogna” è stato l’esordio fortunato. Erano testi teatrali, diventati libro, poi rimessi sul palco. Si parte dalla strage di sant’Anna di Stazzema con il girotondo dei bambini e si finisce con i bambini del Dc 9 Itavia IH870, partiti da Bologna la sera del 23 giugno 1980 e mai arrivati a Palermo. Un calvario fatto di racconti e di canzoni che inchioda gli spettatori. “Il paese della vergogna” è l’Italia che non riesce a offrire una verità giudiziaria sulle stragi di piazza Fontana, piazza della Loggia a Brescia, treno Italicus, Questura di Milano, treno 904. È l’Italia dei depistaggi dei servizi segreti, dei testimoni e dei documenti spariti, dei processi e dei magistrati trasferiti in altre sedi, degli archivi nascosti nel 1960 nel cosiddetto armadio della vergogna e poi ritrovati nel 1994 con i nomi dei responsabili delle stragi nazifasciste come Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, Fivizzano, Benedicta, Vinca e altre migliaia. È il paese che sta a guardare dalla finestra, spesso indifferente, senza stimoli, che delega ad altri la ricerca della verità. Ma forse, dico forse, c’è un paese migliore. Pensa che conosco centinaia di persone che ci hanno visti svariate volte, hanno acquistato il disco e mi dicono che gli pare sempre come la prima volta. Nessuna difficoltà direi. Abbiamo mischiato i nostri nutriti contatti e ci siamo messi in cammino, sulla strada come dice Marino. E sulla strada abbiamo trovato il nostro pubblico, con altri bravissimi artisti come Massimo Priviero e Onofrio Laviola abbiamo realizzato il tour di “Storie dell’altra italia”, diventato un doppio live da molti critici apprezzato.
MS – Di solito parte da un testo di Daniele al quale le canzoni fanno da fiancheggiatrici, aprono e chiudono sui lati del racconto… espandono l’emozione anche verso l’alto o il basso, in profondità. Ma la vera Maestra è appunto la Strada alla quale ci affidiamo e della quale ci fidiamo. Ci da’ sempre dei buoni consigli, sera dopo sera e noi sulla base di quelli andiamo a correggere il tiro !Non ho mai trovato difficoltà ma solo la voglia di far bene! La voglia di essere considerati persone che lo stanno facendo per (il) Bene !!Di una cosa comunque vado fiero: ho convinto Daniele a suonare l’armonica … sapevo di questa sua grande e recondita passione e finalmente invece che farlo a casa o fra amici ora suona l’armonica in Re in alcune nostre canzoni. E’ anche questo un modo per portare umanità e restare umani, farlo ma sempre portando con se un sorriso, pronto, in tasca.
Come siete visti nel’ambiente? Simpatia? Astio?
DB – Dipende cosa intendi per ambiente. Nel mio ambiente Gian Paolo Serino, tuo collaboratore, sulla Repubblica mi ha definito “l’unico erede della narrativa civile di Pier Paolo Pasolini”, Bruno Ventavola della Stampa “il cantastorie d’Italia”. Al di là delle definizioni, diciamo che sono apprezzato da quelli che amano sentirsi raccontare la verità, con i nomi e i cognomi. Sono le stesse persone che amano le canzoni dei Gang e di altre molte band che seguono il cammino di Marino Severini. Siamo una grande famiglia che produce in proprio, che lavora come artigiani del teatro e della canzone, che va poco in televisione, che è osteggiata dalla incompetente critica di regime, e invece è apprezzata dalla critica specializzata, soprattutto dal pubblico.
MS – Posso solo immaginare che quello che tu chiami ambiente sia quel territorio che ho attraversato molte lune fa… e che ho ormai dimenticato. L’ambiente musicale…. Certo, una volta in quei luoghi l’aria che si respirava era buona, ma oggi impera ovunque un fichettume belante, lagnoso, piagnucoloso… quel tipo di canzoni che ti fanno sentire un buono a nulla, uno che è nato per perdere…. e sono tutti lì per cercare di fare affari. Da tanto tempo io giro alla larga da quei luoghi, chissà magari un giorno con altre bande potremmo pensare pure di andare a liberarli ma per ora sto troppo bene da questa altra parte del fiume.
Non hai mai avuto paura di apparire troppo ortodosso agli occhi del pubblico?
MS – Se una persona si è conquistata una sua dignità personale, se uno ha un minimo di rispetto verso se stesso e verso gli altri, non può accettare continue umiliazioni fino all’annullamento completo della sua personalità. Cosa ci possiamo fare noi se la logica industriale della produzione, distribuzione e consumo del prodotti culturali in questo paese è gestita da multinazionali? La situazione è quella che è, in tv, radio, mezzi di diffusione e comunicazione a prescindere dalle nostre scelte e allora perché subirle? Per avere il nostro posto a tavola, per avere ed essere parte, per appartenere, noi facciamo canzoni, canzoni di parte, partigiane, a volte di lotta, sempre politiche. Da qui nasce la nostra canzone e qui tende a tornare.
Avete termini di paragone in Italia o siete i soli? Penso alla coppia Benvegnù-Del Papa…
DB – Ci sono molte altre “strane coppie” di musicisti e teatranti o scrittori in Italia: Yo Yo Mundi – Wu Ming, Cisco – Giulio Cavalli, Marco Paolini – Mercanti di Liquori, Ascanio Celestini- Canti dell’Agresta, Ulderico Pesce- Tetè de Bois. Queste sono certamente le migliori “strane coppie” che ho visto in scena, quelle venute meglio oltre a Paolo Benvegnù-Massimo Del Papa. Il problema è un altro e si chiama qualità. Nel 2000, se su google mettevi la parola reading ti veniva fuori il festival di Reading, oltre al mio nome e a quelli dei poeti come Roversi, Raboni, Balestrini. Oggi qualsiasi scrittore con un minimo di popolarità televisiva realizza reading, molti di loro non sanno neppure leggere, quando caricano la voce sembrano degli Ungaretti sgraziati, non hanno mai fatto un lavoro teatrale su loro stessi e chiedono comunque cifre da capogiro. Tanto c’è un pubblico di bocca buona che va ad ascoltarli ai festival pilotati dalle case editrici, dalle società di pubbliche relazioni, da tutti quelli che bruciano denaro pubblico.
MS – Le ha già elencate Daniele le migliori strane coppie, posso aggiungere le mie coppie preferite che sono Erri De Luca e Gianmaria Testa in “Don Chisciotte” e “Gli invincibili” e Maurizio Maggiani con Gian Piero Alloisio in “La Storia Meravigliosa”.È importante anche la memoria del rock?
MS -Tutto anche nella musica viene considerato merce quindi l’opposto di ciò che è cultura, frutto di relazioni, vita. E i maestri continuano a confrontarsi con le radici da Springsteen a Dylan, fino a Johnny Cash, Zevon … Ma chi più di Pearl Jam o dei R.E.M. sono depositari delle radici del rock and roll? o Billy Bragg con i Wilco?La cultura e la canzone popolare vivrà sempre e comunque, perché così era, così è e così sarà. Il cerchio! Andata e ritorno. Non la linea. Ecco perché “senza tempo”.
Nella tua musica in particolare balzano sempre fuori Woody Guthrie e Pete Seeger…
MS – Guthrie è il maestro. E non a caso Guthrie è unico poiché compie all’inverso il cammino di molti intellettuali e scrittori che “scoprono” il mondo popolare. Certamente lui, prima di Dylan, incontra la “cultura alta” e se a prima vista l’incontro, sia che avvenga in discesa o in salita (come scrive Portellli) può sembrare identico nei risultati, non è così. Guthrie non mitizza gli operai o i contadini come i semplici o i diversi, è fin troppo uguale a loro. La sua identità a poco a poco diventa “distinta”, si distingue nelle sue varie fasi e incontri con il movimento operaio organizzato, con gli intellettuali, la città, la letteratura, il cinema. E inventa anche un linguaggio che gli permette di usare anche la scrittura non per uscire dalla sua identità, ma per arricchirla e ribadirla. La sua poetica è senza dubbio colta e ciò deriva dalla lacerazione. Come Guthrie cerca di far stare insieme il comunismo con la sua terra così la sua ricerca poetica è tesa alla sforzo di ricomporre termini apparentemente incompatibili. Non c’è niente di spontaneo e naturale in tutto ciò. Lui abbatte le mura (e per primo) fra poesia colta e poesia popolare, sia in musica che non. Grande, il più grande di tutti.E Pete Seeger è l’impegno, è la canzone politica, proveniente dall’altra direzione rispetto a Guthrie. Tuttavia penso che l’incontro più importante, che ha cambiato le sorti di tutta la musica, sia stato quello tra Guthrie e Leadbelly. Da quel momento si è aperto un orizzonte nuovo e niente è stato più come prima. E debbo dire grazie non mille, ma un milione di volte a Sandro Portelli che mi ha insegnato questo che ho scritto e mi ha aiutato a prenderne coscienza.
Marino musica nuova in arrivo?
MS – Questa estate c’è stata una ristampa de Il Seme e La Speranza, poi disco nuovo che si chiamerà Sangue e Cenere. La carovana si sta muovendo per arrivare in primavera 2014 a destinazione. Prime registrazioni ad ottobre, poi vedremo di superare gli ostacoli soprattutto di ordine economico, strada facendo … Prossimo anno festeggiamo i 30 anni dal primo disco, meglio farlo con un disco di inediti che non con le solite raccolte/tributi, cioè meglio guardando avanti che non al passato.Ti volevo ringraziare per l’epitaffio a Strummer sul 1 numero di “Outsider”, t’avevo detto mettiti sulla riva del fiume e aspetta… Adesso goditela, mi raccomando, la riva. Su Strummer pensa che all’in a u g u r a z i o n e del Parco Nord di Bologna, intitolato proprio a lui, non ci hanno manco invitati , forse perchè non adatti allo zumpappazumm sinistrense tanto caro all’Amministrazione di Bologna. Che tempi! Che ci toccherà ancora vedere e sentire da questi ribelli de noantri.
Credi che lo spirito di Strummer sia ancora vitale?
MS – Da sempre il rock ha incarnato il mito del ribelle, del disagiato e lo ha fatto svolgendo un ruolo messianico. E non solo musicalmente ma attraverso uno stile di vita. E questo filo roso che parte dagli anni cinquanta è stato molte volte spezzato e poi ricucito. A spezzare è sempre l’industria discografica, le major che fanno di tutto, una volta appropriatasi di un genere, di uno stile o di un artista, per farne svanire il potenziale eversivo. Ciò non toglie che il rock rinasce sempre. Joe Strummer è per noi l’ultimo grande “messia” del rock o almeno di ciò che intendiamo come fede. I messia ci sono ancora ma la loro voce è meno potente poiché pochi sono coloro che in occidente muovono verso una Terra Promessa. Si cammina altrove e lì il rock può avere un alternativa, una rinascita. Il disco della cantante algerina Ramitti è un segnale importante. Gli stili sono finiti, già dai tempi di Sandinista. Quel disco ha aperto il varco, la crepa sul muro e la luce è entrata nella stanza… Il rock ora è parte non è cupola ma sicuramente essendo il più grande linguaggio e cultura popolare del ‘900, nessuna cultura può prescinderne se aspira a “balzare in avanti” o addirittura a volare. Strummer è stato la sintesi totale di mezzo secolo di rock and roll. Tutto e più di tutto. Lui è stato il suo, il nostro tempo, più di chiunque altro perché è riuscito ad essere “oltre”. Anche Manu Chao è stato investito da questo ruolo, ma poi ha scelto di essere e restare un giullare più che sedere sul trono. Joe Strummer è morto, viva Joe Strummer.
Come si fa a contattarvi per farvi esibire? A quanto uscite?
DB – “Il paese della vergogna” costa 1300 euro netti, “Orazione civile per la resistenza- la Rossa Primavera” 1400 euro netti, “Storie dell’altra Italia” 1800 euro netti.I tuoi lettori ci possono contattare a info@danielebiacchessi.it oppure papare@alice.it
Sono usciti anche cd del vostro spettacolo?
DB – Il paese della vergogna e Storie dell’altra Italia sono entrambi prodotti da L’Atlantide e distribuiti da Edel Italy, quindi un’ottima distribuzione. I dischi si trovano nei principali negozi di musica e sono scaricabili sulle principali piattaforme digitali.
Storie dell’altra Italia per ricostruire il Paese, L’Unità di Daniela Amenta
L’altra Italia ha un passo rock, veloce, poliritmico ed elettrico. Ma ha anche una memoria di elefante: densa, importante, complessa. La memoria come «il diario che ciascuno di noi porta sempre con sé», per citare Wilde, ma anche traccia scolpita nel patrimonio genetico collettivo. La Storia, le storie in un Paese che spesso si smarrisce perché dimentica, cancella. L’altra Italia no. L’altra Italia archivia e guarda avanti, lancia frecce verso il futuro ma ha piedi ben piantati nella terra. Nel cuore della terra. Storie dell’altra Italia è il titolo dello spettacolo che Daniele Biacchessi, giornalista, autore e saggista, presenta domani sera a Roma, alla Sala Teatro Vignoli a San Leone del quartiere Pigneto (Via Bartolomeo D’Alviano 1) con il patrocinio della Provincia e del VI Municipio. Con Biacchessi, voce narrante, sul palco saranno i fratelli Severini dei Gang, storica e amatissima combat band tra folk e punk-rock, e Massimo Priviero, intenso e ruggente storyteller. A Roma la strana combriccola si ritrova (e ci ritrova) per tenere viva, tesa e attenta la memoria. Storie raccontate attraverso la musica, la poesia e il teatro civile, le pagine della letteratura e delle inchieste. Narrazioni popolari che appartengono a un solo Paese. Spiega Biacchessi: «Storie di alpini siciliani e sardi che vanno a morire insieme a loro coetanei veneti e lombardi durante la campagna dell’Armir in Russia nel 1944. Storie di studenti, operai, intellettuali, contadini che nel ’43 scelgono la democrazia e combattono nazisti e fascisti nella Resistenza. Storie di omicidi degli anni Settanta rimasti impuniti, di sangue versato lungo le strade e le piazze italiane, di giovani uccisi per le loro idee. Storie che arrivano da Calabria, Puglia, Campania, Basilicata e Sicilia, tra i ragazzi di Libera Terra che producono frutta, pasta e vino sui terreni confiscati ai boss mafiosi». Dalla lotta partigiana alle nuove Resistenze in un Paese che celebra tra fatica e orgoglio i 150 anni dell’unità. Un Paese sfilacciato, spesso diviso, e che però trova nella memoria il collante per rialzare la testa e tenere la schiena dritta. Storie dell’altra Italia è così una pièce in musica, scandita da canzoni e racconti, dai flash narrativi che arrivano del passato e parlano al presente, da lettere e sogni, e miraggi e profezie dilatate tra Sud e Nord. Un gigantesco coro con le voci anche dei migranti, i nuovi italiani. Eccola qui l’altra Italia di Biacchesssi, dei Gang, di Priviero. La nostra Italia coraggiosa e appassionata, un Paese che include, solidarizza, scalcia, canta e sogna. La nostra casa. L’approdo per gli altri. Eccola l’altra Italia. È qui a un passo. Tra le radici e le ali.
Biacchessi, memorie di questa Italia, Famiglia Cristiana, Daniele Rubatti
Daniele Biacchessi, narratore, saggista e vicecaporedattore di Radio 24, la radio del Sole 24 Ore, è uomo d’altri tempi. Da diversi anni porta avanti la sua battaglia contro l’abuso di potere, le associazione mafiose, la massoneria, con una passione e una tenacia unica. Dalla strage di Piazza Fontana al delitto di Paolo Borsellino, dalla musica al teatro passando per la narrativa, l’obiettivo dell’intera opera di Biacchesi rimane uno: scuotere i nostri animi, troppo spesso “in letargo”. Di recente insignito del prestigioso Premio Speciale Unesco, uno dei giornalisti più grandi di sempre, così grande che dovrebbe essere letto a scuola, si confessa a tutto campo ai microfoni d’inchiostro di famigliacristiana.it.
Tra pochi mesi uscirà il suo romanzo Orazione Civile per la Resistenza. Perché pensa che nel 2011 sia necessario parlare di Resistenza?
“Orazione civile per la Resistenza è un libro di testo per giovani e di narrativa e saggistica per adulti. Narro la vita di uomini e di donne che con le loro azioni coraggiose hanno cambiato il corso della Storia. E smonto pezzo dopo pezzo, attraverso l’oggettività della documentazione orale e scritta e la forza delle parole, le tesi del nuovo revisionismo tipo quello proposto ultimamente da Giampaolo Pansa. Le mie sono storie di vincitori, non storie di vinti. Perché la Resistenza fu una guerra di Liberazione contro la dittatura fascista e l’occupazione tedesca, non una guerra civile. Tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, il nostro Paese era occupato dalle forze armate della Germania nazista e il nostro territorio si trasforma in un distretto militare alle dirette dipendenze di Adolf Hitler, tramite la Repubblica Sociale Italiana di Benito Mussolini, un protettorato tedesco, sfruttato dai nazisti per legalizzare alcune loro annessioni e per ottenere mano d’opera a basso costo. Guerra di Liberazione organizzata sul piano logistico e militare da tutti i partiti e movimenti antifascisti italiani (comunisti, socialisti, democristiani, azionisti, demo laburisti, monarchici, anarchici), da soldati e ufficiali del disciolto esercito italiano dopo l’8 settembre 1943. Guerra di Liberazione riconosciuta e sostenuta dalle forze anglo – americane. Fino alla vittoria finale”.
Crede che il movimento degli Indignati sia una forma di resistenza?
“Ogni movimento, per quanto organizzato, passa e va. Serve per spronare i partiti, per accelerare una trasformazione. Ma i movimenti non fanno rivoluzioni, che in Italia non sono mai avvenute. Perfino la Resistenza non è stata una rivoluzione. Nel dopoguerra, dopo l’aprile 1945, i partigiani sono stati estromessi dal potere dallo stesso sistema, dagli apparati del vecchio fascismo diventati repubblicani. Alla fine l’indignazione senza uno sbocco politico resta mera protesta, anche se sacrosanta”.
Da diversi anni è impegnato con spettacoli di teatro civile. Uno dei più interessanti è Storie dell’Altra Italia, realizzato in collaborazione con i Gang e Massimo Priviero. Com’è nata l’idea? Vuole parlarci di questa esperienza?
“Storie dall’Altra Italia è l’ultima puntata di un viaggio nella storia e nella memoria italiana. Sono un narratore che racconta storie, spesso dimenticate, altre volte emblematiche. E sul mio cammino ho incontrato amici i come i fratelli Marino e Sandro Severini dei Gang e Massimo Priviero che attraverso le loro canzoni narrano storie. Nello spettacolo racconto tante pagine di storia contemporanea. Alpini siciliani e sardi che vanno a morire insieme a loro coetanei veneti e lombardi durante la campagna dell’Armir in Russia nel 1944. Studenti, operai, intellettuali, contadini che nel 1943 scelgono la democrazia e combattono nazisti e fascisti nella Resistenza. Omicidi degli anni Settanta, giovani uccisi per le loro idee. Nuove resistenze in Calabria, Puglia, Campania, Basilicata e Sicilia, tra i ragazzi di Libera Terra che producono frutta, pasta e vino sui terreni confiscati ai boss mafiosi. I Gang e Priviero fanno il resto con le loro canzoni. Diciamo che è uno spettacolo da performer, dove ognuno mette al servizio la sua arte. A gennaio uscirà un cd live registrato in molte città italiane, soprattutto a Bologna, sala d’aspetto di seconda classe della stazione dove il 2 agosto 1980 scoppiò una bomba ad altissimo potenziale e provocò la morte di 85 persone e 200 feriti. Perché i luoghi contano anche nel teatro civile”.
Nel 2007 ha pubblicato il saggio Il paese della vergogna, un titolo abbastanza provocatorio….
“Il paese della vergogna è l’Italia che non riesce a offrire una verità giudiziaria sulle stragi di piazza Fontana, piazza della Loggia a Brescia, treno Italicus, Questura di Milano, treno 904. E’ l’Italia dei depistaggi dei servizi segreti, dei testimoni e dei documenti spariti, dei processi e dei magistrati trasferiti in altra sedi, degli archivi nascosti nel 1960 nel cosiddetto armadio della vergogna e poi ritrovati nel 1994 con i nomi dei responsabili delle stragi nazifasciste come Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, Fivizzano, Benedicta, Vinca e altre migliaia. E’ il paese che sta a guardare dalla finestra, spesso indifferente, senza stimoli, che delega ad altri la ricerca della verità. Ma forse, dico forse, c’è un paese migliore”.
Che cosa si propone di trasmettere con questo libro?
“Il libro intende trasferire alle nuove generazioni la memoria di migliaia di persone che hanno pagato, anche con la vita, il prezzo delle loro idee di democrazia e di libertà. E’ un’operazione di scrittura della storia così come è avvenuta, il primo libro popolare sulla Resistenza uscito in Italia dopo gli anni del nuovo revisionismo. Nulla di ciò che pubblico è scritto sui libri di testo degli studenti. Il libro è come una sceneggiatura di un film in bianco e nero che solo sul finale, mentre scorrono i titoli di coda, diventa a colori. Forti avanzate, speranze di riscatto e di liberazione da anni di dittatura e soprusi, lunghe attese, rastrellamenti dei nazifascisti, fucilazioni, torture, delazioni, faticose ritirate, umilianti ripiegamenti, ancora avanzate d’inverno sotto la pioggia e la neve, azioni di sabotaggio, e ancora gravi perdite, attacchi contro postazioni strategiche del nemico, occupazioni di paesi e valli (Alba e Langhe, Montefiorino, val d’Ossola, Valsesia sono i luoghi più importanti), insurrezioni di città (Matera, Lanciano, Napoli, Firenze, Torino, Genova, Milano), fino all’aprile del 1945, i giorni della resa dei conti finale e della libertà conquistata”.
Che cosa pensa del sistema informativo italiano?
“Tutto il male possibile. Un giornalista dovrebbe vedere, narrare, raccontare, soprattutto consumare le suole delle scarpe. Non puoi raccontare l’alluvione in Liguria stando davanti al computer di casa o copiando le notizie dalle agenzie e da internet. Devi andare nei luoghi in cui avvengono i fatti e magari provare a raccontare qualcosa di diverso. Invece i cronisti parlamentari scrivono retroscena che non interessano nessuno, i cronisti di nera intervistano testimoni improbabili, i cercatori di gossip si inventano idiozie, i conduttori televisivi si trasformano in investigatori e mostrano plastici della casa di Cogne. Così la qualità dei prodotti giornalistici diventa sempre più scadente e il fruitore sempre più ignorante e impreparato. Il punto centrale non è la libertà di stampa, che non esiste, ma l’autonomia politica e l’indipendenza culturale del giornalista rispetto al potere”.
Un teatro civile per un paese incivile? di Oliviero Ponte di Pino
«Io so tutti questi nomi e so tutti questi fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.»
Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari
Lo sappiamo benissimo, qualunque spettacolo è teatro civile. Tuttavia a recuperare l’etichetta e a rivendicarla, alla metà degli anni Novanta, è stato Marco Paolini, che all’epoca stava mettendo a punto il suo Racconto del Vajont.
E’ utile delimitare il contesto in cui è stato rilanciato il concetto. In primo luogo, quando ne parla, Paolini tiene a precisare che il teatro civile è “anfibio, nasce e respira fuori dall’edificio teatrale”: risponde dunque al bisogno di superare i modi produttivi e distributivi – ma anche le censure implicite – del sistema teatrale: il quale non viene rinnegato, ma integrato ad altre possibilità e modalità di comunicazione e circuitazione. Perché il teatro civile si può fare anche dentro i teatri, ma nasce e si fa soprattutto fuori dai teatri, è un work in progress che cresce e si affina grazie al confronto diretto con il pubblico. E’ in qualche modo controinformazione, che cerca di diradare le nebbie dell’oblio e della manipolazione. Si pone come gesto militante, che trova il suo senso più autentico nel vivo del tessuto sociale, dove se ne sente la necessità e l’urgenza, là dove il conflitto – esplicito o latente – deve trovare espressione e linguaggio.
In quel momento storico, pochi anni dopo la caduta del Muro, il “teatro civile” si differenzia dal “teatro politico” che andava per la maggiore negli anni Settanta e che sta vivendo una crisi irreversibile, così come appaiono in crisi i tradizionali modelli di mobilitazione collettiva. Il teatro politico appare superato per la sua impostazione ideologica e sospettato di essere veicolo di propaganda e indottrinamento, attraverso la trasmissione di una interpretazione del mondo ideologicamente predeterminata, rigida. A essere diversa è la posizione di chi agisce sulla scena: il regista e gli attori di uno spettacolo “politico” si considerano un’avanguardia, perché possiedono una verità che devono presentare al pubblico nella maniera più convincente. Chi fa teatro civile vuole invece porsi allo stesso livello degli spettatori: la sua ricerca della verità è, come lo spettacolo, un work in progress, un percorso sempre in divenire.
Come Pasolini, anche l’artefice del teatro civile può dire di sé: “Io non ho alle spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla o dal non averla voluta”: infatti non è uno specialista, un tecnico o un esperto (nel caso del Vajont, né Paolini né Vacis sono ingegneri o geologi), ma è “uno di noi”, un cittadino comune che si è appassionato a un problema o a un episodio storico, che si è informato e che vuole condividere con il pubblico il proprio sapere, accumulato con pazienza e trasformato in “storia”, in racconto-spettacolo.
Il racconto del Vajont nasce all’interno di quello che sta diventando un genere di successo – il teatro di narrazione – che si è definito proprio in quegli anni grazie al lavoro di Marco Paolini e Marco Baliani. “Teatro di narrazione” (una definizione che evidenzia una caratteristica in primo luogo formale) e “teatro civile” (una definizione che invece riguarda i contenuti e un certo rapporto con il pubblico) non possono essere sinonimi: tuttavia la loro genesi è strettamente intrecciata, tanto da rendere inevitabile nella percezione comune una sovrapposizione almeno parziale tra i due generi.
Anche perché i due spettacoli che hanno definito il teatro di narrazione alle sue origini anticipano alcune caratteristiche che qualificheranno il teatro civile, pur non essendo certo esempi tipici del genere. Il protagonista di Kohlhaas lotta tutta la vita per ristabilire la “verità” e dunque la giustizia (invano, peraltro): è l’atteggiamento che sottende molto teatro civile, quando sviscera le pagine più oscure della nostra storia recente, alla ricerca di verità e giustizia. Gli Album che Marco Paolini dedica all’infanzia sono costruiti sul nesso tra memoria individuale e memoria collettiva, tra esperienza personale e Storia: è l’equilibrio che cerca di ricostruire il teatro civile, riattivando la consapevolezza individuale per poter condividere un sentimento collettivo – e appunto civile.
Visto lo stretto legame tra teatro civile e narrazione, vale forse la pena di approfondire le ragioni che hanno portato a reinventare e riattualizzare una forma di comunicazione e di espressione originaria e archetipica come quella del racconto orale (una forma, lo si scoprirà quasi subito, che si adatta alla perfezione alla comunicazione televisiva).
In un teatro dominato dalla regia e dall’immagine (ovvero da un uso dell’attore nel primo caso funzionale a una progettualità esterna; e nel secondo da un utilizzo formalistico e iconico del corpo dell’attore), alcuni giovani autori-attori sentono la necessità di riscattare la parola e la stessa figura dell’attore – l’elemento centrale e indispensabile, insieme allo spettatore, dell’evento teatrale. Si avverte anche l’esigenza di ristabilire un rapporto diretto con il pubblico, al di là di ogni filtro intellettualistico, recuperando una forma di comunicazione immediata come quella del racconto (e che, lo si scoprirà quasi subito, si adatta alla perfezione anche alla comunicazione televisiva).
Per i loro esperimenti, i primi narratori non scrivono testi originali, ma si limitano ad appropriarsi di ready made come il celebre racconto di Kleist per Baliani o le storie del Petit Nicholas di René Goscinny per Adriatico di Paolini; poi, quando i meccanismi comunicativi e performativi saranno rodati, si porrà il problema dei contenuti. A quel punto il teatro di narrazione diventa anche “civile”: nascono Il racconto del Vajont e Corpo di stato. Fondamentale è il recupero della lezione di un maestro come Dario Fo, con i suoi spettacoli militanti (per l’aspetto civile) e con il monologo Mistero buffo (per la forma e il lavoro dell’attore); peraltro anche Fo, come molti narratori, fissa il testo dello spettacolo alla fine del processo creativo, quando è già stato rodato e “aggiustato” dal confronto con il pubblico.
Nel giro di pochi anni si affermano numerosi spettacoli di forte impatto che lanciano nuove generazioni di artisti: Radio Clandestina di Ascanio Celestini sulla strage delle Fosse Ardeatine, I-TIGI Racconto per Ustica di Marco Paolini sull’abbattimento dell’aereo Itavia, i due lavori di Laura Curino sulle utopie di Camillo e Adriano Olivetti, Mai morti di Renato Sarti con Bebo Storti sui massacri coloniali degli italiani in Etiopia, i bombardamenti della seconda guerra mondiale rivissuti attraverso gli occhi di un bambino a Roma (ancora Ascanio Celestini con Scemo di guerra) e a Palermo (Davide Enia con Maggio ‘43). Poi Reportage Cernobyl di Roberta Biagiarelli sull’incidente nucleare nella centrale ucraina; Daniele Biacchessi sulle morti di Roberto Franceschi, Fausto e Iaio, Peppino Impastato e Luigi Tenco; Ulderico Pesce sulla malagestione dei rifiuti radioattivi (Storie di scorie) e sulle lotte degli operai della Fiat di Melfi (FIATo sul collo); e ancora La strage di Peteano, una fiaba friulana del Teatrino del Rifo; Giulio Cavalli con Linate 8 ottobre 2001: la strage e Do ut des: riti e conviti mafiosi; Mario Gelardi con Gomorra (prima del film di Garrone), Mario Perrotta con i lavori sull’epopea dell’emigrazione italiana in Belgio (Italiani cìncali e La turnata). Non mancano gli approfondimenti su tematiche economiche, prima e dopo il grande crac: I miserabili di Paolini ma anche Previsioni meteo di Eugenio De Giorgi sul caso della Banca Antonveneta, senza dimenticare Gente come uno di Elena Lolli con Manuel Ferreira sul crac argentino…
E’ un elenco gravemente lacunoso (già mi scuso con gli assenti, ma il lavoro del centro dovrebbe appunto rimediare le dimenticanze, con l’aiuto prima di tutto degli interessati). Ma fa già intuire l’esplosione di un fenomeno che coinvolge tanti artisti e spettatori. Certo, è meno costoso produrre e far girare un monologo che un “vero” spettacolo; e per di più gli assoli sono molto flessibili e si possono replicare ovunque: nelle piazze e nei circoli politici e culturali, negli appartamenti e negli stadi, nei palazzetti dello sport e nelle stazioni ferroviarie, nelle fabbriche dismesse e nelle fabbriche occupate (ancora una volta, Fo docet). Ma c’è qualcosa di più, a sostenere questo boom, nell’economia della miseria teatrale. Questi spettacoli “poveri” ed essenziali incontrano l’interesse del pubblico e dei media, perché riflettono un bisogno profondo e diffuso di narrazione, di storie e di Storia, di verità, di identità.
Nel moltiplicarsi delle proposte, si differenziano ben presto sottogeneri e contaminazioni.
Per quanto riguarda i sottogeneri, si sono visti spettacoli:
– ispirati a un evento preciso; il modello (o l’archetipo) è la controinformazione dei giornalisti democratici dopo la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano del 12 dicembre 1969;
– che raccontano un momento o un periodo storico (un anno, un decennio); con particolare attenzione agli entusiasmi ribellistici (il brigantaggio, il ’68) e alla Seconda guerra mondiale (utilizzata più come serbatoio di esperienze e vicende umane significative e avventurose, ma attingendo assai meno all’epopea resistenziale, ormai usurata);
– biografici;
– autobiografici (o meglio, monologhi che attraverso l’autobiografia del protagonista-narratore affrontano tematiche civili);
– centrati su un problema o una tematica; possono rientrare in questa categoria gli spettacoli sul tema del lavoro: gli Appunti per un film sulla lotta di classe di Celestini, Fabricas di Ferreira-Lolli, l’indagine di Pesce sulla Fiat, ma anche Braccianti di Armamaxa; un altro sottofilone potrebbe essere dedicato a tematiche “di genere”: Dissonorata di Saverio La Ruina, Racconti di giugno di Pippo Delbono, Nata in casa di Giuliana Musso, e forse anche la controinchiesta Virus di Garabombo Teatro sull’Aids; e magari le Lezioni di sesso per casalinghe inquiete e assicuratori frustrati di Vladmir Luxuria. Certi spettacoli potrebbero ricadere in più di una categoria: per esempio, quella dedicata al lavoro interseca senz’altro quella che affronta le varie sfaccettature della questione meridionale, dal brigantaggio post-unitario (Briganti di Gianfranco Berardi o Il sole del brigante di Alfonso Santagata) all’emigrazione, fino alla dilagante criminalità organizzata (al proposito vedi anche l’interessante progetto sui “teatri della legalità” diretto da Mario Gelardi per I Teatrini di Napoli). Molti di questi temi riecheggiano le denunce della letteratura e del cinema “impegnati” degli anni Sessanta e Settanta (basti pensare alla filmografia di Francesco Rosi); e al tempo stesso paiono rispondere agli appelli “alla Fofi”, quando si invoca un’arte non ombelicale, in presa diretta con la realtà e i suoi conflitti (anche se poi è stato proprio Goffredo Fofi il primo a mettere in guardia dall’alluvione dei narratori che avrebbe invaso le nostre scene).
A completare questa tassonomia vagamente borgesiana, un’ultima voce: altro. Con l’avvertenza che questa fragile cartografia potrebbe offrire un primo schema per catalogare il genere.
Sul fronte delle contaminazioni, d’abitudine il percorso evolutivo prevede in una prima fase l’arricchimento dello one-man-show con un gruppo musicale di supporto: è anche un trucco per superare i cliché del bravo narratore, che si cristallizzano con rapidità, diventando ben presto stucchevoli. Le ibridazioni tra teatro civile e teatro canzone generano a loro volta un ulteriore sottogenere, cui si potrebbero ascrivere Un po’ dopo il piombo di Giangilberto Monti sulla storia d’amore tra Renato Curcio e Mara Cagol, o Formidabili quegli anni con Giulio Casale, ispirato al libro omonimo di Mario Capanna sul ’68 a Milano. Ma anche il teatrodanza può misurarsi con tematiche civili, vedi il Festino di Emma Dante. Un altro innesto praticato di frequente è quello multimediale, con l’inserimento di spezzoni video e di animazioni in stile power point a sostituire l’antica lavagna come supporto didattico.
Naturalmente – e questa è un’altra possibile linea evolutiva – si può ipotizzare la compresenza sulla scena di più di un interprete: ci sono spettacoli di teatro civile che utilizzano, restando peraltro ancorati alla narrazione, cast più ampi, come il trittico dell’ATIR dedicato al ’68 (ancora…), al Che e al 1989.
Tuttavia, in questo proliferare di proposte e contaminazioni, le caratteristiche principali del genere si sono stabilizzate molto presto. Un primo aspetto significativo (e problematico) riguarda la figura, il punto di vista e l’autorevolezza degli interpreti. Si è già accennato al fatto che gli artefici del genere non si pongono come esperti, ma come persone normali che però si sono fatte carico di una funzione informativa e formativa. Non interpretano dunque un personaggio, ma salgono in scena in quanto individui, come cittadini che hanno a cuore l’ethos collettivo: la loro legittimazione, la loro credibilità si fondano proprio su questo “metterci la faccia” e sulla relazione che riescono a instaurare sul pubblico, che misura la loro “verità”, operando un cortocircuito tra la sincerità di chi parla e la verità di ciò che dice. Per esempio, se l’attore che interpreta il barbone Didi in Aspettando Godot passa il suo tempo libero a gironzolare con un motoscafo da 400 cavalli tra Portofino e Porto Cervo, non c’è nessun problema: la distinzione tra attore e personaggio è chiara; se invece si scopre che l’autore-interprete di un monologo “civile” sull’inquinamento e sul rispetto dell’ambiente pratica lo stesso hobby “ecologicamente scorretto”, perde all’instante la sua credibilità. A un regista come Luca Ronconi (che sulle infinite ambiguità del rapporto tra attore e personaggio lavora da sempre), la sovrapposizione tra l’io e la maschera appare truffaldina, quasi oscena. Nell’allestire spettacoli indubbiamente assai “civili” come Il silenzio dei comunisti (basato sullo scambio epistolare tra Miriam Mafai, Alfredo Reichlin e Vittorio Foa) e Lo specchio del diavolo (da un saggio dell’economista Giorgio Ruffolo), e dunque partendo da testi facilmente adattabili agli stilemi del teatro di narrazione, il regista ha scelto di enfatizzare proprio la dimensione teatrale, enfatizzando la cornice e il gioco della finzione. Per incarnare i tre autori dell’epistolario ha scelto – in maniera provocatoria e straniante – tre interpreti fisicamente e anagraficamente molto lontani dai reali autori delle lettere, a evitare ogni possibile confusione. Teatralizzando in chiave quasi di varietà Lo specchio del diavolo, ha esplorato le infinite potenzialità drammaturgiche di un testo saggistico (in apparenza neutrale e impersonale), inventando luoghi e spazi, portando sulla scena personaggi (storici e fittizi) e maschere, e ha dato tridimensionalità alla scrittura estraendo dialoghi e cori, e popolando la scena di simboli e allegorie.
Sotto vari aspetti, i narratori del teatro civile paiono più vicini alle maschere di certi attori comici che agli interpreti del cosiddetto “teatro di prosa”. Non a caso gli uni e gli altri condividono l’uso di termini e cadenze dialettali. Ecco il veneto di Paolini, il romanesco di Celestini, il siciliano di Enia, il pugliese di Perrotta…. Questa identificazione “etnica” è parte integrante della “persona scenica” e contribuisce a renderla familiare, autentica e credibile: come accade a molti comici, che del retroterra linguistico fanno un punto di forza. Simmetricamente, le incursioni di comici e cabarettisti nel teatro civile non sono un’eccezione: dal Signor Rossi e la Costituzione di e con Paolo Rossi ai Settanta rivissuti da Walter Leonardi.
Un altro aspetto centrale – e ugualmente problematico – è il rapporto con la storia e la memoria. Al centro di molto teatro civile c’è una pagina di storia recente che è necessario portare – e a volte riportare – alla consapevolezza collettiva: perché è stata dimenticata, perché la verità è stata in qualche modo occultata o distorta. Questo atteggiamento presuppone la conoscibilità della storia di un popolo, di una nazione (o di una classe) da parte del soggetto individuale e collettivo che ne è insieme protagonista e destinatario; e implica il dovere civile di conoscerla.
Nell’ispirazione degli artefici del teatro civile riecheggia anche qualcosa del gesto di Antigone, che non può lasciare i suoi morti insepolti: i cadaveri senza giustizia non possono trovare pace e dunque continuano a turbare le nostre vite.
Il boom del genere fa tuttavia affiorare un sospetto: forse chi avrebbe avuto il compito di farci conoscere e condividere la nostra Storia (gli storici, la scuola, i mass media) non ha fatto bene il suo lavoro. Peraltro è diffusa la convinzione che la recente storia italiana sia alla fine inconoscibile, punteggiata com’è di omissis, buchi neri, misteri, trame, sette segrete e poteri occulti. Basta curiosare in qualunque libreria per averne la conferma: gli scaffali traboccano di libri su quello che non sappiamo, ma pochi si preoccupano di mettere in ordine quello che sappiamo e dobbiamo sapere per orientarci in questo convulso presente. Il rischio è ovviamente quello di cedere alla tentazione paranoide del “complottismo” o a quella urlata dello scandalismo, rinunciando a una ricostruzione scientifica e a una interpretazione razionale dei processi storici.
In questi anni il teatro civile ha provato a sciogliere alcuni di questi misteri, a far riemergere il rimosso. Spettacolo dopo spettacolo, ha così iniziato a scriversi una Storia – o forse una controStoria – dell’Italia contemporanea. Che ci fosse questa potenzialità se n’era accorto molto presto Carlo Freccero, all’epoca direttore di RaiDue, quando alla fine degli anni Novanta iniziò a inserire in palinsesto alcuni esempi di teatro civile, a partire dal clamoroso successo del Vajont.
Anche se non risponde ai requisiti della ricerca accademica (e magari proprio per questo), l’idea della storia patria che emerge dal teatro civile è certamente rivelatrice: sintomatica almeno dell’atteggiamento di autori e pubblico, e forse anche di qualche carattere nazionale, vero o presunto.
Per cominciare a orientarsi in questa “controstoria narrativa”, potrebbe essere opportuno (e questa è un’altra chiave di catalogazione) mettere in parallelo una cronologia della recente storia italiana con la sequenza degli eventi che hanno ispirato i nostri narratori, per vedere su quali momenti e fasi s’addensa il loro interesse. Questa “storia d’Italia civile e teatrale” non segue un percorso organico: rispecchia le curiosità e le necessità dei suoi artefici, e dunque si ricompone per frammenti, zoomate, approfondimenti. Per lo più è fatta – su un costante sottofondo di soprusi e menzogne, o assordanti silenzi – di eventi tragici, a cominciare dalle stragi che hanno segnato l’immaginario collettivo, dagli agguati e dagli amazzamenti vigliacchi (una costante della storia e del melodramma italici). Spesso sono eventi difficili da interpretare a causa di interessi economici, politici, militari, malavitosi (singolarmente o intrecciati tra loro – magari in un qualche complotto…).
S’è già ribadita la funzione di supplenza svolta dal teatro civile. Certo, se la scuola, l’informazione, la storiografia e la politica avessero fatto il loro dovere, se nel nostro paese esistessero luoghi e momenti della memoria condivisi, sarebbero meno avvertite la necessità e l’urgenza di spettacoli-lezione sul nostro passato prossimo.
Peraltro la convergenza tra il giornalismo d’inchiesta e la drammaturgia civile è già in atto: basti pensare al percorso di Daniele Biacchessi, che dal giornalismo è approdato alla scena; ai prologhi commissionati a Marco Paolini da Report, come prologo alle inchieste-denuncia della redazione guidata da Milena Gabanelli; e soprattutto a Promemoria di Marco Travaglio, efficacissimo esempio, insieme, di giornalismo d’inchiesta, satira politica e teatro civile. Affrontando di petto il problema, anche il filone del teatro-giornale (Gigi Gherzi) e in generale del “teatro informazione” si muove lungo questa lunghezza d’onda. Al proposito, si può aggiungere che uno degli obiettivi di un centro di documentazione sul teatro civile, al di là della creazione di un archivio sugli spettacoli con annessa catalogazione, dovrebbe consistere proprio nel mettere in contatto chi ha storie interessanti da far conoscere (i giornalisti d’inchiesta) e chi invece cerca storie interessanti da raccontare (i teatranti).
Ma la Storia (quella con la S maiuscola) non la scrivono i giornalisti con le loro inchieste, e nemmeno i giudici con le sentenze. Ancor meno la possono scrivere i guitti con le loro esibizioni. Tuttavia resiste il bisogno delle loro trovate, della loro capacità di raccontarci a noi stessi. C’è, in primo luogo, la natura “civile” del teatro, di tutto il teatro: perché quella pagina di storia viene rivissuta di fronte a una collettività e offerta a una riflessione che coinvolge almeno potenzialmente l’intera polis (o tutto il popolo). Il rito laico della rappresentazione diventa un momento di ricostruzione dell’identità e dell’emozione collettiva (anche questo era la catarsi) e lo spazio teatrale si trasforma così in luogo della memoria.
Ma per svolgere davvero questa funzione, forse il “teatro civile” dovrebbe porsi con maggiore urgenza la questione della propria specificità e della propria poetica. Quasi tutti gli spettacoli che abbiamo citato usano la forma del racconto. Sono dunque prosa: buone intenzioni, attenta ricostruzione dei fatti, ostinata ricerca della verità, inevitabile indignazione… Forse quello che manca a molto teatro civile – e che alla lunga lo inaridisce in una formula – è la mancanza di poesia, di visionarietà. Basta ripensare ad alcuni spettacoli davvero civili di questi ultimi anni, alla loro capacità di trascendere i fatti per aprirsi a una prospettiva poetica, storica, filosofica. Alcuni esempi molti diversi tra loro, presi quasi a caso: Novecento e Mille di Leo De Berardinis, Dorothy di Fanny & Alexander, La menzogna di Pippo Delbono.
Un’ultima annotazione: la maggioranza degli spettacoli di ispirazione civile è animata da una tensione militante. Perché non basta informarsi, ricordare, commuoversi, condividere, indignarsi. Dopo tutto questo sommovimento interiore, resi finalmente consapevoli, bisognerebbe poi in qualche modo mobilitarsi, testimoniare, agire nella realtà politica e sociale per trasformarla. Per chi li fa e per chi lui applaude, questi spettacoli non dovrebbero essere solo l’occasione per mettersi a posto la coscienza di cittadini esemplari e politicamente corretti. Invece, come molte irresistibili denunce dei satirici, come molte documentate inchieste giornalistiche, come molte esemplari condanne passate in giudicato dopo rigorose indagini giudiziarie, questa faticosa ricerca della verità sembra poi avere scarsissimi effetti pratici, o pare addirittura controproducente. Resta inefficace rispetto all’obiettivo immediato – raddrizzare quello scandalo, denunciare quel “malamente”. Resta inefficace anche su un orizzonte più ampio, quello della creazione di una coscienza civile più matura. Anche su questo vale la pena di meditare.
L’isola che non c’era, Recensione del cd “Il paese della vergogna” Daniele Biacchessi – The Gang, di Rosario Pantaleo
In un Paese dalla memoria corta ed intriso di evidenti “tracce” di decandenza sociale, politica, economica, etica, umana, un lavoro come quello proposto dai Gang e Daniele Biacchessi è una boccata di ossigeno che ci ricongiunge con una modalità espressiva spesso abbandonata in favore di scelte artistiche inconsistenti e/o fuorvianti. Nel nostro Paese, purtroppo, il coraggio di esprimere posizioni forti e sincere, senza paura di perdere rendite di posizione, è ormai appannaggio di pochissimi “mohicani” che non temono il combattimento, non hanno paura di essere scomodi, non soffrono l’essere relegati ai margini della discografia o della cultura. Sanno di non essere vincenti ma, certamente, mai sconfitti. E’ necessario, quindi, partire dal concetto che un lavoro come questo non rappresenta uno spettacolo teatrale – con voce recitante, canzoni e musiche – bensì un viaggio nella memoria e bene hanno fatto i protagonisti, Biacchessi ed i fratelli Severini, ad iniziare con le parole, indimenticabili, di Pietro Calmandrei e della sua ode verso il generale tedesco Kesserling, comandante in capo della Wermacht nella campagna d’Italia nel 1943-1945. Un’ode di straordinario impatto che andrebbe fatta ascoltare ogni 25 aprile soprattuto a chi del revisionismo storico sulla resistenza ha fatto la sua bandiera. Scorrono le storie d’Italia, con Piazza Fontana, la mafia, il malaffare che sgorga dalle parole di Biacchessi, intense e taglienti. Scorrono le immagini di fatti, luoghi, persone, speranze, dolori, nelle canzoni dei Gang che, forse qui più che in altre occasioni, si dimostrano strumenti perfetti della canzone popolare, proprio quella incarnata da Woody Guthrie del quale, come altre migliaia di artisti, sono debitori dell’ingegno artistico e della passione civile e politica. Canzoni come La pianura dei sette fratelli, Perchè Fausto e Iaio?, Dante Di Nanni (degli indimenticati Stormy Six), Sesto San Giovanni, Eurialo e Niso sono l’esempio tangibile che la canzone politica, la canzone sociale, la canzone popolare esiste ancora. Basta avere il coraggio di pensarla, comporla, cantarla. Ma, appunto, ci vuole coraggio e, ahimè, nel nostro Paese e di questi tempi ben pochi ne hanno… Un album ed uno spettacolo consigliato a tutti, in particolare, ai giovani affinchè possano ripensare a quello che è stato affinchè non accada più.
L’ideale, 14 aprile 2009, “Il paese della vergogna, Italia la vera smemorata” di Valentina Mastropietro
Paese dalla scarsa memoria il nostro, martoriato purtroppo in questi funesti giorni dalla immane catastrofe sismica, nazione che però dal suo passato si ostina a non imparare, a dimenticare, e fra l’altro a non punire i colpevoli delle tragedie create in certi casi solo ed esclusivamente dalla ferocia umana e non dall’incuria o arretratezza, aggiunte alla Natura che a volte fa sentire prepotentemente la sua forza.
“Il paese della vergogna”, sempre la nostra povera Italia smemorata e distratta, pubblicato dalla Chiarelettere Editore, è l’emblematico titolo di un testo di Daniele Biacchessi, giornalista, scrittore, e vicecaporedattore di Radio news 24 e attore che ha trasposto a teatro la sua opera accompagnato dai fratelli Marino e Sandro Severini dei Gang, uno chitarra solista e l’altro chitarra e voce.
Si tratta di una sorta di “spettacolo non spettacolare” che sta girando nei teatri e nei luoghi dedicati alla cultura e per le prossime tappe dopo Roma, al Nuovo cinema Aquila lo scorso 3 aprile, rimandiamo ai siti del giornalista e a quello della casa editrice:
https://www.danielebiacchessi.it/ ; http://chiarelettere.ilcannocchiale.it/?r=82236
I Severini interpretano con la musica alcune parti della narrazione e si alternano al monologo dell’autore che a volte sapientemente si rivolge al pubblico, ed è tutto qui, essenziale, spoglio, privo di scenografia o effetti scenici, brani e parole bastano per suscitare negli spettatori rabbia, protesta.
Biacchesi è una sorta di “aedo”, un cantastorie che gira per l’Italia raccontando e chiedendo giustizia per far in modo che alcune delle tante stragi impunite che hanno insanguinato la nostra terra non cessino di indignarci, par far si che le vittime innocenti di alcuni degli orrori della seconda guerra mondiale come le stragi nazifasciste di Sant’Anna di Stazzema e Marzabotto, o degli attentati negli anni successivi a Piazza Fontana, Piazza della Loggia, al treno Italicus, alla stazione di Bologna, a via dei Georgofili, fino a quelle di stampo mafioso contro i giudici, non muoiano una seconda volta .
Teatro civile per non dimenticare ferite grandi alla vita umana e alla giustizia, episodi in cui troppo spesso i colpevoli sono rimasti impuniti e i Poteri che hanno occultato e nascosto per anni le prove sono ancora forti, ammonimento a tutti noi per tener viva la memoria della nostra storia, per resistere all’oblio della ragione e all’imbarbarimento dei costumi che rischiano di farci precipitare in un abisso.
Repubblica Torino , 19 settembre 2008, “Il paese della vergogna, le verità negate d’Italia “
Un cantastorie contestatario, accompagnato da due chitarristi, è il perno di Il paese della vergogna, recital musicato di e con Daniele Biacchessi e i fratelli rock Marino e Sandro Severini dei Gang, oggi alle 21 al Circolo dei Lettori. Giornalista, scrittore e voce narrante, Biacchessi snocciola le verità negate di un’ Italia fosca, già argomento dei suoi libri e di quello in particolare che porta lo stesso titolo dello spettacolo, edito da Chiarelettere. Stragi e colpevoli fantasma, da Marzabotto a Bologna, nazifascismo, terrorismo e mafia, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Trait d’ union l’ ingiustizia, che accomuna i tanti protagonisti della narrazione. Biacchessi è stato definito «l’ unico erede della narrativa civile di Pier Paolo Pasolini».
Il Tirreno , 4 agosto 2008, “Nel paese della vergogna”
1944, Sant’Anna di Stazzema. Inizia da un immagine di un girotondo di bambini il racconto di Daniele Biacchessi che con “Il paese della vergogna” sarà a Massa, parco Comasca, il 6 agosto alle 21. Questo spettacolo parte da un dato di fatto, incontrovertibile. In Italia la verità storica non segue mai lo stesso binario della verità giudiziaria. Le prove delle stragi nazifasciste di Sant’Anna di Stazzema e Marzabotto nascoste nel cosiddetto “Armadio della vergogna”. I colpevoli di stragi come Portella della Ginestra, Piazza Fontana, Piazza della Loggia a Brescia, treno Italicus, stazione di Bologna, Rapido 904, sono tutti sostanzialmente liberi. E’ l’Italia spiazzante delle verità negate, raccontate da Biacchessi attraverso scene esemplari, flash su personaggi diversi tra loro ma uniti da un solo nome: ingiustizia. Un collage di fatti e storie, carichi di emozioni. A Biacchessi «non servono effetti speciali – scrive Bruno Ventavoli sulla Stampa – Bastano la sua voce e la volonterosa musica di un paio di amici. Perché è la storia d’Italia, quella più fosca, più scomoda, più vergognosa, ad accapponare la pelle del pubblico. Daniele Biacchessi gira le piazze come un antico cantastorie a svegliare le coscienze dei cittadini». “Il paese della vergogna” è uno spettacolo e un libro pubblicato da Chiarelettere Editore che raccoglie, in una versione riveduta e ampliata, alcuni testi di teatro narrativo civile scritti e interpretati in centinaia di repliche da Daniele Biacchessi:”La storia e la memoria”, “Fausto e Iaio”, “Storie d’Italia” e “Quel giorno a Cinisi. Storia di Peppino Impastato”. I quadri sulla strage di via dei Georgofili e Libero Grassi sono scritti da Raja Marazzini.
Trentino , 24 aprile 2008, “Fausto e Iaio, il sacrificio per la verità”
Per non dimenticare la drammatica storia di due ragazzi che persero la vita in una delle più controverse vicende degli anni Settanta. Nel 30º anniversario della loro scomparsa, l’associazione Fahrenheit 451 invita allo spettacolo teatrale “Fausto e Iaio. La speranza muore a 18 anni?”. L’appuntamento è per oggi, alle 21, al centro sociale Bruno. Protagonista di una rievocazione che ha la forza della memoria e l’intensità del teatro è la voce di Daniele Biacchessi, giornalista e scrittore, caposervizio di Radio24-Il Sole24ore. Biacchessi è accompagnato al sassofono dall’amico Michele Fusiello nel ripercorrere, tra narrazione, musica e testimonianze d’archivio, i fatti che portarono al tragico epilogo del 18 marzo 1978. Quella notte, Fausto Tinelli, di origini trentine, e Lorenzo “Iaio” Iannucci, entrambi diciottenni, vennero uccisi a colpi di pistola a Milano, in via Mancinelli, da un commando di neofascisti. I due giovani frequentavano il centro sociale Leoncavallo e stavano conducendo un’inchiesta sul traffico di droga a Lambrate Città Studi. Le indagini, con la collaborazione di giornalisti indipendenti, portarono alla luce il legame tra bande di estrema destra e organizzazioni malavitose. L’attentato non lasciò indifferente un Paese già scosso dal rapimento di Aldo Moro, avvenuto due giorni prima, e oltre centomila persone commosse e forti di rabbia si radunarono in piazza S.Materno per l’addio ai due ragazzi. Tuttavia, le inchieste aperte dopo l’omicidio finirono in un vicolo cieco, con i nastri delle testimonianze scomparsi e l’ombra della reticenza. Nel dicembre 2000, la procura di Milano chiese l’archiviazione del fascicolo e il delitto restò impunito. Lo spazio di via Dogana propone un lavoro per tener viva la memoria di Fausto e Iaio e riflettere su una vicenda che si ripercuote sul presente, su una generazione che non può e non vuole dimenticare. (pa.fo)
La Nuova Ferrara, 6 novembre 2007, “Biacchessi racconta l’Italia contro la mafia”
Si è concluso, presso la Sala Civica Falcone e Borsellino di Migliarino, con lo spettacolo di Daniele Biacchessi: “Storie d’Italia – Viaggio nell’Italia che resiste alla mafia”, il ciclo intitolato: “Mafia e Legalità”, nato per divulgare la cultura della legittimità tra i giovani e i giovanissimi, promosso dai Comuni di Migliarino, Ostellato e Comacchio.
Le vicende che Biacchessi (attore, giornalista, scrittore e vicecaporedattore di Radio news 24) porta in scena diventandone la voce narrante, sono un disarmante viaggio nella memoria di un Paese (l’Italia), dove spesso verità e giustizia si smarriscono negli intrighi della disinformazione, dei depistaggi e dei silenzi.
Una performance semplicemente straordinaria di questo cronista che, con il teatro narrativo civile, ha scelto di non fermarsi alla scrittura ma di aprire il sipario a storie dimenticate o archiviate. Sul palcoscenico: un leggio, un microfono, un sassofono, un grande schermo a fare da “quinta”, alcuni documenti sonori, l’inseparabile amico-musicista Michele Fusiello e “lui”, avvolto da un silenzio quasi imbarazzante che comincia a raccontare storie di mafia, di stragi, di verità scomode. Biacchessi, con l’aiuto di immagini inedite e testimonianze sonore, apre il diario dell’Italia che si ribella a Cosa Nostra. La pagina del caso di Placido Rizzotto e la strage di Portella della Ginestra. Le minacce ad un uomo per bene: l’avvocato Giorgio Ambrosoli, ucciso perché venuto a conoscenza dei legami finanziari tra Cosa Nostra e la Banca Privata di Michele Sindona. I tragici episodi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Il doloroso epilogo (scritto insieme al poeta Raja Marazzini), di un amore “mancato” tra due fidanzati fiorentini, dove lui morirà nell’esplosione di via dei Georgofili, che colpì la Galleria degli Uffizi e un palazzo adiacente. Per concludersi con il ricordo dell’imprenditore Libero Grassi, morto per non aver mai abbassato la testa davanti alla mafia. Biacchessi ha incantato, riuscendo a togliersi i panni dell’attore per entrare in quelli del narratore, che “vive” il suo stesso racconto in un tracciato di parole, silenzi e commenti sonori (di grande suggestione), che hanno materializzato un piccolo miracolo drammaturgico. “Perché nulla vada mai dimenticato”.
Il Tirreno , 11 settembre 2007
Al “Settembre” un’intera serata dedicata al tema della legalità. È stata organizzata dal Comune termale con il patrocinio della Provincia di Pisa e Avviso Pubblico. Prima dello spettacolo una gustosa cena a base di ricette siciliane realizzate grazie a numerosi volontari con i prodotti delle terre confiscate alla mafia. Libera Terra in prima linea come associazione che ha favorito questo processo di riscatto proprio in forza di una legge di iniziativa popolare del 1996 con la quale i terreni appartenenti ai boss della malavita sono stati restituiti alla collettività. Operano cooperative sociali composte da giovani che con il lavoro e l’impegno civile hanno permesso un’impresa davvero importante. I frutti del lavoro vengono distribuiti grazie a un circuito e a un mercato sano e virtuoso. La grande partecipazione di pubblico alla serata ha positivamente colpito gli organizzatori. Non meno di 180 coperti e tutti i prodotti venduti nel giro di una sola ora. Dopo il banchetto sono saliti sul proscenio il sindaco Paolo Panattoni, l’assessore provinciale Gabriele Santoni, don Armando Zappolini e l’editore Salvatore Coppola. Ognuno ha fatto le considerazioni del caso sul progetto attuale e su quelli futuri nella lotta contro le mafie nell’affermazione del principio della legailità. Grandi consensi allo spettacolo teatrale “Storie di Italia” di Daniele Biacchessi e Michele Fusiello. Biacchessi, vice capo redattore di Radio news 24, ha fatto vivere al pubblico un’atmosfera di emozioni profonde provenienti da una memoria comune, la memoria italiana. «Una memoria drammatica – ha spiegato Biacchessi – fatta di misteri e inganni ma anche custode delle idee e degli ideali di grandi uomini di cui la morte, a dispetto di chi l’ha voluta, ha segnato la nascita nuove speranze, forti come la rabbia». In scena con un eccellente dosaggio di multimedialità, cronache e recitazione veri e propri affreschi di memoria. Cinque quadri di storia contemporanea: Placido Rizzotto e Portella della Ginestra, Giorgio Ambrosoli, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, la strage di via dei Georgofili a Firenze e Libero Grassi.
Teatrica, giugno 2007, “Quando la denuncia della catastrofe diventa spettacolo” di Federica Maccotta
Teatro e giornalismo si intrecciano nel campo dell’inchiesta, un genere che vive su quotidiani e riviste, pur con alterne fortune, e che da una decina d’anni ha sconfinato sui palcoscenici italiani. Prendendo in prestito, dalla professione del reporter, il metodo d’indagine: un metodo basato sul lavoro sulle fonti, sulla citazione di documenti e testimonianze, sulle ricerche sul posto. In una parola, su un patto di onestà che viene stipulato tra giornalista e lettore: quel che stai leggendo merita fiducia perché è stato fatto tutto il possibile per restituire una versione corretta dei fatti, vicina alla realtà, senza pregiudizi e schieramenti.
Con questi “ferri del mestiere” lavorano anche alcuni autori e attori teatrali, quelli che hanno scelto di portare in scena la ricostruzione di vicende dimenticate o poco conosciute, in bilico tra teatro civile, di narrazione e politico. “Teatro d’inchiesta” è infatti un’etichetta instabile, che comprende spettacoli ed esperimenti molto diversi tra loro. Uniti, tuttavia, dal patto di onestà: uniti da una ricerca seria e documentata che si riflette nella drammaturgia. L’esempio più noto è Il racconto del Vajont (1993) di Marco Paolini, vero apripista del genere in Italia. Il primo a raggiungere un pubblico che le rappresentazioni teatrali tradizionali non possono neanche sognare: tre milioni e mezzo di spettatori in una sera. Il lavoro dell’attore-autore veneto è stato infatti trasmesso in diretta da Raidue, il 9 ottobre 1997, proprio dalla diga del Vajont. Qui, il 9 ottobre del 1963, quasi duemila vite vennero spezzate a causa di una frana che dal monte Toc cadde nell’invaso della Sade alzando un’onda che scavalcò la diga stessa, cancellando il paese a valle, Longarone.
Una tragedia che all’inizio venne considerata una “ribellione della natura” ma che presto si è rivelata costruita dall’uomo e dalla sua irresponsabilità: questo racconta Paolini, basandosi su Sulla pelle viva, libro-inchiesta della giornalista Tina Merlin che seguì per il quotidiano l’Unità l’intera vicenda del Vajont, sugli atti del processo alla Sade (Società adriatica di elettricità) e sulle testimonianza che lo stesso Paolini ha raccolto nel corso degli anni. Testimonianze che gli hanno permesso di correggere, sistemare e ridefinire il testo drammaturgico di volta in volta: cambiandolo, se necessario, da una replica all’altra, da una sera all’altra. «Ho avuto – spiega Paolini in Quaderno del Vajont – la preoccupante sensazione che qualsiasi cosa avessi detto sarebbe diventata la verità sul Vajont. Allora abbiamo massacrato il testo alla ricerca di contraddizioni e punti oscuri. Ho condiviso questo lavoro con colleghi e spettatori, con testimoni e protagonisti di questa storia, ho incontrato anche alcune persone che nomino nel racconto. Ogni cambiamento comportava un peggioramento momentaneo della qualità teatrale del racconto, perché i passi nuovi non erano fluidi e sicuri come gli altri. Ma è su questo, sulla consapevolezza di non mentire, che ho costruito l’orazione. Alla fine del racconto dico sempre: “Avete il diritto e anche il dovere di dubitare di tutto quello che avete ascoltato”».
Il lavoro di Paolini dunque, come quello del reporter, non ha l’ambizione di dire l’ultima parola o di aver raggiunto una verità assoluta. Piuttosto, lasciando parlare i fatti e quindi la realtà, il teatrante e il giornalista mirano a restituire allo spettatore e al lettore un quadro più completo, nel quale, come in un puzzle, vengono accostati eventi e nomi, ricostruendo quel contesto che spesso manca nell’informazione come nella coscienza civile.
Un’operazione analoga a quella di Vajont è stata fatta da Paolini per altre due pagine nere della storia italiana recente: la vicenda di Ustica e quella del Petrolchimico di Porto Marghera. Al Dc9 Itavia scomparso nelle acque tra Ponza e Ustica vengono dedicati I-tigi. Canto per Ustica (che debutta, con l’accompagnamento musicale di Giovanna Marini e del suo quartetto, nel giugno 2000 in piazza Santo Stefano a Bologna e viene trasmesso da Raidue il 6 luglio 2000) e I-tigi. Racconto per Ustica (2001, senza il Quartetto vocale). La storia complicata e misteriosa, storia di tecnicismi e superficialità, dell’aereo precipitato il 27 giugno 1980 viene ricostruita con precisione attraverso l’istruttoria del giudice Rosario Priore e il materiale originale (tracciati radar, registrazioni, carte) raccolto da Daniele Del Giudice, che ha scritto il testo con Paolini. Anche Parlamento chimico. Storie di plastica (2002) si basa principalmente sugli atti di un processo: quello condotto dal giudice Felice Casson, aperto grazie alla denuncia documentata sporta da un operaio del Petrolchimico in pensione. Gabriele Bartolozzo ha ricollegato infatti, grazie all’aiuto di esperti, la morte per tumore di centocinquanta operai alla tossicità di materiali chimici usati nello stabilimento: soprattutto cvm e pcv (cloruro di vinile e cloruro di polivinile).
I-tigi e Parlamento chimico, come Vajont, si scontrano con una difficoltà che si presenta anche al giornalista: utilizzare termini tecnici, riferiti a procedure specialistiche sconosciute ai più, rendendoli comprensibili. Prove d’invaso e carotaggi, aerovie e transponder, finanza e cloruri: per non rinunciare a usare le parole corrette, calzanti, il teatrante e il reporter sono costretti a spiegarle, ripeterle e rispiegarle, utilizzando paragoni con concetti d’uso comune, affinché le nozioni non scivolino addosso a chi legge o ascolta ma abbiano modo di sedimentarsi. Evitando così di rendere vana la ricostruzione dei fatti.
Non solo Paolini si trova di fronte a questo problema: i temi scelti dal teatro d’inchiesta sono per lo più temi difficili, storie ingarbugliate e caricate dal peso di perizie e tecnicismi. Storie che l’autore-attore non può sempre affrontare da solo: per questo – e per rendere ancora più solido il patto di onestà – spesso sceglie di rivolgersi a esperti che possano aiutarlo a chiarire, per primo a se stesso, i passaggi più difficili e specialistici. Roberta Biagiarelli, per esempio, racconta dei “comitati scientifici” che l’hanno guidata nella creazione dei suoi spettacoli per A come Srebrenica (1998) e per Reportage Chernobyl (2004). Biagiarelli infatti si è basata su libri, testimonianze e pareri di esperti: i comitati scientifici appunto, formati da giornalisti e scienziati (in particolare, questi ultimi, per lo spettacolo sul disastro nucleare del 1986 in cui viene data voce anche alle parole dei superstiti raccolte nel libro di Svetlana Aleksievic Preghiera per Černobil’) che hanno fornito dati e ricostruzioni degli eventi. Per il lavoro su Srebrenica, città posta nel 1993 sotto la protezione dei caschi blu dell’Onu durante la guerra nella ex Jugoslavia e attaccata nel luglio del 1995 dalle forze serbo-bosniache che ne massacrarono gli abitanti, l’attrice è stata invece molte volte in quella zona, raccogliendo le testimonianze dei sopravvissuti e dei profughi. Da questa esperienza è nato, nel decennale della strage, anche un video-reportage a metà strada tra documentario e teatro, creato dalla stessa Biagiarelli e dal giornalista Luca Rosini: Souvenir Srebrenica (2006), finalista al premio David di Donatello del 2007. In questo caso, dunque, dietro allo spettacolo esiste un vero e proprio impegno di indagine e reportage sul posto da parte dell’autrice, che non si è limitata a lavorare sulle inchieste redatte da altri.
Anche Portopalo. Nomi, su tombe senza corpi (2006) nasce da un viaggio compiuto dagli autori (Giorgio Barberio Corsetti, Guido Barbieri e Oscar Pizzo) nei luoghi del suo tema. Questo “requiem civile” è un intreccio di musica, testimonianze e immagini dedicato alla tragedia del naufragio fantasma del Natale 1996, quando la F174, un barcone carico di migranti, affondò al largo della costa siciliana portando con sé 283 vite. Una tragedia – la più grande del Mediterraneo dopo la fine della seconda guerra mondiale – passata per anni sotto silenzio, della cui esistenza si è addirittura a lungo dubitato e portata alla luce nel 2001 da un’inchiesta del giornalista de la Repubblica Giovanni Maria Bellu. Portopalo racconta solo in minima parte quanto successo dieci anni prima, concentrandosi sul dopo: gli autori sono stati in Sicilia, per comprendere le reazioni degli abitanti di Portopalo di Capo Passero (i pescatori trovavano nelle proprie reti i cadaveri ma non denunciavano l’accaduto per timore di fermare l’economia della pesca), e in Pakistan, il paese da cui veniva gran parte dei migranti. Qui hanno parlato con le famiglie, hanno tentato di documentare il peso del dolore, dell’assenza, del vuoto. Durante lo spettacolo infatti (nato dunque da un reportage nato a sua volta da un’inchiesta giornalistica) vengono proiettate le immagini del viaggio, accompagnate dalla musica dal vivo e dalle testimonianze di alcuni dei protagonisti: in scena ci sono Bellu, il pescatore siciliano Salvatore Lupo, il rappresentate dei lavoratori pakistani in Italia Shabir Mohammad e due sopravvissuti al naufragio, Shahab Ahmad e Mohammad Afzal. Quest’ultimo ha avuto la possibilità di venire in Italia e testimoniare al processo proprio grazie agli autori di Portopalo, che lo hanno “scoperto” in Pakistan.
Il naufragio del 1996 ha ispirato anche un’altra pièce: La nave fantasma (2004) di Bellu, Renato Sarti e Bebo Storti (Teatro della Cooperativa). A differenza del lavoro di Barberio Corsetti, Barberi e Pizzo, questo spettacolo si concentra sul viaggio della Yiohan (la “nave madre”) e sulla notte dell’affondamento della F174, mettendone in luce gli aspetti più paradossali e grotteschi. Si tratta infatti di un “cabaret tragico” che ripercorre con fedeltà le tappe dell’inchiesta di Bellu sottolineando l’assurdità, quasi caricaturale, di alcune situazioni: il silenzio delle autorità, il comportamento “omertoso” di chi sapeva e non ha parlato, l’attenzione scarsissima dei media riguardo a questa tragedia. La spirale del silenzio, insomma, in cui è scivolata la morte di 283 persone a poche miglia dalle coste italiane. Spirale rotta da Sarti e Storti che portano in scena, tra sketch comici e denuncia, lo stesso pubblico, obbligandolo ad ascoltare e a reagire. Il riso infatti è una forma di condivisione e compartecipazione, amplificata in questo caso dalla continua interazione tra platea e palco: tutti gli spettatori vengono per esempio coinvolti nella scena finale, quella delle tempesta, durante la quale i due attori leggono le deposizioni dei sopravvissuti.
Un’altra tragedia del mare, quella del traghetto della Navarma (oggi Moby Lines) che la notte del 10 aprile 1990 bruciò al largo del porto di Livorno causando la morte di 140 persone (ci fu un solo sopravvissuto), è riletta in teatro da Francesco Gerardi e Marta Pettinari in M/T Moby Prince (2006). Gli autori e interpreti restituiscono allo spettatore la ricostruzione – o meglio, le ricostruzioni – di quanto accadde quella notte: attraverso le testimonianze e le perizie raccolte nel processo, utilizzando materiale video e audio (le registrazioni delle comunicazioni radio), danno voce alle diverse “verità” emerse. Interpretazioni di come siano andate le cose, di come e perché ci sia stata una collisione tra il Moby Prince e la petroliera Agip Abruzzo: interpretazioni, appunto, che a quasi venti anni di distanza non hanno portato a una soluzione certa di questo “mistero d’Italia”, che nella memoria collettiva resta da imputare alla nebbia o alla distrazione dell’equipaggio (che stava guardando una partita di calcio, si disse).
Le nebbia che forse avvolse il Moby Prince e che certamente avvolge tante storie semi-dimenticate è la stessa che nell’ottobre 2001 portò alla collisione, sulla pista dell’aeroporto di Linate, tra l’aereo MD87 della Scandinavian Airlines System e un Cessna Citation, causando 118 vittime. Ma non fu solo la foschia della pianura padana il motivo dello scontro: ci furono altre responsabilità, emerse durante le indagini e raccontate da Giulio Cavalli in Linate 8 ottobre 2001 (2006), scritto con Fabrizio Tummolillo. Per farlo, l’attore milanese ha scelto di usare documenti giudiziari e perizie, ma anche l’ironia grottesca del grammelot della Commedia dell’arte, forma espressiva tipica dei giullari del Cinquecento e che, ai giorni nostri, è indissolubilmente legata al premio Nobel Dario Fo. La mimica esagerata, la recitazione viscerale e il linguaggio nonsense si piegano dunque a fare la cronaca di una vicenda caratterizzata da elementi di banale incredibilità: la segnaletica aeroportuale fuori norma, sulle piste i segnali anti-intrusione disattivati da anni, il radar di terra che è stato acquistato ma non ancora installato, i segnali di stop con luci rosse e verdi accese insieme.
I lavori su Linate e sul Moby Prince, così come il canto per Ustica di Paolini, sono nati su sollecitazione delle associazioni dei familiari delle vittime: tuttavia, spiega lo stesso Paolini, non si tratta di “casi”, di dolori individuali, bensì di storie che devono diventare parte del bagaglio civile dei cittadini, per insegnare loro a indignarsi ma soprattutto a farsi domande e a pretendere risposte. «I Tigi siamo noi ogni volta che voliamo», spiega l’attore veneto, che ha scelto di trasformare la sigla dell’aeroplano nel nome di un popolo, così simile a quelli dei primi abitanti della penisola italica.
La Storia e le storie d’Italia, le vicende cariche di dolore e mistero che hanno segnato il Novecento, sono al centro delle letture (reading) del giornalista Daniele Biacchessi, che ha scelto di dare una forma di monologo teatrale alle sue inchieste, spesso accompagnato dal sax di Michele Fusiello: i testi e i video delle sue performance si possono consultare su internet, sul sito Retedigreen.com. I temi spaziano dalla ricostruzione della fuga di gas tossico dalla fabbrica chimica Icmesa di Meda, al confine con Seveso il 10 luglio 1976 in La fabbrica dei profumi (1996), alla morte di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, due ragazzi di diciotto anni legati al centro sociale milanese Leoncavallo uccisi il 18 marzo 1978 nel quartiere Casoretto di Milano in Fausto e Iaio (1998). Dalle stragi, piccole e grandi, che hanno insanguinato l’Italia in La storia e la memoria (2004), agli omicidi di mafia in Storie d’Italia (2006) e in Quel giorno a Cinisi (2006) sulla morte di Peppino Impastato il 9 maggio 1978. Infine, il lavoro più recente di Biacchessi è Luigi Tenco (2007), dedicato al cantautore morto, per un colpo di arma da fuoco, il 27 gennaio 1967 in un albergo di Sanremo mentre nella città ligure si svolgeva il Festival, a cui Tenco partecipava.
Il teatro d’inchiesta spesso indaga, come si è visto, vicende del passato più o meno recente. Ma in un caso – Genova 01 (2001) di Fausto Paravidino – si è occupato di cronaca quasi contemporaneamente al suo svolgimento. Il lavoro di Paravidino sul G8 del 2001 ha infatti visto la luce, seppure in forma di work in progress, a breve distanza dagli eventi: ne è nata una istant play, commissionata al giovane autore genovese dal Royal Court Theatre di Londra per rendere noti i fatti di Genova al pubblico inglese. Genova 01 da allora ha subito trasformazioni e trascrizioni: alla luce di inchieste, di prove e di documenti, Paravidino ha aggiunto al testo nuovi elementi, nel tentativo di restituire una ricostruzione il più possibile onesta e fedele ai fatti. «All’inizio – racconta per esempio Paravidino – dicevamo che il risultato delle violenze di Bolzaneto erano tre persone in prognosi riservata; purtroppo abbiamo dovuto cambiare in “tre persone in coma”». Il testo “istantaneo” ha così raggiunto la forma con cui viene messo in scena ancora oggi, a sei anni di distanza: un collage di informazioni che viene presentato, più che rappresentato, da un coro di giovani. Che evidentemente assumono il punto di vista dei manifestanti, ma che non prendono le parti di nessuno: il racconto vuole essere lineare e pulito proprio perché siano i fatti accertati a parlare da soli.
Questa è infatti la chiave del teatro d’inchiesta: non interpretare ma presentare, sulla base di una seria documentazione. Un patto d’onestà che si sta ritagliando sempre maggior spazio sui palcoscenici di un Paese in cui memoria, informazione e coscienza civile hanno spesso contorni sbiaditi.
Santannadistazzema.org , maggio 2007, intervista a Daniele Biacchessi.
“Ad oggi la Storia e la Memoria conta più di 300 repliche, svolte in giro per l’Italia e per il mondo”. Daniele Biacchessi descrive così il suo spettacolo di teatro civile con il quale ripercorre le vicende più tristi ed intricate della recente storia del nostro paese, in un viaggio attraverso la realtà che inizia il 12 agosto 1944 a Sant’Anna di Stazzema, quando vennero trucidati dai nazifascisti 560 innocenti, e termina a Bologna, alla stazione, il 2 agosto 1980 quando un attentato terroristico provoca 85 morti e 200 feriti. Lo spettacolo è incentrato su Biacchessi che narra accompagnato dal sassofono del jazzista Michele Fusiello, mentre alle sue spalle scorrono immagini delle vicende via via trattate, rese ancor più suggestive dal sonoro originale di alcuni fatti tragici come quello di Piazza della Loggia Brescia.“ La Storia e la Memoria- prosegue il giornalista vicecaporedattore di Radio24-Il Sole24ore, Premio Cronista 2004 e 2005 ed autore di sedici libri d’inchiesta- nasce e viene interpretato in spagnolo per la prima volta in centro America in occasione di un viaggio di solidarietà in quei paesi organizzato dall’Arci. Mi venne chiesto di portare non solo beni materiali, come libri, mixer audio, trasmettitori radio, necessari a realizzare eventi culturali ma anche qualcosa che riguardasse la nostra storia”. Ecco quindi che la rappresentazione prende vita. “Si raccontano 60 anni di storia come se si affrontasse un vero e proprio viaggio : gli occhi dei bambini di Sant’Anna mentre stretti per mano fanno il girotondo sono gli stessi occhi dei bambini che, abbracciati alle loro mamme, aspettavano di prendere il treno nella stazione di Bologna per andare al mare. Si attraversa una spazio temporale rendendosi conto che si affronta un passato che non passa ma che, invece, si ripete ciclicamente : i fascicoli delle stragi, di tutte le stragi di ogni epoca vengono occultati. E’ questo un altro legame che accomuna Sant’Anna a Piazza Fontana, la Questura di Milano a Piazza della Loggia di Brescia, l’Italicus a Marzabotto”. L’Armadio della Vergogna, il grande mobile simile ad una cassaforte posto nel semiscantinato di Palazzo Cesi a Roma, sigillato e girato con le ante verso il muro che ha contenuto per più di 50 anni la documentazione sulle stragi nazifasciste in Italia, è il simbolo di questi silenzi. “E’ il motivo che induce a riflettere sulla classe dirigente italiana e alla volontà perpetrata di celare la verità e di non consegnarla alla storia. La prima vera strage in tempo di pace è stata quella di Portella della Ginestra del 1 maggio 1947 ma ce ne sono altre, come quella di Piazza Fontana del 1969 in cui non esiste una verità giudiziaria ma solo una verità storica. Lo stesso dicasi per Peteano di Sagrado, nel 1972, per la Questura di Milano nel ’73, Brescia, l’Italicus, Bologna. A Sant’Anna alcuni degli assassini sono stati rintracciati e condannati anche se con colpevole ritardo: c’è amarezza perché non pagheranno mai con il carcere essendo oramai troppo anziani”. Il girotondo dei bambini di Sant’Anna finisce accanto alla valigia contenente 25 kg di esplosivo serviti per far saltare in aria un’ala della stazione di Bologna. Per Daniele Biacchessi venire a Sant’Anna il 2 giugno è una grande emozione. “Sono onorato di venire a Sant’Anna- ha detto- e di portare lì uno spettacolo raccontato ormai a centinaia di migliaia di persone. I luoghi contano, eccome : questo in particolare è il posto che più mi emoziona. La mia intenzione è di trasmettere la commozione e la forte richiesta di giustizia invocata che invocano queste stragi, facendomi carico della voce dei cittadini e dei familiari delle vittime. Non c’è modo migliore di celebrare la nascita della Repubblica se non venendo a Sant’Anna
di Stazzema, ricordando la Costituzione : non esiste luogo migliore né più importante di questo. La memoria non è solo ricordo : ci vuole di più ,serve la consapevolezza di ciò che è stato per chiedere giustizia e verità su queste pagine drammatiche”. Biacchessi punta il dito contro il revisionismo storico. “Non ci può essere perdono né pacificazione se si racconta la storia delle stragi in modo diverso da come è accaduta realmente : i repubblichini portarono i fascisti a Sant’Anna, collaborarono ed ebbero gravissime responsabilità nella carneficina di 560 innocenti”.
Il popolo del blues, febbraio 2007, “A ritmo di blues” di Alessandro Mannozzi
Daniele Biacchessi è un cronista. Con le palle. E’ uno di quelli che quando annusano una pista, colgono quelle discrepanze che non fanno quadrare il ragionamento, non si ferma più. Porta sempre a qualcosa andare ad indagare nelle pieghe degli avvenimenti,della vita delle persone, nei rapporti di polizia o di altre entità. Non sempre torni a casa tranquillo ma così è la vita.
Biacchessi è giornalista d’inchiesta, scrittore, regista dei suoi spettacoli di Teatro Civile ed è profondamente legato alla radio: da diversi anni è vicecaporedattore di Radio 24 dove conduce la trasmissione “Giallo e Nero” il sabato alle 19.30 e la domenica alle 12.00. Ha scritto quindici libri che sono altrettante inchieste su fatti che hanno reso la storia di questo paese a volte penosa da raccontare: il delitto Tobagi, quello di Fausto e Iaio, D’Antona, Biagi, il terrorismo e la politica degli anni ’70 per citare solo una parte. A un certo punto ha deciso di coniugare la sua voglia di verità con la musica ed il ritmo del blues e nascono gli spettacoli del Teatro Civile. Monologhi dove Biacchessi sviscera i fatti, racconta le storie, i contesti con la musica e le immagini che raccontano anche loro dando il ritmo alla narrazione. Alcuni titoli: “Storie d’Italia” sulla mafia e sui giudici Falcone e Borsellino, ”La fabbrica dei profumi” sul disastro dell’Icmesa di Seveso, ”Quel giorno a Cinisi” sull’omicidio di Peppino Impastato. In ognuno degli spettacoli Biacchessi si avvale della performance musicale di Gaetano Liguori al piano o del sassofonista Michele Fusiello. Lo abbiamo incontrato per parlare di tutto questo, per capire dove vuole arrivare.
Da dove nasce la decisione di proporre le tue inchieste in teatro,nelle università,nelle piazze,nei centri sociali?
I luoghi contano. Lo spettacolo “La storia e la memoria” del 2004 inizia in spagnolo in un viaggio di solidarietà con il centroamerica, organizzato dall’Arci. Per anni portavano in molti paesi materiali per le Case delle Culture, soprattutto a Cuba. Mi hanno chiesto di seguirli con un racconto di teatro civile sulla nostra memoria. Così mi sono ritrovato su un palco, con luci, impianto audio(allora utilizzavo musiche di scena registrate)e i luoghi erano sempre biblioteche, Case delle Culture. E’ successo a Trinidad, Santiago, Avana, Niquero. Poi, tornato in Italia, il racconto é proseguito nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna, a Sant’Anna di Stazzema, Montesole, Marzabotto. Poi ancora nelle piazze, nelle strade italiane e naturalmente nei teatri, accompagnato dall’inseparabile sassofonista Michele Fusiello. Anche per il racconto su Peppino Impastato, (“Quel giorno a Cinisi”) che realizzo con il grande del jazz italiano Gaetano Liguori, il racconto é partito proprio dalla Sicilia, da Cinisi, il paese di Impastato. Sul palco piazzato davanti al municipio, dove lui denunciava le ingiustizie e gli affari sporchi della mafia, sembrava essere nella pellicola “Cento passi” di Marco Tullio Giordana. Oppure la sera del 18 marzo 2003, con i Gang sul palco montato in via Mancinelli a Mlano, dove vennero uccisi due giovani del Leoncavallo, Fausto e Iaio. I luoghi sono simbolici. Solo così le parole possono volare alte davvero.
La mafia,le stragi,la politica e i delitti eccellenti. Sono queste le “Storie d’Italia” che corrono il rischio di venir dimenticate ?
Sono tutte storie dimenticate, se ci pensi bene. In “Storie d’Italia” racconto la figura di Giorgio Ambrosoli, un avvocato liberale che viene incaricato di far luce sugli affari del finanziere Michele Sindona e la sua banca privata. Scopre che Sindona é uomo di mafia e che ha amici potenti dentro le istituzioni, dentro i partiti che governano il paese, dentro il Vaticano. Potrebbe farsi comprare, chiudere gli occhi e salvarsi la vita. Invece tira dritto e insieme al fido finanziere Silvio Novembre scompagina le carte di Sindona che sarà arrestato. Poi Ambrosoli verrà ucciso dalla mafia politica. E’ una storia italiana straordinaria, é la storia di uno che ha fatto il suo dovere. Nello stesso spettacolo racconto in cinque minuti la storia di due ragazzi che si baciano a Firenze, sotto gli Uffizi, il 23 maggio 1993. Non sanno che a pochi metri c’é una macchina imbottita di tritolo. Sono i loro ultimi cinque minuti d’amore. E’ poesia, ogni volta che mi tocca raccontarla mi si annodano le corde vocali.Non bisogna dimenticare, perché il passato che non passa rischia di minare le regole della nostra fragile democrazia.
C’è differenza tra un libro,un articolo e uno spettacolo dal vivo ? In che modo il rapporto col pubblico è più profondo ?
Sono linguaggi differenti e rapporti diversi con il pubblico. Ho scritto 15 libri d’inchiesta. Sono volumi che hanno venduto molto ma i miei lettori li ho conosciuti anni dopo, nonostante girassi in lungo e in largo l’Italia. Stessa cosa vale per un articolo su un quotidiano o per un servizio radiofonico. I tempi di reazione sono più lunghi. Sul palco invece guardi negli occhi il pubblico, senti i loro timori, i respiri, le tensioni, la tranquillità. Un bravo narratore sente tutto, comprende anche quando un pezzo stenta a decollare, quando il testo non é perfetto. Il pubblico se ne accorge. Chi viene a sentire spettacoli come i miei é gente preparata sul piano culturale, non puoi ingannarla.
Come ti sei trovato a passare dall’esposizione giornalistica di un fatto a quella invece drammaturgica e quanto il fare radio ti ha favorito?
La radio é la mia vita. Ho cominciato nel 1976 a Milano nelle radio democratiche e di informazione, ora, 31 anni dopo, sono vicecaporedattore di radio24, emittente del Sole 24 ore. Utilizzo la mia voce, la carico quando é necessario, la rendo più fluida nel caso dovessi leggere un notiziario. La voce é lo strumento per eccellenza e l’uomo non sempre conosce le sue potenzialità. In radio sono uno che sperimenta. In qualche modo il programma “Giallo e Nero” su Radio24 si avvicina al mio modo di fare teatro. Il programma nasce su carta, dalla forma scritta, poi si avvale dei documenti di archivio che in questo caso sono sonori, infine tutto viene amalgamato dalla musica attraverso un editing molto complesso. Anche i miei spettacoli di teatro civile nascono da un testo, si mischiano con la musica di Fusiello o di Liguori, vengoo migliorati dalle immagini che scorrono dietro e dai sonori d’archivio come la bomba di Piazza della loggia a Brescia oppure la voce di Peppino Impastato. Tanti mezzi uniti dalla forza della voce.
Quanti giovani vengono a vederti? Sono interessati a conoscere la storia recente italiana nonostante si dica che siano attratti da altro?
“Storie d’Italia” é stato scritto per l’associazione Libera di Don Luigi Ciotti . Lo spettacolo é proprio indirizzato ai giovani. Tutte le perfomances, a parte quella del 18 novembre 2006 a Roma, si sono svolte di mattina, in teatri stipati da ragazzi delle scuole superiori, preparati dai loro insegnanti attraverso corsi di formazione sulla legalità. C’è un bisogno di sapere sorprendente. Tante cose che racconto non sono scritte nei loro libri di testo. Alcune volte non riesco ad andare via perché alla fine mi avvolgono di domande. Sono sempre felice di offrire loro adeguate risposte.
Quanto la musica è importante nelle tue performances?
E’ fondamentale. Io sono un appassionato di musica. Ascolto rock, musica progressiva, jazz, blues, folk americano e inglese, musica etnica di ogni parte del mondo, elettronica, avanguardia. Sono affascinato da tutto quello che é ricerca e musica di qualità. Il sassofonista Michele Fusiello é un jazzista che ama esplorare sonorità diverse, alcune volte ancorate alla tradizione degli standard(Monk, Coltrane, Dexter Gordon, Miles Davis) come per lo spettacolo “La soria e la memoria”, altre volte più moderne come per “La fabbrica dei profumi” su Seveso o “Storie d’Italia” sulla mafia. Le basi vengono create nella nostra sala prove, tra il binario 16 e 17 della stazione centrale di Milano, un luogo oltre l’underground. Lì componiamo con nuove tecnologie applicate alla musica, costruiamo il telaio, poi gli effetti, e ancora torniamo all’impianto finale con l’editing. Tutto viene misurato al millesimo di secondo con i miei tempi di lettura, con le pause teatrali, con le improvvise accelerazioni. E’ un lavoro che dura mesi. Quando siamo pronti inizia il nostro cammino lungo le strade del nostro paese. Tutto questo é blues, é il cuore e l’anima , la ricerca e la passione, la riscoperta delle nostre radici e della nostra memoria. C’é molto blues nei miei testi e nella mia voce. Non puoi raccontare la morte di centinaia di vittime innocenti se non credi in quello che fai. Il pubblico lo scopre in fretta. Non puoi fare tutto questo se non ti si scava un profondo buco nero nel cuore.
Pensi che questo modo di comunicare i fatti sia quello destinato ad aprire una breccia importante nella generale mancanza di curiosità che caratterizza questa epoca ?
Sì penso che il teatro civile o il teatro di narrazione sia uno dei modi per raccontare storie del paese dimenticate facendole arrivare ad un grande pubblico. In quattro anni ho parlato ad oltre 40 mila persone in 500 spettacoli. Sarebbe impensabile poter raggiungere la stessa audience con dibattiti e presentazioni. Anche se si dovesse andare in tv non sarebbe la stessa cosa. magari parli a milioni di persone ma quanto resta di quello che dici nel loro cervello, nella loro anima? Oggi bisogna scuotere il pubblico, c’é bisogno di indignarsi quando si apprende che i generali che hanno compiuto i depistaggi sulla strage di Ustica vengono assolti, quando la Cassazione assolve tutti gli imputati per la strage di Piazza Fontana, quando non c’é ancora un processo per la strage di Brescia. Ci si deve indignare quando i processi per le stragi di Sant’Anna di Stazzema e di Marzabotto si chiudono(solo in primo grado) dopo 62 anni dagli eventi e si scopre che quelle verità erano state nascoste in un armadio chiuso a chiave, protetto da un cancello e da un lucchetto, nella sede della Procura Generale di Roma. Il teatro può sostituirsi alla mancanza di verità e di giustizia. Almeno per consegnare alle nuove generazioni un pezzo della memoria del nostro paese. A giugno uscirà “Il paese della vergogna ” per l’editore Chiare Lettere. Raccoglie tutti i miei scritti di teatro civile.
Grazie Daniele Biacchessi, ilpopolodelblues non dimentica…
Repubblica, 20 gennaio 2007, “Da Impastato alla Merlin, un secolo di eroi al leonka ” di Paola Zonca
La resistenza, la tragedia del Vajont, le uccisioni di mafia, le donne di Srebrenica, le stragi nazifasciste e quelle degli anni ‘ 70 e ’80: temi diversi, momenti diversi della storia italiana ed europea uniti nella non-stop di musica e parole “Suoni della memoria”, stasera al Leoncavallo dalle 21 a notte inoltrata. Organizzata dal giornalista, scrittore e autore di teatro civile Daniele Biacchessi, presentata da Filippo Solibello, la serata occupa i vari spazi del centro sociale, dal palco centrale alla libreria, e vede la partecipazione di attori, musicisti e scrittori nel tentativo di proporre una riflessione su fatti dolorosi che hanno segnato il secolo scorso. «Il filo conduttore – spiega Biacchessi – è la capacità di ricordare e di indignarsi sulle vicende del nostro paese che non hanno avuto giustizia. Milano, medaglia d’ oro alla Resistenza, è una città che tende a dimenticare. E spesso alla politica, in altre faccende affaccendata, si sono sostituiti gli artisti». Si parte con un ritratto di Tina Merlin, la cronista dell’ Unità e scrittrice che ebbe un ruolo importante nell’ Italia post bellica. Sarà l’ attrice Patricia Zanco, nel lavoro A perdifiato: ritratto di Tina Merlin (ore 21 sul palco centrale), a ripercorrere il percorso biografico della giornalista, dall’ infanzia sulle montagne del bellunese alla Resistenza, fino al resoconto sul dramma del Vajont, da lei affrontato nel libro «Sulla pelle viva». Alle 21.30, sullo stesso palco, Daniele Biacchessi e il jazzista Gaetano Liguori raccontano attraverso musica e teatro la storia di Giuseppe Impastato, giovane militante antimafia ucciso dai sicari di don Tano Badalamenti il 9 maggio 1978 a Cinisi (Palermo), e il calvario di familiari e amici per ottenere giustizia. Un tema che torna nella presentazione del libro Peppino Impastato, scritto dal figlio Giovanni Impastato assieme a Gian Paolo Serino (ore 22, Spazio Libreria). Si parla anche dell’ alluvione che colpì nel 1951 il Polesine con l’ attore Marco Sgarbi (ore 22, al Baretto), si rievoca con il progetto realizzato da Sergio Ferrentino per la Radio della Svizzera Italiana l’ esecuzione della Settima Sinfonia di Sostakovich durante l’ assedio di Leningrado del 1942 (ore 22.30, palco centrale), si affronta la tragedia delle donne di Srebrenica con Roberta Biagiarelli. Ma ci sono anche Liguori con la sua Cantata rossa per Tall el Zaatar, un video inedito di Bebo Storti sulla memoria, un concerto delle band Gang e Yo Yo Mundi con brani del loro repertorio sulla Resistenza (palco centrale, ore 00.10), ancora Biacchessi che con Michele Fusiello riannoda il filo che va dagli eccidi nazifascisti alle stragi di Piazza Fontana e Piazza della Loggia in La storia e la memoria (palco centrale, ore 1.10). Il finale, all’ 1.45, è con un reading di Carlo Lucarelli, scrittore di letteratura gialla e noir. Dalle 21 al centro Sociale Leoncavallo, via Watteau 7.
Trentino, 20 dicembre 2006, “Non perdete il vizio della memoria ” di Corrado Consoli
Ottima affluenza di pubblico a Sociologia per l’incontro organizzato dal Coordinamento studenti sulla strage della stazione di Bologna nel 1980. Dopo una ventina di minuti e più di attesa, comprensibili visto lo sforzo dei ragazzi di allestire all’interno di un’aula di università una scenografia da palco, i presenti sono stati accolti dalla presentazione del professore di storia contemporanea Gustavo Corni, che nel 1980 studiava a Bologna ed era passato dalla stazione il giorno prima della strage, il quale parlando a nome del preside ha ricordato quanto sia importante per la facoltà un’apertura verso questo tipo di temi. Dopo una breve introduzione dei ragazzi, la scena è stata tutta di Daniele Biacchessi. Il giornalista d’inchiesta, nonché scrittore e autore di teatro civile, ha letto un suo monologo che ripercorre le tappe più dolorose delle violenze fasciste in Italia, dagli avvenimenti della Seconda guerra mondiale alle stragi di piazza Fontana e Bologna, fino all’omicidio di Carlo Giuliani. Biacchessi si è servito di numerose citazioni, come quella iniziale dal libro “Farheneit 451” di Ray Bradbury, che paragona l’uomo alla fenice che si getta di continuo nel rogo, dimentica degli errori passati, accompagnato da immagini in bianco e nero del ventennio fascista e dell’8 settembre e da musica molto varia, da quella italiana impegnata al jazz di Chet Baker, fino a un’elettronica soft. Il risultato è stato una lettura di forte presa sul pubblico, conclusa da un applauso scrosciante.
Il testimone è poi passato alla più sobria esposizione di Paolo Bolognesi: il presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime della strage di Bologna ha, con modi molto spicci ma diretti ed efficaci, fornito una rapida cronologia dei fatti dell’80, sulle implicazioni politiche, sulla nascita e le battaglie dell’associazione. Nessun governo italiano è stato risparmiato da Bolognesi, critico verso le incapacità nei risarcimenti e sulla stagnazione in Parlamento del disegno di legge popolare sull’abolizione del segreto di stato presentato dall’associazione ormai 22 anni fa. Molte le personalità pubbliche dell’epoca e di oggi considerate colpevoli di depistaggi delle indagini verso piste lontane da quelle neofasciste, come l’incidente o il complotto internazionale, o perlomeno di scarsa collaborazione: da Cossiga ad Andreotti, da Licio Gelli a Berlusconi, per i quali il discorso si è spostato sul ruolo nella vicenda della loggia P2. La discussione si è allargata sempre di più quando Bolognesi ha lasciato spazio alle domande del pubblico: la sala ha proposto una serie di questioni, opinioni, idee anche molto contrastanti tra di loro, dimostrando il grande interesse suscitato nei presenti, e il relatore ha risposto a tutti con il massimo della precisione, ricordando l’importanza per “i dirigenti del futuro” di portare avanti le opinioni sempre con il supporto dei documenti, prima di essere salutato da un grande applauso.
Narcomafie, giugno 2006, “Il cantastorie d’Italia” di Elisa Speretta
Palazzo di Giustizia di Milano, 23 maggio 2006. L’aula magna è gremita: giornalisti, privati cittadini, rappresentanti delle Istituzioni e delle Forze dell’ordine, ma soprattutto avvocati. Si scambiano opinioni sulla causa x, ripassano le carte del procedimento y, poi il reading comincia e le ventiquattrore si chiudono. Sono tutti qui per rendere omaggio a un collega, Giovanni Falcone, che esattamente 14 anni fa veniva ucciso da Cosa Nostra. Al microfono, la voce calda di Daniele Biacchessi ripercorre quella triste giornata del 1992: come in un film, scorrono gli ultimi istanti di vita di Falcone, della moglie e dei 5 agenti di scorta, fino alle h.17,56, quando Giovanni Brusca, nascosto sulla collina all’altezza dello svincolo di Capaci, preme il detonatore.“L’uomo della collina”, presentato al pubblico per la prima volta da Biacchessi, è uno dei quattro quadri che compongono Storie d’Italia, l’opera teatrale che dal prossimo autunno il giornalista-scrittoreregista- attore bolognese porterà in giro per l’Italia.
Biacchessi, in che cosa consiste Storie d’Italia?
È come un album di ricordi; quattro storie italiane, molto diverse tra loro, accomunate dalla volontà di mostrare le tremende conseguenze che la mafia ha avuto, e ha, nelle vicende del nostro Paese attraverso il vissuto privato di alcuni protagonisti. Si comincia con la vicenda di Portella della Ginestra, dove nell’im mediato dopoguerra i contadini chiesero ciò che spettava loro, il diritto di possedere la terra, e i latifondisti alleati ai fascisti e alla mafia risposero mandando il primo plotone d’esecuzione in tempo di pace. Poi la storia di un eroe borghese, Giorgio Ambrosoli, avvocato monarchico e conservatore ucciso perché era venuto a conoscenza, attraverso la lettura dei libri contabili, dei legami finanziari tra Cosa Nostra e la Banca Privata di Michele Sindona. Il terzo quadro è “L’uomo della collina”, dedicato a Falcone e Borsellino, e l’ultimo è “Storie di maggio”, la storia vera dell’amore “mancato” tra due fidanzati fiorentini, perché lui morirà nell’esplosione in via dei Georgofili, che oltre alla Galleria degli Uffizi colpì anche un palazzo adiacente.
Lei non è nuovo a progetti teatrali di carattere civile sul tema della memoria…
È un tema che sento molto vicino alle mie corde, il filo conduttore di tutti i miei lavori. Il mio obbiettivo è raccontare storie d’Italia dimenticate, perché il nostro è un Paese in cui il passato non passa mai veramente, certe verità sono forse troppo scomode da ammettere, eppure alcuni capitoli rischiano di venire archiviati e lentamente dimenticati. Penso che disperdere quelle storie equivalga a disperdere anche un pezzo della storia di ciascuno di noi. Ma, perché la memoria sia viva, occorre guardare con gli occhi stessi dei suoi protagonisti, come ho fatto, ad esempio ne La storia e la memoria, che è un viaggio dalle stragi in tempo di guerra a quelle in tempo di pace.
È per questo che sceglie un punto di vista “dal basso”?
Sì, ogni mia opera nasce dopo una lunga fase di documentazione: leggo gli atti processuali, i documenti, ma soprattutto vado sul posto e ascolto i racconti dei protagonisti, dei parenti delle vittime. È stato così per La fabbrica dei profumi, in cui racconto la vicenda dell’Icmesa di Seveso, e anche per la strage della stazione di Bologna, forse l’operazione sulla memoria più importante che abbia fatto. In quel caso l’ho vissuta io stesso, perché ero sul posto poco dopo l’esplosione, ma quando mi è stato commissionato un libro, Un’attimo… vent’anni, dall’Associazione dei parenti delle vittime ho raccolto le loro testimonianze, mi sono limitato ad ascoltare. È stato una sorta di mandato di rappresentanza – «Tu che sei giornalista, hai accesso alle fonti, tu che puoi…», mi dicevano –, si può dire che in certi casi io faccio quasi da tramite. La mia metodologia è proprio questa: condividere la scrittura con i protagonisti. Ovviamente, per parlare con loro bisogna togliersi i panni dell’attore, del giornalista, dello scrittore. Il vero teatro civile è più doloroso, bisogna lasciarsi coinvolgere. Non si può non vivere la storia, altrimenti diventa un testo teatrale qualsiasi.
Lei è giornalista e autore di 14 libri d’inchiesta. Come è riuscito a coniugare l’oggettività del cronista e il pathos del drammaturgo?
Io non vengo dal teatro, e forse è la mia fortuna. Racconto le storie proprio perché le conosco, per anni le ho studiate, le ho scritte, sono andato alla ricerca della verità. Penso che non ci sia contraddizione tra i due aspetti: il mio teatro civile è prosecuzione dell’attività giornalistica, è un’altra forma per diffondere le storie. A volte non servono gli scoop, basta sta mettere in fila i fatti, ricostruire le vicende, e la verità si mostra. Certo, per fare il salto dal libro al teatro ci vuole capacità di sintesi e di tradurre in un linguaggio appropriato, ad esempio, 600 mila pagine d’inchiesta, come è stato nel caso della strage di Bologna. Queste capacità sono proprie del giornalismo. Le vicende che narro, poi, non hanno bisogno di essere romanzate per appassionare. La vicinanza con gli ascoltatori è data dai dettagli di “normalità”, di quotidianità che trasudano, proprio perché per scriverle mi sono servito di testimonianze dirette.
È stato così anche per Quel giorno a Cinisi, lo spettacolo dedicato a Peppino Impastato?
Sì, è uno spettacolo nato da una fittissima corrispondenza con Giovanni Impastato (il fratello di Peppino, nda.) e Umberto Santino (il direttore del Centro Siciliano di Documentazione Peppino Impastato, nda.), che hanno corretto, aggiunto, smontato e rimontato il testo. All’inizio doveva far parte di Storie d’Italia, ma poi si è evoluto come uno spettacolo autonomo. La prima è stata lo scorso 7 maggioa Cinisi, il paese di Peppino, in occasione dell’anniversario della sua morte. Presentandomi Santino mi ha definito, in dialetto, «un cantastorie». Ecco, mi ci ritrovo molto, perché intendo il cantastorie come un narratore che “vive” il suo stesso racconto. Quella è stata un’esperienza straordinaria: nella piazza c’era un silenzio assoluto, quasi imbarazzante.
Per le rappresentazioni non sceglie quasi mai teatri, ma piazze, centri sociali, Palazzi di Giustizia… Perché?
I luoghi contano, concorrono a creare il clima che si respira dal vivo. Quando si raccontano storie vere, poi, certi luoghi diventano simboli. Mi piacerebbe far partire Storie d’Italia da Portella, e poi andare a Capaci, in via d’Amelio, in via dei Georgofili, e magari anche davanti a Piazza affari per raccontare la storia di Ambrosoli. Il feeling con il pubblico e le emozioni che si riescono a condividere dipendono da tantissime variabili, e dal vivo questo impatto è immediato; cosa che manca alla radio, il mio primo e grande amore da oltre 30 anni, e anche alla letteratura. Si può dire che non c’è una serata uguale ad un’altra, anche perché il mio teatro è volutamente sperimentale, con un testo modificabile; è una narrazione che vive anche dei dettagli aggiunti dagli ascoltatori. Mi è capitato diverse volte: chi assiste e ha vissuto quegli eventi dà suggerimenti, indicazioni, fa correzioni. È un work in progress continuo che scrivo insieme agli spettatori. E poi ci sono altri due elementi fondanti, alla pari con le parole: la musica e le immagini.
Teatro-canzone, nella tradizione di Giorgio Gaber?
Quella è una forma più schematica, in cui voce e suono si alternano, che ho sperimentato in alcuni spettacoli con i “Gang”, uno dei gruppi più rappresentativi del rock politico italiano. Tendenzialmente però mi interessa di più mischiare gli elementi; trovo che renda tutto molto più fluido. In questo mi ispiro al reading americano, nato negli anni 50, con Ginsberg, Ferlinghetti etc., e alla sua evoluzione. Una forma espressiva che in Italia manca quasi del tutto. In particolare, il genere musicale che più si addice è il jazz, per il suo potere fortemente descrittivo e per l’improvvisazione. Il sax di Michele Fusiello o il piano di Gaetano Liguori sono voci che, al pari della mia, raccontano, evocano. La musica ha questo fantastico potere di “far volare le parole” trasformandole in emozioni. Poi spesso utilizzo suoni, così come le immagini che scorrono alle mie spalle, d’epoca, originali: la deflagrazione della bomba a Brescia, la voce di Peppino Impastato da Radio Aut, le intercettazioni della segreteria telefonica di Ambrosoli… Tutto questo, unito alla lettura dei verbali e dei documenti ufficiali, è Storia e crea memoria.
Cos’è la memoria?
Non è solo il trasferimento di una conoscenza; è il passato che si dà una prospettiva futura. È il passaggio intergenerazionale del testimone: per rimanere viva, la memoria deve essere trasmessa soprattutto ai giovani con il loro linguaggio. Per questo, seppur tristi, le storie che racconto finiscono sempre con la speranza, con il racconto di chi ha raccolto quel dolore e l’ha trasformato in partecipazione: la folla al funerale di Falcone, i ragazzi di Locri, i vari comitati dei parenti delle vittime. Spesso, nel racconto dei protagonisti emerge la loro solitudine, l’abbandono da parte delle Istituzioni. È un sentimento che provano anche i superstiti, quando le richieste di verità e giustizia vengono disattese da uno Stato – in molti casi implicato nelle vicende – distante e impenetrabile che si autoassolve, o si chiude a riccio per difendersi. Ma la solitudine è supera ta, e in parte anche il dolore, proprio dalla partecipazione politica, sociale.
E il teatro civile può aiutare questa catarsi?
Penso di sì, perché, come tutti i racconti, produce consapevolezza. In fondo, è ciò che faceva mio nonno, figura mitica, quando si sedeva vicino al camino dopo cena, si versava un bicchiere di grappa, metteva il tabacco nella pipa e raccontava. A volte erano storie già conosciute, ma lui sapeva renderle sempre nuove, sempre fresche e noi nipoti restavamo in silenzio assoluto, rapiti dalle sue parole, dai suoi gesti, dalla sua mimica; era come se fossimo catapultati dentro quelle storie: la guerra, i bombardamenti, i partigiani. Non bisognerebbe mai perdere lo spirito del racconto, della memoria che si tramanda. E il teatro civile è la capacità di rendere la Storia sempre attuale, viva.
Baldini Castoldi Dalai, aprile 2006 , Il teatro civile di Daniele Biacchessi
Daniele Biacchessi è quel che si dice una persona dai multiformi talenti. Caposervizio a Radio 24, un curriculum di giornalista di inchiesta di tutto rispetto, di recente autore di un saggio sul processo che seguì l’omicidio di Walter Tobagi, di cui nel 2005 ricorreva il venticiquesimo anniversario, Biacchessi da qualche anno alterna l’attività giornalistica e di scrittore a quella di narratore. Narratore civile, per la precisione. Facendosi sovente accompagnare da un musicista, gira per teatri – ma più spesso nelle scuole, nei centri civici, nelle case del popolo – “raccontando” storie e misteri d’Italia. Come quello di cui il prossimo 16 luglio cadrà il trentesimo anniversario: “l’incidente” di Seveso, raccontato ne La fabbrica dei profumi. O Fausto e Iaio, dedicato all’uccisione di due giovani attivisti del Centro sociale Leoncavallo di Milano, nel marzo 1978, a pochi giorni dal sequestro di Aldo Moro. O ancora sul caso di Roberto Franceschi, ucciso la sera del 23 gennaio 1973 davanti all’Università Bocconi di Milano, di cui era studente, durante una manifestazione. Il processo che ne seguì, la ricostruzione dei fatti, i depistaggi e le manomissioni delle prove sono stati recentemente riassemblati da Biacchessi – grazie all’impegno della Fondazione Franceschi – in Roberto Franceschi. Processo di polizia. In questo periodo Daniele Biacchessi è impegnato nel portare in pubblico un reading sulle stragi impunite – da Sant’Anna di Stazzema a Piazza Fontana – raccolte sotto il titolo La storia e la memoria. Ma capita anche di ripercorrere la vicenda di Fausto e Iaio o quella di un’altra morte per anni ignorata: quella dell’esponente di Democrazia Proletaria in Sicilia Peppino Impastato, ucciso dalla mafia nel giorno in cui fu fatto ritrovare il corpo senza vita di Moro, raccontata in anni recenti nel film I cento passi. Tutte le informazioni e gli appuntamenti col teatro civile di Daniele Biacchessi sono reperibili sul sito retedigreen.com
Mucchio Selvaggio, settembre 2005, “La pelle d’oca” di Massimo Del Papa
Un’intervista con Daniele Biacchessi, cronista civile, scrittore civile, oggi autore di teatro civile, parla oltre le parole. Traspare la sua emotività, quel pensare per immagini che diventa scrittura, quella commozione antica, di prosatore che scava nei suoi personaggi veri e intanto scava dentro sé. Mi pare appropriata per il giornalista Daniele Biacchessi, laico, l’immagine che Bernanos ha trovato per il prete: una fiaccola che, ardendo per gli altri, consuma se stessa. Daniele usa molto una parola: bambini. A Bologna, la stazione proprio in mezzo ha una Grande Ruga, assurta a monumento, alta, ammonitrice dell’orrore di tanti anni prima, quando la bomba aveva ucciso ottantacinque figli della stazione, ferendone altri centosettantacinque. La’, in quella stazione cicatrizzata, non vedevi rimbalzare saluti. Ma – per l’eternità – urli sporchi di sangue, e gli ululati delle ambulanze, dei pompieri, delle camionette, della polizia. E anche silenzi sporchi di colpa, di chi nascondeva e di chi si nascondeva, di chi deragliava sistematicamente la colpa, finché infiniti treni avrebbero coperto tutto. Poi è arrivato un giornalista che fa teatro civile, e che alla stazione ha portato l’amore. Il reading La Storia e la Memoria è la scintilla che brucia ora in teatri che come quinta hanno le tragedie, le stragi, i luoghi dove il dolore rimbalzerà per sempre.
La Storia e la Memoria è un titolo forte, ambizioso. E’ anche un titolo polemico?
Riassume molti anni del mio lavoro. Perché i libri sono una grande esperienza, ma hanno accorciato il loro ciclo di vita; vengono assaporati, acquistati, venduti entro pochi mesi, per colpa di un mercato saturo. Allora io avevo questo sogno, fare volare le mie parole, farle uscire dalle pagine e lasciarle libere di raggiungere quanta più gente possibile. Così questo lavoro è la comprensione di quello che io considero la parte migliore dei miei libri…
… la mia memoria…
Sì. Ma anche la Storia e la Memoria di un Paese, 60 anni d’Italia scanditi dalla musica. Anni lontani e vicini, Sant’Anna di Stazzema è di 61 anni fa, quei bambini che giocano e vengono trucidati dai nazifascisti… e ora, proprio pochi giorni fa, 10 ergastoli. Ci siamo ancora.
Se non era per quei fascicoli ficcati negli armadi, e usciti nel ’94 quasi per caso…
… dalla sede della Procura generale militare. Chiamati giustamente armadi della vergogna. 2272 stragi avvenute mentre i tedeschi e i fascisti erano in ritirata. Io son dell’Appennino toscoemiliano, sono cresciuto con questi racconti, dentro questi racconti e i nomi dei Priebke, dei Kappler stavano già in quegli armadi. Non si può parlare di resistenza se non si parte da qui. Perché tutto è stato occultato, e c’è una parte dello spettacolo in cui dico: bisogna scegliere da che parte stare. Dopo questo prologo con gli armadi della vergogna, parto con piazza Fontana, 1969, e arrivo alla stazione di Bologna, 1980. I bambini del ’69 sono cresciuti, guardano la lapide della stazione. E leggono di date, di bambini come erano loro. Sono sempre loro. I bambini di Sant’Anna. Bambini che vanno al mare… e in mezzo c’è Brescia, altra bomba, io faccio sentire il sonoro, che è tremendo, è uno dei pochi documenti diretti che abbiamo di una strage…
Sessanta anni e un intero dopoguerra di eccidi e di misteri. Questa è la nostra storia, e, quanto alla memoria, è sempre forte la tentazione di dimenticare. Che storia abbiamo avuto?
No, non penso ci siano misteri. Diffidate quando vi parlano dei misteri. In realtà è tutto chiaro, sappiamo perfettamente…
E’ sempre l’ “io so” di Pasolini…
Sì, penso che Pasolini ci abbia azzeccato in pieno, ha detto tutto con quella frase: ci sono state stragi impunite, personaggi saliti su un palcoscenico enorme, quello della strategia della tensione, per hanno compiere atti efferati in nome di un mondo diviso in due, una guerra non ortodossa, a bassa intensità, non dichiarata ma c’era, che ha lasciato nelle piazze, nelle strade, nei treni gente innocente. E che non comincia con piazza Fontana, comincia con Portella della Ginestra, con l’eccidio di Salvatore Giuliano…
… Anche lui poi neutralizzato, da un cugino manovrato dal Potere, in circostanze torbide…
Sì, se ci pensi bene è come nelle saghe antiche: alla fine, il mietitore di morte viene ucciso, il carnefice viene sacrificato dai carnefici che lo muovono.
È una dinamica costante, sì. Anche questa è storia italiana.
Quello che purtroppo noi vediamo, è che si sa che cosa è accaduto, si sa chi sono quelli che hanno messo le bombe, conosci i nomi, e a differenza di Pasolini, che scriveva nel ’74, abbiamo anche le prove perché decine di bravi magistrati, di giudici, di giornalisti coraggiosi hanno scoperto, hanno raccolto le prove. Però non si riesce a trasferire la verità storica in verità giudiziaria, processuale, acclamata. Guarda proprio Sant’Anna: ci hanno messo 61 anni a condannare i responsabili, il meno vecchio ha passato gli 80. Per piazza Fontana la Cassazione fa una cosa incredibile, dice: la bomba è stata messa da Freda, da Ventura ma non li si può più processare. E finisce così, con un enorme amaro nella bocca di tanti. Questo è un Paese di funerali, di lapidi sparse e a tutto questo la politica, che ha colpe enormi, senza differenze tra schieramenti…
Il prezzo della democrazia, è stato di avercela ma limitata, controllata. Dopo Yalta, non i colonnelli greci, ma il freno a mano tirato dall’America. Per Moro questo stato di cose andava almeno corretto, e hanno corretto lui. Oggi nessuno vuole rischiare di fare la stessa fine…
Partiamo dal colpo di Stato in Cile nel 1973. Tutti sapevano che gli americani finanziavano le operazioni coperte nell’intero sudamerica. Nel 1999 il presidente Clinto de-secreta i documenti e rende noto che Kissinger, futuro premio Nobel per i negoziati di pace in Vietnam, e Nixon, poi travolto dal Watergate, erano d’accordo con l’ambasciatore americano a Santiago per organizzare il colpo di Stato. In quelle de-secretazioni sono emerse anche decine di operazioni condotte in Italia. In Italia niente di tutto questo, la classe politica ha posto un veto. Le associazioni dei familiari delle vittime delle stragi nel 1984 hanno presentato 100.000 firme in Senato per una proposta di legge con cui abolire il segreto di Stato. Nessuno l’ha mai raccolta. Io ne ho scritto in uno dei libri cui sono più legato, “Un attimo vent’anni”, per i familiari delle vittime della stazione di Bologna. La risposta della politica sta in un libro del presidente della Commissione Stragi Giovanni Pellegrino. Migliaia e migliaia di ore di audizioni di terroristi di destra e sinistra, informatori, forze dell’ordine, testimoni, storici, giudici, giornalisti, milioni di atti, intere enciclopedie di documenti… Ed è uscito un piccolo libro, “Segreto di Stato”. Questa è stata la risposta della politica. È scandaloso.
E pensiamo che i documenti sull’affaire Moro neanche Clinton li ha scoperti!
Non c’è dubbio.
Allora ti chiedo: ce l’ha, la nostra politica, la possibilità di fare luce, almeno un po’?
Quello che sappiamo di questo Paese, si deve a singole persone della commissione Stragi che sono andate in America. Qui non si trova nulla. Per il solo caso di Fausto e Iaio ci sono decine e decine di occultamenti. Figuriamoci piazza Fontana, Moro… io sono certo che non esistono servizi “deviati”, i capi dei servizi sono nominati dal presidente del Consiglio, dal quale direttamente dipendono. Chi era primo ministro quando spariva un aereo dal cielo e saltava per aria la stazione di Bologna?
Uhm, direi lo stesso che era al Viminale quando fanno ammazzare Moro.
Ecco. Allora diamogliela per buona da ministro dell’Interno; ma un primo ministro ne sa di più! E lui conferma alla guida dei Servizi Santovito, P2, e poi Belmonte, Musumeci, condannati per depistaggi sulla stazione di Bologna. Cioè una valigetta su un treno, nel gennaio ‘81, con lo stesso esplosivo usato nella stazione di Bologna. Insieme a un mitragliatore messo lì da uno della banda della Magliana, Massimo Carminati…
…. Indiziato pure per Fausto e Iaio…
Precisamente. Ora, non è possibile che un presidente del Consiglio non possa sapere cosa fanno gli alti funzionari da lui nominati e a lui referenti. Si deve assumere la responsabilità di ciò che accade!
Come no: è diventato presidente della Repubblica, il Picconatore. Fermiamoci un attimo. Proprio poche ore fa, è emersa un’inquietante struttura clandestina chiamata Dssa, non si è capito molto, pare una sorta di Gladio del Duemila guidata da personaggi ambigui, legati a Gelli, alla destra neofascista e, pare, ai servizi. Perché da noi il passato non passa?
Per tante concause, alcune le abbiamo elencate. La politica che si deresponsabilizza, anzi difende, sostanzialmente, gli assassini. Cosa che puoi fare in tanti modi: li fai fuggire all’estero,possiamo fare decine di nomi, due per tutti: Mambro e Fioravanti. Che non hanno solo la strage di Bologna, hanno il giudice Amato, il poliziotto Evangelista detto Serpico a Roma, lo studente Scialabba…
E poi i contatti con la Magliana…
… che sono stati accertati. Eccolo, il passato che non passa. Nel ’99 trovi Carminati con le forze dell’Ordine mentre è in corso il processo Pecorelli, che lo vede imputato come presunto killer…
… con un presidente del Consiglio, poi tutti assolti….
Ecco. E te lo ritrovi in un caveau del Tribunale di Roma a trafugare documenti di avvocati, di giudici… nel 1999! Allora quando ti trovi queste cose, queste nuove Gladio, queste assoluzioni di piazza Fontana…
Ma secondo te le libertà stravaganti di Mambro e Fioravanti, di Moretti, sono casuali? Gente con più ergastoli, che dopo 12 anni è fuori…
Io non amo la galera, ma è certo che questi non hanno mai collaborato coi giudici. Neanche Moretti.
Anzi, ha detto sempre e solo balle. Qui rimando chi ci legge al numero del Mucchio con l’intervista a Sergio Flamigni.
Però c’è da dire una cosa. Alla fine non hanno vinto. Oltre i quasi 500 morti e circa 4000 feriti delle stragi di destra, i 131 morti e 2500 feriti del terrorismo di sinistra, oltre le decine e decine di magistrati uccisi dalle mafie, a quel brav’uomo di Giorgio Ambrosoli…
Ecco, ma ci sono frange che continuano a pensare che questa gente non serviva a nessuno, che dipinge i giudici antimafia come torturatori, gli Ambrosoli, i Biagi strumenti del regime…
Mettiamola così: questo attacco mirato, continuo contro vittime innocenti ma soprattutto contro la democrazia italiana, che prosegue ancora oggi, in altre forme, ma prosegue, inesorabile… è arginato da una straordinaria mobilitazione di persone: in piazza Duomo dopo Fausto e Iaio, in piazza Maggiore dopo il rapido 904, dopo piazza Fontana, dopo Brescia, dopo l’Ialicus, pensa a Claudio Lolli, “ho visto anche degli zingari felici”… quelli che tentano di ricostruire Palermo dopo Falcone e Borsellino… quelle persone, cioè noi, cioè la maggioranza, cioè la parte migliore… hanno impedito che la democrazia venisse sconfitta. L’hanno difesa.
Poi in modo trasversale, né destra né sinistra. O tutt’è due, ma non era quello il punto.
Tutti. Quell’operaio della Pirelli che dopo piazza Fontana, ai funerali, con quel mento in fuori, quelle ciglia nere, quello sguardo incazzato, che cheideva alla telecamera: a chi giova? Ma sono stati sconfitti. Quelli che pensavano ai colpi di Stato militare, e quelli di sinistra, non le sedicenti BR ma le vere BR. Quelli come Marco Barbone, che lanciavano le molotov e poi rientravano nei cortei tra gli applausi, quelli che rovinavano il Re Nudo al Parco Lambro con l’assalto ai polli nel nome di un proletariato che non gli apparteneva… erano dentro di noi. Ma sono stati sconfitti.
Cosa pensi di chi dice: chi se ne frega di Marco Biagi, non ci appartiene, un nemico di classe…
Pochi. Perché chi pensa male, veramente vive male… come diceva Nanni Moretti! Sono fortunatamente una esigua minoranza. Cui bisognerebbe spiegare che alla fine i terroristi hanno ucciso gente per bene… prendiamo gli ultimi omicidi brigatisti. Un professore che usciva da casa a piedi dopo aver baciato la moglie, 128 passi in via Salaria, sparato da dietro un cartellone pubblicitario. Un uomo di mediazione, del dialogo, consulente del sindacato, e di Bassolino… Tre anni dopo uccidono un professore che torna dal lavoro in bicicletta, nel centro di Bologna. Non è un caso che abbiano ucciso i riformisti. Ma non i riformisti del cazzo, quelli veri, che fanno le riforme davvero. Saranno sconfitti quelli che pensano che con la violenza e con le rivoltelle si fa politica. Perderanno per la nostra stessa intelligenza e la nostra capacità di guardare al futuro. Lo dico a te che mi intervisti per il Mucchio, con un pubblico fatto anche da molti giovani: è proprio lì il punto. Questa Storia italiana, questa Memoria dev’essere trasferita con nuovi strumenti, con nuove idee. E il modo migliore è parlare alle nuove generazioni col loro linguaggio. Voi l’avete capito bene.
Con fatiche che non t’immagini.
Quelli che ancora oggi pensano con gli stessi criteri del passato, sappiano che sono già sconfitti! Prendi Cesare Battisti: è stato condannato in via definitiva, senza se e senza ma… chi difende queste persone sappia che è già stato sconfitto! Dalla storia! Ci ho fatto anche un libro, mai contestato. Perché gli atti vanno letti. Fino a prova contraria chiunque è innocente fino a sentenza definitiva. Dopodichè, uno che ha ucciso diventa un terrorista. Guarda, io sono per la chiusura degli anni di piombo. Per i condannati in base alle leggi speciali, come quella di Cossiga, occorre chiudere, perché se rubavi un motorino finivi imputato per banda armata. Sono anche convinto che Scalzone ed altri che non hanno ammazzato né ferito nessuno, che ancora stanno a Parigi, debbano subito tornare in Italia. Per loro ci dev’essere una prescrizione.
Non c’è dubbio.
Ma uno Stato democratico non può transigere con chi è stato condannato in via definitiva per omicidio. Gli anni di piombo si chiudono in questo modo. Superiamo gli effetti delle leggi speciali.
Ma i signori: Giovanni Alimondi, Cesare Battisti… questi qua, gli italiani non li vogliono. Stiano là! Non ci rompano i coglioni!!!
L’ho scritto tal quale. Se li tengano i francesi, ma non ne facciano degli eroi…
E poi scrivi anche questo, per favore: non ci interessano le lezioni di storia da questi personaggi. Fateci un piacere: state zitti. Non parlate! Niente lezioni! Io facevo politica nei ’70, prima in gruppi extraparlamentari, poi entrai nel Pci… idee che rivendico. Ho fatto politica davvero, nelle piazze, nelle strade… però non ho mai avuto una pistola in mano. E con me c’era la stragrande maggioranza.
Cè chi dice: ma c’era una guerra. La Comunità di Capodarco, dove ho fatto l’obiettore, il ’68 l’ha interpretato aprendo le porte ai disabili e rendendo lorodignità di persone.
Ecco perché lezioni di storia da questa gente non ne voglio. Perché non hanno diritto… c’era chi si svegliava la mattina alle sei e andava davanti alle fabbriche a volantinare, a incontrare i lavoratori, a organizzare assemblee, andavano nelle periferie a difendere la povera gente dagli sgomberi, organizzavano scuole popolari nei quartieri poveri. E poi c’erano quelli che si alzavano alle 6 e andavano a curare i magistrati o il povero Tobagi in via Solari e li ammazzavano. In nome di quale popolo italiano? Chi gli aveva dato mandato? Quale assemblea popolare, democratica gli ha dato incarico di ferire e uccidere? Ma quale guerra civile?!? Ma de che?!? Quelli che hanno trasformato la lotta da politica ad armata c’erano, erano anche tanti, c’è stata una sottovalutazione del fenomeno, non li si può rendere tutti terroristi. Ma chi sbaglia paga. Prendi Sergio Segio, uno dei capi di Prima Linea, responsabile di diversi omicidi. Non si è pentito. Non è stato irriducibile. Si è dissociato. Ha scontato tutto. Oggi lavora con don Ciotti a Libera. Si è pentito nel senso vero, cioè ha dimostrato di essere trasformato, di non avere più le stesse idee. A me piacciono le persone lineari, che pagano quello che debbono, che si difendono nei tribunali. Perché Battisti non è mai venuto a difendersi in tribunale? Ha osato dire che veniva giudicato da tribunali speciali… Tribunali speciali! Ma cosa dici?!? Questo è un latitante che s’è sottratto, è riuscito a farla franca… la gente che parla di lui non conosce una riga di pagine di documenti! Non sa nulla! Perché gli scrittori, specialmente quelli di narrativa, sono poco avvezzi alla lettura dei documenti. Quelli che dicono che Battisti non è un terrorista ma un innocente, sostengono anche che Fioravanti e Mambro sono innocenti. L’humus culturale di questa gente, che si capisce chi sono, sono scrittori affermati, provenienti dalla cultura degli anni Sessanta, a volte ottimi professionisti… ma non si debbono occupare di cose che non conoscono, cose di questo tipo. Sulle quali vanno lette tutte le pagine. Solo per la stazione di Bologna sono 655.000 pagine, ti ci vogliono 2 anni solo per i processi. Più i vari fascicoli riservati… Così anche per l’omicidio Calabresi: diciamola la verità, che è stato un omicidio di sinistra. Basta coi complotti, con queste storie. Io Adriano [Sofri] l’ho intervistato tante volte, lo conosco, però nel libro che ho fatto ho detto: basta con le palle, diciamo che è stato un assassinio maturato in quell’area magmatica della sinistra, come mi dice Scalzone.
Lo diceva anche Rostagno ad Aldo Ricci prima d’essere ammazzato: “Se questi non la smettono di rompermi i coglioni, io dico chi ha ammazzato Calabresi”. Lo stesso Erri De Luca, poco tempo fa: “Prima liberate Sofri poi vi diciamo la verità”.
Perciò la verità storica va difesa. Perché viene attaccata improvvisamente, inaspettatamente. Stiamo sui fatti. La dietrologia a tutti i costi, il vedere complotti ovunque hanno fanno danni enormi.
Ma come hai fatto a condensare nel tuo reading una mole simile? Si immagina un lavoro documentario imponente, la materia è sterminata…
Eh, è un lavoro pesante perché devi condensare le parole, devi pesarle. In generale, mi schiero dalla parte delle facce delle persone, delle emozioni che per me è una scelta politica. Come alla stazione di Bologna, come sul rapido 904: porto chi mi ascolta dentro questo treno, coi suoi profumi di pane, di salame tagliato, di gente dal sud… E poi c’è questo finale di speranza, quest’insegnante che torna alla stazione di Bologna coi suoi due bambini che passano cantando felici davanti a questa lapide e lei si ferma e si ricorda che oggi è il 2 agosto. E dice ai bambini poche parole, dice che tanti anni fa c’erano tanti bambini, proprio qui, che stavano per andare al mare e non ci sono mai arrivati, non li hanno fatti partire. E quei bambini tornano all’inizio, ai bambini di Sant’Anna, tornano vivi. Guardano lontano, capiscono che possono anche morire e imparano la paura. Ma in quell’attimo hanno la percezione di un futuro. E tutto finisce con Laura, che ha gli occhi della memoria.
Scegliete le sedi martoriate, la quinta è quella della tragedia e si fa sostanza, carne viva. Cosa succede a recitare la strage di Bologna proprio alla stazione, per esempio?
Io l’ho portato alla stazione, sì, e… non lo so, io… (Daniele si blocca. Al telefono sento la sua emozione, che lo consuma). Sono cose che… stanno dentro. Un’esperienza dolorosa. Distrugge e…
Perché per raccontare, in forma di monologo, l’inferno italiano hai scelto il jazz di Coltrane, di Parker, di Gordon?
Perché raccontare con Round Midnight, questo suono lunare, malinconico, le facce delle persone alla stazione, mi dava la sensazione giusta. Poi il jazz è la mia sensibilità. I reading in Italia non li fa quasi nessuno, in America invece sono stati una delle forme di espressione più importanti e nascevano proprio dalla cultura jazzistica. Coltrane è Coltrane, cosa puoi dire di più? Ci sono pezzi di Dexter Gordon, molto rotondi, che danno il senso di un clima… soprattutto la scelta del sassofono, mi è parso adatto al teatro civile. Il sax è una voce, una seconda voce umana, modulare, espressiva. Io avevo bisogno che alle mie parole, razionali, storiche,potesse corrispondere anche qualcosa di irrazionale, di magico. Allora il jazz, il sassofono mi portano la magia che mi serve: tu puoi immaginare un’altra storia, parallela a quella che ti racconto. Sei libero.
Ma l’Italia ce l’ha ancora, una coscienza comune? O si limita ad assorbire la memoria riproposta, con fatica, da qualcuno e poi la espelle?
No, c’è. E’ quello che dicevamo prima. È quella coscienza ad avere sconfitto chi minacciava la democrazia. Ci sono cose che si fanno perché è giusto farle e basta. E la gente reagisce in un modo… a volte ci si mette anche il caso. Il 29 settembre 2004 la stazione di Bologna è stipata delle facce dei familiari delle vittime, e mentre parlo di un treno che arriva sul binario 1 un treno arriva sul serio; e mentre parlo di bambini che corrono senza sosta, due bambini cominciano davvero a correre senza sosta… ne sono uscito devastato. Sono molto laico, non credo a chissà quali forme di presenza, però… si è materializzato qualcosa, una corrente… Poi a Napoli il 23 dicembre, alla stazione, per i familiari del rapido 904, ho fatto solo quell’estratto lì… e loro stanno ad ascoltare in un silenzio denso, e alla fine vengono uno per uno a ringraziarmi e io non parlo, non riesco più a dire nulla. Domenica ero a Sant’Anna, e arriva la sentenza, 10 ergastoli… ma che vuoi che ti dica!
Questa corrente emotiva si ritrova anche nei tuoi libri, che immergono chi legge nell’atmosfera. Prendi Fausto e Iaio, o l’ultimo su Tobagi. Ci si ritrova nella città di quel periodo, in quella fase storica: è una città che vive con i protagonisti. E tutto si capisce meglio.
C’è una ricerca, che parte da lontano, per unire la narrazione, il racconto ai dati oggettivi dell’inchiesta. Con il libro su Tobagi mi pare d’aver trovato questo equilibrio. Il fatto è che quando io racconto certi personaggi non riesco a starne fuori. Al di là di Fausto e Iaio, che erano miei amici, ma più in generale… Io penso molto per immagini e scrivo di conseguenza. E questa immagine di quest’uomo, Marco Biagi, che gira in bicicletta in via Valdonica, in questa città tranquilla, dove la gente dovrebbe essere ragionevolmente serena, mi ha appassionato. Così come per D’Antona mi ha conquistato quell’immagine, proposta da Olga D’Antona, lei e Massimo ragazzi sulla spiaggia di Ostia, con una chitarra, a volersi bene, a pensare al futuro… Non puoi raccontare se non hai una ferita nel tuo cuore, che gli altri possano capire. Noi siamo testimoni…
Siamo testimoni.
Testimoni. Che vanno a cercare per gli altri, e raccolgono, e trasferiscono la Memoria. Noi abbiamo il dovere della Memoria. Ed è faticoso. Occorre informarsi, sapere di cosa si parla. Devi farti tu stesso memoria. Lo devi fare soprattutto per le nuove generazioni.
Unita.it, agosto 2005, “Non si archivia la memoria di Giuseppe Civati.
“Possono fare tutto, ma quello che non possono fare è archiviare le nostre parole, le nostre emozioni, quello che sentiamo. E’ per questo che il teatro è importante: per far diventare tutto questo politica e per far partecipare le persone che si riconoscono nella nostra ‘memoria'”.
Così Daniele Biacchessi, giornalista di Radio24, presenta il suo spettacolo La storia e la memoria, un reading teatrale accompagnato al sassofono dal maestro Michele Fusiello.
Un lavoro che ha già messo in scena quasi cento volte in giro per il Paese e che questa sera ha presentato al pubblico della Festa nazionale. Una storia d’Italia, dei suoi segreti, delle stragi e del terrorismo, raccontata da chi si aspetta che l’Unione vinca le elezioni e, finalmente, cancelli il segreto di Stato. Che, come si suol dire, “apra i cassetti”, facendo luce sui tanti episodi della nostra storia repubblicana dei quali non si sa ancora se non poco o nulla.
“Così come ha fatto Clinton nel 1999 -spiega Biacchessi- pubblicando i dossier sull’intervento della Cia in occasione del golpe del 1973 che rovesciò il governo democratico di Allende in Cile, ora è venuto il momento di sapere cosa è successo sul rapido 904, con il caso Moro, a Ustica e dovunque una verità è ancora da svelare, per una vera riforma politica di cui il Paese ha grande bisogno”.
Misteri attorno ai quali ruota lo spettacolo di Biacchessi. Da Sant’Anna di Stazzema ai nostri giorni in un racconto e una narrazione, fatta di parole, ma anche di immagini e di suoni, “per far volare le parole, dice l’autore, come nei libri è impossibile fare”. Uno spettacolo che Biacchessi ha portato significativamente proprio a Sant’Anna, a Marzabotto, alla stazione di Bologna e che ha trovato spesso ospitalità e grande partecipazione nel circuito nazionale delle Feste dell’Unità.
Uno spettacolo, infine, che Biacchessi e Fusiello hanno dedicato ad Aldo Aniasi, “sindaco di Milano nel 1969, l’anno della bomba di piazza Fontana, uno degli uomini politici che ha seguito con più attenzione le vicende che raccontiamo. Una persona perbene che non dimenticheremo”.
Bella Ciao, dicembre 2004, Enrico Campofreda
Un tempo c’erano Dario Fo e Franca Rame, recitavano accanto al filone dei trovatori anche storie d’ingiustizia sociale e di denuncia politica. Era il teatro militante: ‘Pum, pum. Chi è? La polizia’. Ricordate? Per ricordarlo bisogna aver superato gli anta. E aver vissuto quella trasformazione genetica dell’economia che ha reso l’Italia da paese produttivo, a paese dei servizi. Terziario avanzato si diceva e non è durato moltissimo. E mentre le lotte proletarie venivano azzerate e criminalizzate, di fatto scompariva la classe operaia: Milano, Genova, Napoli davano l’addio alle fabbriche. La legge Reale colpiva duro offrendo alle forze dell’ordine dell’ex ‘gladiatore’ Cossiga la licenza d’uccidere e l’impunità dopo i delitti. Dall’inizio degli anni Ottanta nell’Italia dei Craxi, De Mita, della P2 e dell’eminenza grigia andreottiana cominciò a regnare la pace sociale con un Pci addomesticato e l’opposizione antagonista ridotta a metà fra galera e impotenza. Qualsiasi dissenso rischiava d‘essere assimilato al fiancheggiamento della lotta armata, qualsiasi disobbedienza era impossibile.
Furono dieci anni in cui il malaffare politico – non solo quello dei ministri degli interni che si chiamavano Antonio Gava – organizzò il partito delle tangenti che col patto del Caf regnò indisturbato sino all’inchiesta di “Mani Pulite”. Furono anni di silenzio e carenza di controinformazione, con l’eccezione dei residui delle radio di movimento. Ci fu scarsità anche di quel teatro civile che solo nel Novanta con Marco Paolini ha trovato un nuovo interprete della denuncia di misfatti del regime democristiano, fossero l’antico Vajont o le Storie di plastica della ‘Mortedison’.
Daniele Biacchessi, col questo reading sulla memoria dello stragismo italiano rilancia il prezioso filone di denuncia: partendo dai ‘ragazzi di Salò’ – che nel ’44 affiancavano i nazisti nel trucidare i civili – giunge alle bombe missine dirette dai Servizi Segreti di Stato. Recuperare la memoria degli eventi risulta fondamentale oggi che assistiamo al meschino disegno del cosiddetto revisionismo storico d’insabbiare, trasformare, modificare la storia. I media, soprattutto televisivi, pullulano di cantori d’un nuovo regime e sono meticolosamente impegnati nella diffusione del falso. E’ perciò un dovere democratico non far cadere nell’oblio il nostro passato e ricordare i responsabili dei misfatti.
“C’erano bambini, ragazzi, treccine e girotondi in quel caldo 12 agosto del ’44 sulle colline dell’Appennino sopra Camaiore, una frazione chiamata S. Anna di Stazzema. Sognavano di giocare quei bambini, mentre il fragore, le bombe, la paura circondavano da mesi le loro case. Sognavano di fare il pane che mancava sulle loro tavole. Soffrire la fame a tre, sei anni, soffrire d’angoscia, vedere la morte attorno. Da quel giorno non poterono più nemmeno sognare quando le urla, le spinte, i mitra spianati degli uomini della 16^ Panzer Grenadier Reichsfuhrer e dei fascisti che li accompagnavano cominciarono a fare fuoco sulle loro madri, sui nonni. Su loro stessi, uccisi come fossero adulti. Cinquecentosessanta vite sterminate.
Quante di queste stragi sono state compiute nei venti mesi dell’occupazione nazifascista d’Italia dal settembre ’43 all’aprile ’45. Centinaia. Quindicimila le vittime per stragi di civili che vennero esaminate dalla magistratura. Ci furono indagini, s’individuarono colpevoli tedeschi, italiani, ucraini, croati, belgi, olandesi, tutti nazifascisti. 695 fascicoli furono stipati in un armadio e dimenticati
per cinquant’anni. L’armadio della vergogna era a Roma al Palazzo Cesi sede della Procura Militare, lì per ordine del procuratore Santacroce, che prendeva ordini dai ministri Martino (esteri) e Taviani (difesa) che prendevano ordini dal capo del governo De Gasperi, che prendeva ordini dagli Stati Uniti d’America, si attuò una catena d’omertà che si fece beffa di migliaia di vittime civili; vittime di vere carneficine, di omicidi premeditati da SS e repubblichini. E si chiusero gli occhi sui più feroci criminali che, come il boia delle Ardeatine Priebke, furono lasciati vivere nascosti e indisturbati per decenni.
Molti non hanno avuto giustizia anche in epoca recente, nell’epoca delle stragi di Stato che hanno attentato alla democrazia. Stragi che hanno avuto per protagonisti amici e camerati di quei torturatori di ieri com’era Julio Valerio Borghese. Il capobanda della X Mas, pur graziato dall’Italia repubblicana, nel 1970 ancora attentava alla Patria cercando di attuare un golpe. Nasceva la strategia della tensione. Una tensione cupa, oscura iniziata il 12 dicembre 1969 quando brillarono le bombe alla Banca dell’Agricoltura in Piazza Fontana, a Milano, 17 morti e 88 feriti. Negli anni si saprà che esecutori delle stragi erano uomini di Ordine Nuovo, camerati dell’ex repubblichino Pino Rauti, per anni deputato in Parlamento con il Msi dell’altro saloino Almirante. Franco Freda e Giovanni Ventura acquistarono le valigette dove fu collocato l’esplosivo, Zorzi, Maggi e Rognoni le depositarono nei luoghi della strage con copertura degli uomini del Sid. Ma per tre anni polizia e magistratura parleranno di responsabilità anarchiche: Pinelli, interrogato in questura dal commissario Calabresi nelle ore immediatamente successive all’attentato, volerà giù da una finestra. Valpreda rimarrà a lungo in galera accusato da un falso testimone.
Le bombe riprenderanno a esplodere, artefici e artificieri sempre fascisti e uomini dei servizi. Nell’aprile ‘73 è la volta di Nico Azzi, nel maggio dello stesso anno di tal Bertoli, che si fa passare per anarchico ma è stipendiato dal Sid; uccide 4 persone davanti la questura di Milano lanciando una bomba a mano.
Il 28 maggio ’74 in Piazza della Loggia a Brescia c’è un comizio sindacale antifascista, si parla di bombe e strategia della tensione. Alle 10.12 c’è la deflagrazione d’un ordigno “State fermi, state calmi – si sgolano dal palco -. Restate nella piazza, venite sotto il palco”. Lo choc è enorme si contano 8 vittime e 94 feriti. Gli stragisti vogliono intimidire la popolazione che da tempo ha ripreso a lottare, e chiede giustizia sociale e una svolta di governo.
Ottanta chilometri separano Firenze e Bologna, un’ora di treno. Percorso appenninico con gallerie, nell’immenso buio ci si può vedere un mondo. La galleria più lunga, 18 chilometri, è quella di San Benedetto Val di Sambro ed è anche la più lunga d’Italia. Lì il 4 agosto del ’74 un vagone del treno Italicus salta in aria, ancora sangue e lutti: 12 morti e 100 feriti. Come in altri casi la manovalanza bombarola è fascista, l’assassino è l’ordinovista Mario Tuti. Il 23 dicembre 1984 il rapido 904 diretto a Milano trasporta italiani che vanno a trascorrere le festività accanto ai familiari. Anche un vagone di quel treno salterà mietendo 15 vittime. Seguono silenzi cupi o pieni di rumori che s’annullano a vicenda, silenzi in cui le parole si trasformano
in urla soffocate. Nulla può essere più come prima …
Il 2 agosto 1980 è una giornata calda, Sergio è un ventiquattrenne che pensa alle vacanze: deve raggiungere Bolzano con l’espresso delle 8.18 ma lo perde. Non si perde d’animo, alle 10.50 ce n’è un altro con la stessa destinazione e lui, con pazienza attende. Sergio gira per la sala d’aspetto, stipata di persone che parlano, fanno ressa. Ci sono valigie, bambini che piangono, uomini che corrono; e c’è chi canta e ride, pensando al mare, alla vacanza, alle ragazze da conoscere, alla gioia di
vivere.
L’uomo che non ha un’anima piazza la valigia con 25 kg di esplosivo gelatinoso che brilla alle 10.25 e crea un terremoto. Un’intera ala della stazione si sbriciola, va in fumo. Polvere e fumo per ore. La sala d’aspetto di 2^ classe è diventata un ammasso di detriti, pezzi di rotaie, traversine, convogli tranciati e carne umana. Carni straziate. Uno scempio. Tutto sbriciolato come i sogni, le speranze, la spensieratezza di ragazzi e uomini e donne. In 85 vengono massacrati, in 200 feriti molti in modo grave e irreversibile.
I loro massacratori hanno nomi e cognomi: Francesca Mambro e Valerio Fioravanti dei Nar, Licio Gelli capo della Loggia P2, Francesco Pazienza suo faccendiere, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, uomini dei Servizi di Sicurezza, sette sentenze della magistratura ne provano inconfutabili responsabilità. Sette sentenze li condannano. Da tempo nessuno di loro sconta nessuna pena, sono tutti fuori dalle patrie galere o non vi sono mai entrati.
Oggi alla stazione di Bologna la vita continua, molti passano e guardano l’enorme sbrego sul muro lasciato a testimoniare l’orrore, molti ricordano, alcuni giovani non sanno. Laura, insegnante, passa insieme ai suoi alunni e racconta l’accaduto. Ricorda coloro che non ci sono più, dice: “Molti erano bambini come voi”. Il gruppo a piccoli passi va via. Resta lo sguardo di Laura che ha gli occhi della memoria“.