Il Sogno e la Ragione
DANIELE BIACCHESSI GAETANO LIGUORI MICHELE FUSIELLO
IL SOGNO E LA RAGIONE
Foto Spot Agency Teatro Politeana Poggibonsi
Live Poggibonsi Teatro Politeama con Gaetano Liguori , Michele Fusiello e Alessandro Rossi 17/05/2008(acquista e-shop)
Per me il ’68 è un sogno.
Avevo solo 11 anni.
Nel’68, mi ricordo, la tv era in bianco e nero.
Uno strano bussolotto di metallo con un vetro verde e concavo davanti.
Non c’era il telecomando, solo l’interruttore.
Si vedeva un solo canale, il primo.
Quando si vedeva………
Perché non era mica come oggi, con l’antenna centralizzata, con i padelloni per ricevere i satelliti.
A casa mia l’antenna era vicina all’apparecchio.
E ognuno faceva come gli pareva.
Uno si alzava e muoveva l’antenna, le righe orizzontali sparivano.
Poi qualcun altro si alzava, passava accanto al filo e le righe tornavano, più grandi di prima.
Si poteva andare avanti per ore.
Una lotta.
Certe volte la valvola si scaldava e l’immagine si ingrandiva, poi si stringeva, e ancora si ingrandiva.
Ci voleva tanta pazienza.
E c’erano le manopole del contrasto e del volume, quelle di plastica, quelle che a furia di girarle ti restavano in mano e non si vedeva, né sentiva più niente.
Una lotta impari.
Per farli funzionare quegli strani aggeggi bisognava essere dei veri esperti.
Roba da scuola Radioelettra Torino.
Quando ero malato e non potevo andare a scuola, con mia nonna vedevo Non è mai troppo tardi.
Alle 12 in punto, appariva Alberto Manzi, un maestro, con la sua penna nella mano.
La sua era una mano piccolina, nera su foglio bianco, che insegnava a milioni di italiani come leggere e scrivere.
Mia nonna annuiva e prendeva appunti sulla carta del pane.
Di pomeriggio, alle 17,30, si vedeva La tv dei ragazzi.
I rulli dei tamburi introducevano una marcetta che scandiva una sfilata di bambini stilizzati che si tenevano per mano, come a comporre uno straordinario girotondo.
C’era Angelo Lombardi, “L’amico degli animali”.
Parlava con cani, gatti, leoni, serpenti.
Aveva la faccia da buono.
E Paolo Poli raccontava fiabe per bambini.
Poi c’erano I viaggi di Gulliver.
La sigla iniziava così:
“…….voglio girare tutte le strade del mondo …”
Come si può scordare Giovanna la nonna del corsaro nero?
“Nonnetta sprint, più forte di un bicchiere di gin”.
Lei che viveva bizzarre avventure nei mari del Sud insieme al suo maggiordomo Battista e all’irresistibile mozzo Nicolino, con quei fondali finti, fatti di cartapesta.
C’era di tutto a La tv dei ragazzi.
Uno degli appuntamenti fissi era Orizzonti della scienza e della tecnica.
Il primo aereo a decollo verticale, i radiotelescopi, i viaggi spaziali, i cervelli elettronici, quelli ingombranti che occupavano lo spazio di un appartamento.
Poi c’erano i telefilm.
Ivanhoe, cavaliere senza macchia e senza paura che si batteva contro gli uomini di Giovanni Senza Terra e lo Sceriffo di Nottingham, aspettando il ritorno di re Riccardo Cuor di Leone.
Thierry La Fronde giustiziere francese ai tempi della guerra dei cento anni. Come Robin Hood rubava ai ricchi per dare ai poveri.
I Compagni di Baal, fantomatica setta che agiva nella malavita francese.
E chi può dimenticare le commedie musicali?
Il Quartetto Cetra di Non cantare spara? Eh…?
Il Quartetto eseguiva le sue canzoni tra saloon, banditi, sparatorie e cazzotti vari in un vero clima da spaghetti western.
E gli sceneggiati?
Tino Buazzelli era Nero Wolf, Gino Cervi Il commissario Maigret, Ubaldo Lay il mitico Tenente Sheridan.
E i quiz? Lo sport preferito degli italiani.
Chissà chi lo sa di Febo Conti.
Non si vinceva niente.
Ogni sabato pomeriggio si sfidavano due classi delle medie inferiori.
Mi ricordo quella che veniva da Valmadrera.
C’erano sempre loro.
“Squillino le trombe, entrino le squadre”, gridava Febo Conti.
Non sopportavo Lassie e Rin tin tin.
Tutte le puntate erano la ripetizione di se stesse, come Il grande fratello.
Mi faceva ridere Alberto Lupo che leggeva le poesie, che duettava con Mina, che era sempre presente in tutti i programmi comici e drammatici.
Alberto Lupo con la voce profonda, le basette tenebrose, le dolcevita in cotone, i movimenti teatralmente misurati.
Ad un certo punto, mia madre mi guardava e diceva:
“Dopo Carosello….. a letto”
Ma come fai a perderti certe cose…
“A letto ……che domani si va a scuola”
Avveniva tutte le sere, tranne il sabato e la domenica, quando alle 20,30 andava in onda La freccia nera.
“La freccia nera fischiando si scaglia e la sporca canaglia il saluto ti dà”.
D’estate si poteva guardare la tv fino a tardi.
Ricordo che c’era uno strano tipo di nome Gennaro, in completo azzurro, una sorta di Mago Zurlì napoletano, travestito da arbitro internazionale.
Ma non di calcio.
Era l’arbitro di Giochi senza frontiere, un guazzabuglio di corse a ostacoli, giochi a base di acqua e sapone dove i concorrenti scivolavano e si andavano a schiantare contro castelli di polistirolo, cuscini, piume.
Le squadre venivano da ogni parte d’Europa.
E ti chiedevi..
Come sarà fatto un francese, e un tedesco, e un olandese?
Che vita faranno? Quali sono le loro abitudini?
Scoprivi lingue diverse, pronunce che ti facevano sognare luoghi lontani, anime e colori diversi che però stavano insieme.
Quando c’era la partita di calcio, di sera, i giocatori sembravano dei piccoli punti in movimento che si muovevano in funzione delle righe orizzontali e anche verticali di quell’antenna maledetta………
Da lontano, a Gianni Rivera non gli vedevi la riga dei capelli sempre ben pettinati come se ci fosse un parrucchiere personale che lo seguiva anche in campo.
Signorina, lo chiamava Gianni Brera, ma come giocava… come giocava…con la palla faceva quel che voleva.
Da fermo bloccava il pallone, con una finta spiazzava l’altra squadra, lanciava a 75 metri, esattamente sulla testa di Pierino Prati.
Il calcio, eh..?
C’era la gara per chi conosceva a memoria le formazioni.
Quella del Milan era come una antica filastrocca…
Cudicini, Anquilletti, Schnellinger, Rosato, Malatrasi, Trapattoni, Hamrin, Lodetti, Sormani, Rivera, Prati.
Poi c’era quella dell’Inter:
Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Peirò, Suarez, Corso.
Le formazioni le si imparava a scuola o all’oratorio, quando si scambiavano le figurine con gli amici.
Le figu…..le mitiche figu…quelle che vincevi o perdevi giocando a muretto.
Le figu….ce lo …manca…ce lo ……….manca….
Lo scudetto della Fiore, la Fiorentina, era introvabile.
Per averlo un giorno dovetti sborsare dieci Pizzaballa, cinque Chiarugi, tre Bulgarelli e due De Sisti.
Mi indebitai per sempre.
C’è ancora gente che mi rincorre chiedendomi dov’è finito Pizzaballa?
Peggio di un mutuo suprime.
Di sera, quando ero a letto e la tv non si poteva più vedere, tenevo la luce spenta e accendevo la radio.
Non c’erano più le immagini in bianco e nero e i sogni diventavano a colori.
Si, a colori, perché con la radio puoi inventarti il tuo mondo attraverso il timbro della voce del conduttore.
Mi piaceva smanettare la manopola della radio di notte, a volume basso, con l’orecchio destro sul woofer, per captare ogni spostamento delle onde.
La modulazione di frequenza non era ancora occupata dalle radio private e di notte, le onde medie ti portavano in casa suoni lontani misti a forti fruscii, idiomi affascinanti, bella musica.
Amavo il rock e la Rai si rifiutava di trasmetterlo.
La chitarra di Jimi Hendrix uscì una notte dall’altoparlante di una vecchia radio valvolare attraverso Radio Caroline, un’emittente che trasmetteva dal canale della Manica.
Radio Caroline era sempre in movimento perché girava l’Europa sopra una nave.
I dj me li immaginavo vestiti di nero, con la benda nera su occhio, a bordo di una vecchia imbarcazione con la bandiera dei pirati.
I singoli, i 45 giri, si infilavano nei mangiadischi dai colori improbabili ( arancione, rosa fucsia).
Con quegli arnesi si riusciva perfettamente a tranciare i solchi del vinile.
Praticamente erano delle seghe elettriche musicali.
I dischi si infilavano anche nei juke box dei bar.
Una rivoluzione, 50 lire, tre canzoni.
Ogni tanto un 45 giri s’incantava.
Altre volte andava a 33 giri mentre le persone bevevano di mattina il cappuccino che gli andava di traverso.
Ai primi posti della hit parade di Lelio Luttazzi c’era Azzurro di Adriano Celentano, La bambola di Patty Pravo, Angeli Negri di Fausto Leali, Applausi dei Camaleonti, Ho scritto t’amo sulla spiaggia di Franco I e Franco IV, Luglio di Riccardo del Turco.
Sergio Endrigo e Roberto Carlos con Canzone per te vincevano il Festival di Sanremo del’68.
Solo l’anno prima al festival se ne era andato Luigi Tenco, un poeta.
Ancora oggi c’è chi cerca una verità su quella morte improvvisa e oscura.
Nelle sale cinematografiche gli italiani si accalcavano per 2001 odissea nello spazio di Stanley Kubrick, C’era una volta il west di Sergio Leone, Rosmary’s baby di Roman Polansky, Hollywood Party di Black Edwards, Banditi a Milano di Carlo Lizzani, sulla Banda di Pietro Cavallero e Sante Notarnicola.
Nei bar c’erano flipper colorati.
La biglia di ferro compiva giri virtuosi e la macchina emetteva dei rumori, come fossero ruggiti. Se appena la scuotevi si bloccava, andava in tilt e ti fregava la monetina.
E i biliardini?
I giocatori di plastica avevano magliette di squadre vere.
Qualcuno frullava, altri facevano ganci mirabolanti che sfondavano la porta dell’avversario.
Le partite duravano ore.
I baristi erano contenti di tutto questo sciame di ragazzini.
Nel ’68, il Presidente della Repubblica era Giuseppe Saragat.
Presidente della Camera Sandro Pertini.
Presidente del Senato Amintore Fanfani.
In Italia, la Democrazia Cristiana era il primo partito, seguito dal Partito Comunista e dal Partito Socialista.
All’inizio dell’anno, Aldo Moro era Presidente del Consiglio, Ministro degli Esteri Amintore Fanfani, Ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani.
Alla fine del ’68, il timone passa dalle mani di Aldo Moro a quelle di Giovanni Leone e Mariano Rumor.
Uomini diversi, nessun cambiamento.
Un monocolore democristiano.
Stesse facce, stesse parole, stessi risultati economici.
Nel ’68 lo stipendio di un operaio specializzato era di 110mila lire al mese.
L’affitto medio di un appartamento a Milano e Roma ammontava a 35 mila lire al mese.
La Fiat 500 lusso costava 525 mila lire.
Una tazza di caffè al bar costava 50 lire.
Un litro di benzina 75 lire.
Il 27 del mese era un miraggio.
Proseguiva l’onda lunga del boom demografico.
4 milioni e mezzo di bambini erano iscritti alle scuole elementari, quasi 2 milioni i ragazzi delle medie inferiori, 1 milione e mezzo andavano alle superiori, 500 mila all’Università.
Mancavano 33 mila aule.
Ma il 9% degli italiani erano analfabeti che si guardavano Non è mai troppo tardi e imparavano i verbi dalla televisione.
Nel ’68 avevo le idee un po’ confuse, ma sapevo già da che pare stare.
Mio padre era stato partigiano.
E mio nonno non aveva mai preso la tessera del partito fascista durante il ventennio.
Ne andava fiero.
Appena finito di mangiare il nonno si alzava dalla sedia e si piazzava in un divano vicino al fuoco, gli uomini sparecchiavano, le donne lavavano i piatti. Il nonno accendeva la pipa, poi prendeva un bicchiere e si versava la grappa, guardava i bambini, cioè noi, e con voce forte diceva: «Allora…».
Iniziava così una storia del passato, quando sul crinale dell’appennino tosco – emiliano si combatteva la guerra.
Prato liberata dagli americani, Bologna ancora in mano ai nazifascisti, e in mezzo c’erano i partigiani del gruppo Stella Rossa, tutti comunisti.
Il nonno descriveva in modo minuzioso le serate a lume di candela passate ad ascoltare clandestinamente i messaggi in codice di Radio Londra, lo scalpiccio di stivali dei soldati nazisti sulla ghiaia, fuori dalle case, il vento forte che passava tra i vetri, gli spari, le urla, la morte.
I giornali che mancavano, la tessera del pane, la fame, il freddo, le sirene del coprifuoco, i bombardamenti, le notti passate nei bunker pregando di vedere l’alba.
Ogni sera la storia che il nonno raccontava era così uguale ma così diversa. C’era sempre un elemento in più che rendeva il suo racconto affascinante e mai noioso: un taglio di luce particolare, un gioco di ombre, un temporale, il chiarore delle stelle, un odore, soprattutto la passione civile.
Sapevo da che parte stare.
Non ho fatto il ’68.
Avevo 11 anni.
Per questo, forse, stasera ne posso parlare.
Per me il ’68 è una fotografia in bianco e nero.
Una famiglia riunita la vigilia di Natale, davanti a una fetta di panettone.
Mia madre sul balcone, con le braccia conserte, mentre da Sesto San Giovanni sfilano migliaia di tute bianche: sono gli operai della Pirelli e della Breda in sciopero.
Una città del nord, una fabbrica, turno A, le sette del mattino, il freddo che entra nelle ossa e non fa respirare, i lavoratori che scendono dai pullman, un volantino nelle mani, si infilano sotto la tettoia, inghiottiti dai cancelli.
Mio padre che torna dall’officina.
E’ stanco, deluso, sfiduciato, mostra la sua busta paga, gli hanno portato via 7 mila lire.
Una moto che passa accanto a un muro con sopra scritto a vernice bianca, “Il Vietnam è in fabbrica”.
Per me il ’68 è un treno di pendolari, volti scuri, poche parole, nessun saluto, un giornale letto in fretta.
E’ un tram alle 7 del mattino, gente che corre e l’autista che chiude le porte in faccia.
Per me il ’68 è Tito Stagno.
In televisione, per 28 ore, racconta lo sbarco dell’uomo sulla Luna.
Sembra un film, un libro, un fumetto di fantascienza, come quelli di Urania.
Ma è tutto vero.
Immagini in bianco e nero, distese di crateri, pianure, deserti, un uomo con la tuta bianca che cammina sulla polvere, una navicella spaziale pronta a ripartire per la terra.
Per me il ’68 è il leader del Movimento Studentesco, Mario Capanna, che impreca contro le signore impellicciate della Milano bene che entrano al Teatro La Scala, il 7 dicembre, il giorno della prima, disposte a spendere in pochi minuti lo stipendio di un operaio di un mese.
Per me il ’68 è sempre Mario Capanna che si rivolge ai poliziotti:
“Siete tutti meridionali. Ad Avola avete sparato sui vostri padri, sui vostri fratelli meridionali. Il potere vi usa, ribellatevi.”
La polizia che carica gli studenti a valle Giulia, Roma.
Gli studenti che invece di scappare tirano sampietrini e bottiglie molotov contro le forze dell’ordine.
Per me il ’68 sono le parole di Pierpaolo Pasolini:
“Valle Giulia, ieri, si è cosi avuto un frammento di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte della ragione) eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri”.
Per me il ’68 è Don Enzo Mazzi che parla alla sua gente del quartiere Isolotto di Firenze, dopo essere stato allontanato dall’arcivescovo Florit.
Don Mazzi che conserva il suo dissenso, rimanendo al suo posto.
Un uomo di chiesa che resta vicino alla povera gente.
Per me il ’68 è Daniel Cohn Bendit vicino a un cartello stradale, con un megafono in mano parla agli studenti durante il maggio francese.
Una strada di Parigi e cento macchine ribaltate, poi bruciate che si trasformano subito in barricate.
I fascisti che si scontrano con i compagni all’Università di Roma, i banchi e gli armadi tirati giù dal quarto piano, il sangue dei feriti.
Per me il ’68 è l’ultimo istante di vita del reverendo Martin Luther King, ucciso da un sicario, sul balcone del Motel Lorraine di Memphis, davanti alla stanza 306.
Solo cinque anni prima aveva detto davanti a centinaia di migliaia di persone:
“ I have a dream, ho un sogno: che un giorno questa nazione si sollevi e viva pienamente il vero significato del suo credo: “Riteniamo queste verità di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati uguali.”
Per me il ’68 sono i sogni di Bob Kennedy espressi nelle ultime parole prima di essere ucciso da un killer:
“Amore, saggezza, solidarietà per coloro che soffrono, giustizia per tutti, bianchi e neri. Ci sono coloro che guardano le cose come sono, e si chiedono perché….. Io sogno cose che non ci sono mai state, e mi chiedo perché no.”
Per me il ’68 è un treno che attraversa l’America.
Trasporta la salma del senatore democratico Bob Kennedy, nel suo ultimo viaggio.
Il lavoro si ferma in tutto il paese.
Non si può stare in casa, guardare la televisione, ascoltare la radio.
Bisogna esserci, stare lì, mentre il treno nero attraversa l’intera nazione.
Centinaia, migliaia, migliaia di migliaia, si accalcano lungo le strade ferrate d’America, in un passaparola interminabile:
Tutti alla stazione..tra un’ora passa il treno di Bobby…
Per me il ’68 è una casa bianca, un ruscello, una madre con due figli che salutano come se Bob Kennedy fosse un generale di un’armata di diseredati.
Una famiglia sulle rotaie, il padre con un mazzo di fiori in una mano, mentre l’altra si asciuga le lacrime.
Ragazzi di colore sopra un treno merci, una donna nera che piange ….mentre il treno prosegue, di chilometro in chilometro, di stazione in stazione, verso la destinazione finale.
Vai..Vai, verso il sud, attraversa gli stati, verso il nord..vai..vai..
Decine di persone con una bandiera americana e altre ferme in mezzo alla campagna, e altre ancora disseminate lungo l’autostrada di ferro.
Lui, lei, avranno quarant’anni, i loro cinque figli, schierati in orizzontale in posizione di riposo.
Poi un cartello..so long Bobby.
Infine solo il vuoto di quella morte senza senso.
Per me il ’68 è un carro armato russo che invade piazza San Venceslao, a Praga.
Poi curva su Staromeska nemesti, passa sotto l’orologio del ‘400, e tira dritto verso il castello, quello di Kafka, all’assalto del palazzo, mentre Alexander Dubceck e Ludvick Svoboda, tentano la strada del socialismo democratico.
Il ’68 è un giovane che sventola la bandiera cecoslovacca sopra un blindato con la stella rossa.
“Libertà a Dubceck, abbasso i russi, tornate a casa, non vi vogliamo”.
E’ Jan Palack che si brucia sotto i portici della città vecchia.
E’ Gustav Husak che parla da dittatore nell’unico canale televisivo disponibile, a nome di un governo fantoccio, invoca leggi speciali e di polizia, il coprifuoco, la soppressione della stampa libera.
Per me il ’68 è il rumore assordante degli aerei B52 americani che bombardano le pianure del Vietnam.
Le urla dei ragazzi con i cartelli che marciano contro la guerra.
Le canzoni di Joan Baez e di Bob Dylan, le poesie di Jack Rubin e Lawrence Ferlighetti, i concerti dei Greateful Dead e dei Jefferson Aiplane nei saturday afternoon di San Francisco.
I giovani che bruciano le cartoline di precetto davanti ai distretti militari americani.
Il ’68 è l’offensiva del capodanno del Tet, 50 mila vietcong all’assalto di 500 mila marines.
Migliaia di morti.
Le immagini raccapriccianti del massacro nel villaggio di My Lai.
Neonati, bambini, ragazzi, donne, vecchi.
La foto della strage di civili vietnamiti trucidati dalla furia del tenente Calley.
I bambini con le mani alzate che fuggono dal loro paese in fiamme, colpito da bombe al napalm.
Per me il ’68 sono i reporter della televisione americana Cbs che mostrano al mondo l’orrore, le sofferenze e le distruzioni della guerra in Vietnam.
“Qui è Morley Safer della Cbs. Ci troviamo alla periferia del villaggio di Cam Ne, con elementi del primo battaglione del 9 marines. Stavamo entrando nel villaggio quando….potete vedere e sentire direttamente quello che è accaduto. Ecco cos’è in sostanza la guerra del Vietnam. I marines stanno bruciando la capanna di questa coppia di vecchi…”
Per me il ’68, sono le lettere dal Vietnam spedite da soldati americani, poco dopo stanati e uccisi a uno a uno dai vietcong nella giungla.
Ragazzi d’America di diciotto anni, muscoli e faccia quadrate, bianchi e neri, ricchi e poveri, di ogni ceto sociale, di ogni classe.
Diciotto anni, tutti di leva, pochi riservisti.
Diciotto anni, un fucile in spalla, scarpe grosse ,sporche di fango.
Diciotto anni, lunghe marce, la pioggia, le paludi, le zanzare.
Diciotto anni, figli della nuova America, partiti ordinati e puliti, tornano a casa dentro una bara avvolta della bandiera stella e strisce, con una bella medaglia d’oro sul petto e un bel funerale militare.
L’inno, il saluto, i discorsi, la retorica.
Poi un solo grande silenzio.
Diciotto anni, tornare dal Vietnam, senza un lavoro, senza una fidanzata, con un piede e una mano di meno..e sentirsi ancora fortunati….
Per me il ’68 è Città del Messico, Piazza delle tre culture, la polizia reprimeva una manifestazione del movimento studentesco, sparava sulla folla, centinaia di morti, migliaia di feriti.
Per me il’68 è Città del Messico, Olimpiadi, davanti alle tv di tutto il mondo, sul podio dei 200 metri, i pugni chiusi di Tommie Smith e John Carlos, faccia scura, rivolta in basso, in senso di sfida e di disprezzo, contro le discriminazioni razziali.
Per me il ’68, erano quelli che suonavano il rock sognando di essere a San Francisco.
Suonare nelle cantine umide d’estate, fredde d’inverno, con la muffa sul soffitto, in quei luoghi angusti ricoperti di contenitori delle uova color cacca di piccione, usati come fossero pannelli acustici.
Suonare rock con le chitarre elettriche Fender Stratocaster rigorosamente bianche, gli amplificatori Marshall neri, le valvole saturate, con la batteria, il basso, i primi sintetizzatori, i mitici moog, gli organi Hammond come quelli suonati dai padri del r&b.
Per me il ’68 erano quelli che scappavano da casa e si univano alle prime comuni.
Quelli che lasciavano i letti puliti, ordinati, le cene alle feste comandate, i soldi nel portafoglio, la macchina nuova, il lusso, per dormire in case occupate, giacigli di fortuna.
Erano i giovanotti con i capelli lunghi, che facevano arrabbiare parrucchieri e benpensanti.
Per me il ’68 erano le persone depresse o senza memoria, rinchiusi dentro i manicomi, insultati, legati a letti di contenzione, denigrati, picchiati, torturati, imbottiti di pastiglie di psicofarmaci, resi innocui da punture di sedativi ed elettroscock.
Per me il ’68 era Franco Basaglia che all’ospedale di Trieste trovava per loro i motivi di un esistenza meno infelice.
Per me il ’68 erano tutti quelli che si rifiutavano di andare a militare, di servire la Patria, anni prima della legge sul servizio alternativo civile e per questo venivano rinchiusi nel carcere militare di Gaeta e di Peschiera.
Per me il ’68 erano gli antimilitaristi che venivano processati da tribunali fasulli, senza avvocati di difesa, in processi così identici a quelli istruiti in una qualsiasi dittatura militare sudamericana, composti sempre da un generale, uno psicologo, un prete e un maresciallo dei carabinieri.
Tribunali da dittatura militare ma….democratici.
Per me il ’68 erano le donne che cercavano la loro emancipazione, dentro e fuori la famiglia, che si ribellavano alle violenze dei mariti, che lottavano per una legge giusta, quella del divorzio, sei anni prima del referendum, in tempi da caccia alle streghe.
Per me il’68 erano le minigonne delle ragazze che finalmente scoprivano le loro gambe.
Per me il ’68 era tutto questo e molto di più.
Qualcosa che forse, nel tempo, ci siamo scordati di capire.
Per paura di guardarci fino in fondo nello specchio, e voltare pagina davvero
Sono cronache del ’68.
L’anno del sogno e della rivolta, della passione civile e della violenza, delle grandi conquiste sociali e della dura risposta dello Stato.
14/15 gennaio.
Sicilia: terremoto del Belice. Almeno trecento vittime.
L’Italia è sconvolta e riscopre la solidarietà.
Come nell’alluvione del 1966 a Firenze.
15 gennaio, Roma: manifestazione di studenti dellUniversità Cattolica in piazza San Pietro.
18/19 gennaio, Brema (Germania): gravi scontri tra studenti e polizia.
Un morto e molti feriti.
25 gennaio, Firenze, Siena, Livorno e Pisa: occupazioni delle università.
26 gennaio, Milano: primo sciopero dei studenti medi, occupato il Liceo Berchet.
30 gennaio, Firenze: polizia carica gli studenti. Dimissioni del rettore.
30 gennaio, Vietnam: offensiva del Tet sferrata contro i marines americani da nordvietnamiti e vietcong.
2 febbraio, Roma: occupate le Università di Lettere e Architettura.
8 febbraio, Francia: prima barricata al Quartiere latino di Parigi.
28 febbraio, Milano: alla Statale occupate le Università di Lettere, Legge e Scienze.
Gran parte degli atenei sono bloccati.
1 marzo. Roma: a Valle Giulia la polizia carica gli studenti che si rivoltano contro le forse dell’ordine.
Centinaia di ragazzi arrestati e feriti, uomini delle forze dell’ordine all’ospedale.
8 marzo, Polonia: rivolta studentesca.
16 marzo, Roma: gruppi di fascisti assaltano l’Università di Lettere.
Respinti a Legge lanciano mobili sugli studenti.
Viene ferito Oreste Scalzone.
Lo stesso giorno in Vietnam: massacro di civili nel villaggio di My Lai.
22 marzo, Francia: occupata l’università di Nanterre.
Nasce il ”movimento 22 marzo” di Daniel Cohn-Bendit.
25 marzo, Milano: ”Battaglia di Largo Gemelli” all’Università Cattolica con scontri violenti tra studenti e polizia.
Due giorni dopo in Unione Sovietica: l’astronauta Iuri Gagarin muore in un incidente.
30 marzo, Stati Uniti: il presidente Johnson annuncia la sospensione dei bombardamenti sul Nord Vietnam.
4 aprile, Stati Uniti: a Memphis (Tennessee) e’ ucciso Martin Luther King.
6 aprile, Torino: migliaia di studenti partecipano ai picchetti degli operai della Fiat in sciopero.
19 aprile, Valdagno: operai abbattono la statua del conte Marzotto.
11 aprile, Germania: a Berlino il leader studentesco Rudy Dutschke viene ferito a colpi di pistola da un imbianchino neonazista.
29 – 30 aprile, Stati Uniti: bloccate le lezioni in molte università.
Almeno 2 milioni di studenti sono in agitazione contro il razzismo e la guerra.
Francia: a Parigi comincia il Maggio francese.
6 maggio, Francia: a Parigi gli studenti che tentano di occupare la Sorbona si scontrano con la polizia.
10 maggio, Francia: ”Notte delle barricate” al Quartiere latino.
13 maggio, Francia: lo sciopero generale blocca la Francia.
A Parigi manifestano in 800.000.
Gli studenti rioccupano la Sorbona.
14-16 maggio, Francia: scioperi spontanei nelle fabbriche.
A Parigi occupati il teatro Odeon e l’Accademia di Francia.
18 maggio, Stati Uniti: a Berkeley in migliaia solidarizzano con gli studenti che hanno rifiutato di partire per il Vietnam.
19 maggio, Francia: lo sciopero coinvolge 2 milioni di francesi.
Si blocca il paese. Interrotto anche il Festival di Cannes.
Lo stesso giorno in Italia: elezioni politiche: crollo (-5,4%) del Psu (Psi e Psdi insieme), crescono Dc e Pci, 4,5% al Psiup.
24 maggio, Francia: gli studenti si scontrano con la polizia nelle principali citta’.
A Parigi un morto tra i manifestanti.
30 maggio, Francia: De Gaulle scioglie le Camere.
A Parigi sfilano 600.000 persone della ”maggioranza silenziosa”.
Stesso giorno a Milano: un centinaio di artisti occupa la Triennale.
3 giugno, Roma: la polizia sgombera l’Università.
5 giugno, Stati Uniti: a Los Angeles (California) viene ucciso Bob Kennedy.
7 giugno, Milano: gli studenti assediano la sede del Corriere della Sera di via Solferino.
Il sit-in si trasforma in un duro scontro con la polizia.
10 giugno, Roma: l’Italia vince il campionato europeo di calcio.
16 giugno, Francia: a Parigi la polizia sgombera la Sorbona.
20 giugno, Venezia: artisti ritirano le opere della Biennale per protesta contro le cariche di polizia a San Marco.
23 giugno, Francia: i gollisti stravincono le elezioni anticipate.
13 agosto, Grecia: Panagulis fallisce un attentato contro Papadopulos.
20 agosto, Cecoslovacchia: ingresso delle le truppe del Patto di Varsavia per stroncare la ”primavera di Praga” di Dubcek.
28 agosto, Venezia: Zavattini, Pasolini, Pontecorvo guidano la contestazione dei registi alla mostra del cinema.
7 settembre – Portogallo: il dittatore Salazar lascia.
Potere a Caetano.
14 settembre, Parma: Duomo occupato da cattolici del dissenso. In nottata sgombero della polizia.
3 ottobre, Messico: nella capitale, a Piazza delle tre culture, la polizia spara sugli studenti. Centinaia di morti.
17 ottobre, Messico: alle Olimpiadi, clamorosa protesta degli atleti neri Usa Smith e Carlos, sul podio con il pugno chiuso nero.
18 ottobre, Roma: si espande il movimento degli studenti medi’.
6 novembre, Richard Nixon viene eletto presidente degli Stati Uniti.
2 dicembre, Avola la polizia spara sui braccianti.
2 morti, decine di feriti. Sul selciato si conteranno centinaia di proiettili sparati dalle forze dell’ordine e dai mafiosi.
7 dicembre, Milano: gli studenti contestano la prima della Scala.
31 dicembre, Marina di Pietrasanta (Lu): contestato il Capodanno alla Bussola, famoso locale della Versilia.
Soriano Ceccanti, ferito da un colpo di pistola, resta paralizzato per sempre.
Per me il ’68 è tutto questo, e molto, molto altro ancora.
Ma c’era un prima e un dopo.
Prima gli studenti non potevano affiggere manifesti nella scuola.
Dopo le scuole erano composte da manifesti, non da mattoni.
Prima gli studenti non potevano riunirsi in assemblea.
Dopo i presidi chiamavano la polizia per sgomberare le assemblee.
Prima si studiavano piani arcaici, quasi medievali, imposti dal ministero dell’Istruzione.
Dopo per tutti c’era il sei politico.
Oggi nei libri di testo non c’è scritto nulla della Resistenza, nulla delle stragi italiane, nulla della mafia, nulla della storia contemporanea.
Prima un operaio lavorava oltre 40 ore, a cottimo, straordinari non pagati, stipendi da terzo mondo. Moriva schiacciato dalle presse.
Dopo il sindacato e consigli di fabbrica difendevano i diritti dell’operaio.
Oggi l’operaio muore ancora schiacciato dalle presse.
Prima i giovani studenti giornalisti del periodico La Zanzara del liceo milanese Parini venivano processati per un’inchiesta su sesso e gli adolescenti.
Dopo si professava l’amore libero.
Oggi ci continua fortunatamente a trombare.
Prima una donna per abortire doveva andare a Londra, pagare in sterline nella totale solitudine.
Prima una donna per abortire doveva rivolgersi alle mammone, alle santone, ai maghi e poteva morire sotto i ferri.
Dopo c’è stata la legge 194.
Oggi c’è la caccia alle streghe.
Oggi un ex sessantottino, ex comunista, ex socialista, ex anticlericale come Giuliano Ferrara presenta liste antiabortiste, e la polizia a Napoli, entra in una clinica e sequestra il feto.
Prima i depressi venivano chiamati matti e richiusi nei manicomi, picchiati, legati, torturati dagli elettroscock.
Dopo c’è stata la legge 180, i manicomi sono stati chiusi.
Oggi quelle persone erano meno infelici.
Prima la Rai era controllata dai partiti.
Dopo la Rai era ancora in mano ai partiti.
Oggi la Rai è proprietà di tutti i partiti.
Prima c’erano bustarelle, corruzione, scandali, appalti truccati ma per la televisione tutto andava bene.
Dopo c’erano bustarelle, corruzione, scandali, appalti truccati e i giornalisti della televisione, con le loro inchieste, facevano cadere i governi.
Oggi i giornalisti della televisione, tranne pochi, leccano il culo ai potenti.
Prima i magistrati chiudevano le indagini sugli omicidi di mafia nei polverosi cassetti del cosiddetto Porto delle nebbie.
Dopo i magistrati venivano ammazzati dalla mafia.
Oggi la mafia controlla il 50% dei capitali finanziari del nostro paese.
Prima la polizia sparava sugli studenti. Uccisi Ardizzone e Rossi.
Dopo la polizia ha continuato a sparare sugli studenti. Uccisi Serrantini, Saltarelli, Franceschi, Varalli, Zibecchi, Bruno, Masi.
Dopo la polizia ha costituito il suo sindacato democratico.
Oggi, nel 2001 a Genova, la polizia ha continuato a sparare sui manifestanti uccidendo Giuliani.
Prima la violenza politica erano le molotov e i sampietrini degli studenti.
Dopo la violenza politica erano le pistole. Le organizzazioni della lotta armata di sinistra hanno ucciso 131 persone, poliziotti, carabinieri, guardie carcerarie, giornalisti. 2000 i gambizzati.
Oggi, nel 1999 e nel 2002, le Brigate Rosse hanno ucciso Massimo D’Antona e Marco Biagi.
Prima del ’68 c’era stata la strage di Portella della Ginestra.
Dopo il ’68, le bombe hanno ucciso vittime innocenti a Milano, in Piazza Fontana e davanti alla Questura, a Brescia in Piazza della Loggia, a san Benedetto Val di Sambro sui treni Italicus e Rapido 904, a Bologna, alla stazione.
Oggi per quelle stragi non vi è alcuna giustizia.
Per me il ’68 è tutto questo, e molto, molto altro ancora.
Il’ 68 era fatto da persone che avevano bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo.
Erano disposti a cambiare ogni giorno, perché sentivano la necessità di una morale diversa.
Come diceva Giorgio Gaber, forse era solo una forza, un volo, un sogno.
Perché con accanto questo slancio ognuno era come più di se stesso, era come due persone in una.
Da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita.
Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare, come dei gabbiani ipotetici.
E ora? Anche ora ci si sente come in due: da una parte l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall’altra il gabbiano, senza più neanche l’intenzione del volo, perché ormai il sogno si è rattrappito.
Due miserie in corpo solo.
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