Milano e la Memoria
DANIELE BIACCHESSI
MILANO E LA MEMORIA
Foto Roberto Agostini Roma
PIAZZA FONTANA
Il 1969 è l’anno degli scioperi, dei cortei di operai e studenti in tutto il paese.
Le rivendicazioni del salario garantito e di un lavoro per gli operai, il diritto allo studio chiesto dai giovani delle scuole medie superiori e delle università.
Torino, Milano, Genova, il triangolo industriale.
E’ lì che le lotte diventano più calde.
7.507.000 persone coinvolte in conflitti di lavoro per 302.597.000 ore di produzione perdute a causa di scioperi.
E’ l’anno delle bombe.
Dal 3 gennaio al 12 dicembre se ne conteranno 145, una ogni tre giorni.
Per 96 la responsabilità accertata è dell’estrema destra.
Il 15 aprile ne scoppia una nell’ufficio del Rettore dell’Università di Padova.
Il 9 aprile a Battipaglia vengono uccisi due lavoratori e 119 persone sono arrestati.
Il giorno dopo ci saranno manifestazioni in tutta Italia, accompagnate da violenti scontri con la polizia.
Il commissariato di Battipaglia viene dato alle fiamme.
Il 25 aprile, alla Fiera di Milano, un ordigno provoca il ferimento di venti persone.
In agosto vengono piazzati dieci ordigni sui treni: otto esplodono e colpiscono dodici passeggeri.
A Pisa, il 27 ottobre, durante una manifestazione contro i colonnelli greci, uno studente di sinistra rimane ucciso da un candelotto lacrimogeno lanciato dalla polizia.
Il 19 novembre, a Milano, negli scontri di piazza muore il poliziotto Antonio Annaruma.
Si è appena insediato il secondo governo a guida Mariano Rumor.
Il suo vice è Paolo Emilio Taviani.
Ministro degli Esteri Aldo Moro, all’Interno c’è Franco Restivo.
Un monocolore Dc.
Capo del Sid è l’ammiraglio Eugenio Henke.
Al vertice della polizia c’è Angelo Vicari.
Presidente della Repubblica è Giuseppe Saragat.
Il Pci italiano sta all’opposizione.
12 dicembre 1969.
Mancano 13 giorni a Natale.
E’ quasi sera ma Milano è illuminata a giorno.
I grandi magazzini sono sfavillanti.
Le compere e gli acquisti.
Le luminarie addobbano il centro che sembra un carnevale.
Migliaia di persone stipate in pochi metri tra Corso Vittorio Emanuele, Piazza Duomo e Piazza San Babila vanno su e giù, osservano le vetrine.
Ci sono gli zampognari e i venditori di caldarroste, le vendite di beneficenza e quelle private.
Ai bar del Barba e Haiti servono espressi in continuazione, cinquanta lire a tazza.
La gente transita nei pressi del Teatro alla Scala.
Quella sera rappresentano “Il barbiere di Siviglia”.
C’è ressa davanti al Rivoli per il film: “Un uomo da marciapiede” e all’Excelsior per “Nell’anno del signore”.
Il freddo entra nelle ossa.
I giovani stanno tutti in Galleria Passerella da Fiorucci per gli ultimi arrivi alla moda.
Tutti noi italiani ci sentivamo felici, immortali, allegri, innocenti.
Ad un tratto, un boato rompe quella strana ubriacatura invernale.
Eravamo già vecchi, colpiti alla schiena, feriti nel nostro stesso orgoglio.
“ Una bomba, è stata una bomba ”.
Tutto avviene in meno di un secondo.
Il salone centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana diventa un mattatoio.
Chi organizza quell’attentato ha ben presente il risultato finale.
A quell’ora c’è il mercato del venerdì.
E’ un appuntamento conosciuto quello dei fittavoli, coltivatori diretti e imprenditori agricoltori che provengono da ogni parte della Lombardia e del Piemonte.
Sette chilogrammi d’esplosivo vengono compressi in una cassetta metallica, poi inseriti dentro ad una valigetta nera, tipo ventiquattro ore.
Collocata proprio al centro del salone dove gli agricoltori contrattano i loro affari.
La gelignite verrà attivata da un timer.
Un luogo strategico, un orario scelto con cura, per fare uno scempio di vittime innocenti.
Il paese è attonito, martoriato.
Nessuno crede alle immagini che la televisione trasmette.
Frammenti di guerra, scene che sembrano venire da lontano, da un altro paese.
Strage di Piazza Fontana, 12 dicembre 1969, 17 morti, 88 feriti.
32 anni dopo.
Ci sono silenzi così pieni di rumori che spesso si annullano a vicenda.
Frasi, azioni, gesti, sguardi, la vita si è congelata, ibernata, come quelle statue di gesso che non hanno colore, stanno lì immobili, ti guardano, non hanno più un’anima ma parlano. Cosa contengono due minuti di tempo dopo una strage?
Ci sono silenzi in cui le parole non dette suonano ancora più forte.
Frasi che risuonano nella testa, chiare e rotonde, pizzicano in gola, sul fondo della lingua, premono forte sulla laringe e schioccano, sonore e senza voce, contro il palato.
Silenzi in cui le parole si trasformano in urla soffocate. Come vite sospese che non sono più corpo e spazio.
D’inverno, ci sono mattine fredde e livide in cui un urlo è più acuto e veloce di un giorno di nebbia fitta.
D’estate ci sono certe giornate di primo agosto, limpide, calde, dove non c’è ragione perché un urlo non possa fare lo stesso. E sul mare, quando il sole si riflette sull’acqua, sulla spiaggia giungono le voci di barche lontane alcune miglia, un urlo corre sul riverbero e salta come i sassi lanciati sulle onde.
Quell’urlo lontano, straziante, indifeso, giunge come un fischio acuto. E compie il giro del mondo.
In molti lo percepiscono, forte e chiaro, potente come una bomba. Nulla sarà più uguale a prima.
Quell’urlo che racchiude gli ultimi gesti di Pietro Dendena, Eugenio Corsini, Giulio China, Carlo Gaiani, Carlo Garavaglia, Paolo Gerli, Luigi Meloni.
Gli sguardi di Gerolamo Papetti, Mario Pasi, Carlo Luigi Perego, Oreste Sangalli, Carlo Silva.
Le parole di Attilio Valé, Angelo Scaglia, Calogero Galarioti.
LUIGI CALABRESI
Mercoledì 17 maggio 1972.
Ore 7, 30.
Milano si alza con la sveglia puntata, alla stessa ora, quella di sempre.
Lo speaker della radio racconta le notizie del giorno: le tensioni internazionali tra Stati Uniti e Unione Sovietica, il presidente americano Richard Nixon in visita a Mosca, la guerra del Vietnam, lo sciopero di trecentomila statali, un operaio di Dalmine cade da un’impalcatura.
Siamo nel mezzo di una settimana come tante.
I taxisti si recano alla solita fila in Stazione Centrale, portano uomini di affari negli aeroporti, borse zeppe di carte, agende, appuntamenti.
C’è la metropolitana stracarica di persone, la linea 1, quella che va da Sesto San Giovanni a Lotto.
I filobus 90 e 91, che percorrono la circonvallazione esterna, sono presi d’assalto. Corrono in ogni direzione, ognuno per la propria strada.
Vanno via, veloci con le mani ficcate in tasca, il bavero alzato e il giornale tra le braccia. Poi consumano le colazioni in fretta, un cappuccino, una pasta, il biglietto del tram. Alle 9 i mezzi pubblici sono già quasi vuoti.
Milano è ormai dentro alle fabbriche .
Si sente da lontano il respiro affannoso degli altiforni di Sesto, i torni e le frese della Falck, il carico e lo scarico dei camion della Pirelli Bicocca, i rumori metallici della Breda.
Anche i telefoni degli uffici del centro iniziano a squillare.
Sono le 9, 15.
Un suono acuto: è il ricevitore della centrale operativa di via Fatebenefratelli, sede della Questura.
La voce, lontana e metallica, giunge dalla radio di un equipaggio della squadra volante della polizia.
“C’è un uomo ferito da colpi di pistola in via Cherubini, bisogna trasportarlo all’Ospedale San Carlo”.
Alla Centrale chiedono spiegazioni, fatti, nomi.
“E’ il commissario Luigi Calabresi, ferito da colpi di pistola, sta sanguinando dal capo, chiamate altre vetture, che arrivino subito, fate presto, non si può perdere un attimo”.
La Centrale Operativa da l’allarme ma ormai è troppo tardi.
Il commissario Calabresi cade tra la sua Cinquecento rossa e una Opel Kadett, parcheggiate con la parte anteriore accostata allo spartitraffico.
Lascia una moglie, Gemma, due figli, Mario e Paolo e un terzo che deve ancora nascere, Luigi.
Nessuna organizzazione terroristica rivendica l’omicidio.
Quando il killer lo uccide, Luigi Calabresi ha 35 anni.
E’ il vicedirettore dell’Ufficio politico della Questura di Milano.
Calabresi viene da Roma.
E’ laureato, si presenta come un liberal che vota per i socialdemocratici, sempre con i suoi eleganti maglioni dolcevita.
E’ cattolico.
E’ un uomo colto. Legge Cesare Pavese, Maritain, Edgar Lee Masters, la letteratura russa.
Quando arriva a Milano, sul finire degli anni Sessanta, controlla l’attività dell’arcipelago dei gruppi della sinistra e della destra extraparlamentare.
In Questura, Luigi Calabresi risponde sempre ai suoi superiori, Marcello Guida e Antonino Allegra, che a loro volta dipendono dall’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno.
Luigi Calabresi si trova al centro dell’inchiesta più complessa della storia dello stragismo italiano, quella della bomba del 12 dicembre 1969 alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, in Piazza Fontana, a Milano.
Dopo l’eccidio, la polizia dirige le indagini verso gli anarchici.
Ventisette militanti del circolo Ponte della Ghisolfa di Milano vengono arrestati.
Viene indiziato l’anarchico Pietro Valpreda.
In quelle ore Luigi Calabresi invita l’anarchico Pino Pinelli, a seguirlo in Questura per una breve testimonianza.
Calabresi e Pinelli si conoscono bene.
Si scambiano libri, condividono letture.
Si stimano.
Calabresi guida la macchina, Pinelli lo segue in bicicletta verso la Questura.
Sembra una formalità…….
La notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, Pino Pinelli precipita dal quarto piano della Questura di Milano.
Cade proprio dalla finestra balcone dell’ufficio del commissario Luigi Calabresi. Assistono alla scena i sotto-ufficiali Panessa, Caracuta, Mucilli e il tenente dei carabinieri Lo Grano.
Luigi Calabresi è uscito da alcuni minuti ed è a colloquio con Antonino Allegra.
Il quotidiano Lotta Continua avvia una campagna stampa contro Calabresi, ritenuto responsabile materiale della morte di Pinelli.
Secondo il giornale, il commissario avrebbe ucciso Pinelli con un colpo di karatè alla nuca, poi lo avrebbe scaraventato dalla finestra per simulare il suicidio.
Nel 1975, il giudice Gerardo D’Ambrosio confermerà che Luigi Calabresi non era presente nell’ufficio.
Anni dopo, per l’omicidio di Luigi Calabresi saranno arrestati i vertici di Lotta Continua: Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani, Ovidio Bompressi.
Nei processi, saranno tutti condannati in via definitiva.
Pietro Valpreda non era l’esecutore materiale della strage di Piazza Fontana.
Pino Pinelli non ha mai avuto giustizia.
Luigi Calabresi è morto innocente.
Così funzionano le cose in Italia.
Nel paese della vergogna.
WALTER TOBAGI
Milano.
Mercoledì 28 maggio 1980.
E’ una fredda mattina di maggio.
Il giornale radio scandisce i titoli delle notizie della giornata:
I NAR, Nuclei Armati Rivoluzionari, uccidono a Roma l’agente di polizia Franco Evangelista davanti al liceo classico <<Giulio Cesare>>.
Il pentito di Prima Linea Roberto Sandalo coinvolge con le sue confessioni l’esponente della sinistra della Democrazia Cristiana, Carlo Donat Cattin, padre di Marco, terrorista latitante, il Presidente del Consiglio Francesco Cossiga e il ministro dell’Interno Virginio Rognoni.
Scioperi spontanei alla Fiat Mirafiori di Torino e in tutte le aziende dell’indotto dopo l’annuncio della cassa integrazione per 78 mila lavoratori.
Ore 8, via Solari.
Davanti all’abitazione di Walter Tobagi, inviato del Corriere della Sera e presidente dell’Associazione Lombarda Giornalisti, è appostato Manfredi De Stefano, nome di battaglia Ippo. Non è armato. Nell’operazione, a lui vengono assegnati compiti precisi: osservare ogni movimento nella zona, verificare se il cronista anticipa i suoi spostamenti mattutini, attendere gli altri cinque componenti del commando. Le auto per le vie di fuga sono già parcheggiate nei punti concordati dal piano operativo.
Ore 9,45, Porta Genova.
La Brigata 28 marzo si compone nel piazzale davanti alla stazione ferroviaria. Marco Barbone (Enrico), è il capo militare. Nel giaccone porta una calibro 9 corto con silenziatore montato e una 38 special Smith & Wesson. Mario Marano (Fabio), è armato con una 7,65. Francesco Giordano (Paolo o Cina), carica la sua 357 Magnum. Daniele Laus (Gianni) infila nelle tasche una 38 special. Paolo Morandini (Alberto) è in bicicletta, disarmato. Il gruppo si avvia verso la casa del giornalista.
Ore 10, via Solari.
Il traffico è caotico a quell’ora. I mezzi pubblici di superficie sostano e poi ripartono secondo un programma stabilito. Chi acquista i quotidiani all’edicola, chi si trova nei negozi del quartiere. Nei giardini del parco Solari i cani annusano il prato bagnato e gli alberi in fiore.
La pioggia batte fitta sugli ombrelli aperti.
Tutto sembra normale, ma qui la normalità è solo apparente.
De Stefano si incontra con gli altri del gruppo, abbandona la zona e si reca ad Arona. Barbone e Marano raggiungono l’edicola vicino all’abitazione di Tobagi. Morandini è in bicicletta nei pressi della fermata del tram, proprio di fronte al portone. Giordano, con funzioni da palo, si trova pochi metri indietro rispetto alla posizione di Barbone e Marano, sulla via Solari.
Ore 11,10.
Walter Tobagi esce di casa.
Devia a destra in via Andrea Salaino.
Si porta sul lato sinistro della strada.
Fermiamo la scena.
Via Andrea Salaino.
Alcuni negozi, una fabbrica, un ristorante, una scuola, palazzi signorili e vecchie case popolari.
Barbone con una calibro 9 corto e Marano con una 7,65 silenziata si trovano dietro a Tobagi, quattro o cinque metri di distanza.
Sono in movimento ma i loro passi sembrano felpati.
Il giornalista invece non si accorge di nulla, non si volta indietro, non nota niente di sospetto intorno, una circostanza che possa attirare attenzione. Lui cammina verso il garage di via Valparaiso. Ora è all’altezza di una trattoria in quei pochi centimetri di marciapiede che separano le siepi da una macchina in sosta.
Alcuni colpi di pistola calibro 7,65 fermano il cammino di Walter Tobagi, uno dei migliori giornalisti italiani.
Poche ore dopo giunge la rivendicazione:
<<Oggi, mercoledì 28 maggio, un nucleo armato della Brigata 28 marzo ha eliminato il terrorista di Stato Walter Tobagi, presidente dell’Associazione Lombarda dei Giornalisti. Onore ai compagni caduti per il comunismo. Individuare e colpire i tecnici della casino online controguerriglia psicologica. Niente resterà impunito. Unificare il movimento rivoluzionario costruendo il Partito Comunista Combattente>>
<<Nel Corriere, Walter Tobagi ci entra come uomo di Craxi. Si pone subito come caposcuola di questa tendenza intelligente degli apparati della controguerriglia psicologica, e su queste capacità ha costruito la sua carriera. Ma il ruolo senza dubbio più rilevante lo giocava all’interno del sindacato della corporazione:preso il volo dal Comitato di redazione CORSERA dal 1974, si è subito posto come dirigente capace di ricomporre le contraddizioni politiche esistenti fra le varie correnti. Questa capacità gli ha consentito di giungere al posto di comando del sindacato in uno dei poli più pregnanti dal punto di vista politico>>
Prima di Walter Tobagi era toccato a Carlo Casalegno.
E dopo Casalegno a molti altri giornalisti, feriti alle gambe, colpiti perché avevano il coraggio di scrivere ciò che vedevano, senza filtri, liberamente.
Oggi di Walter Tobagi restano le sue parole.
Quelle che solo leggerle, pesano come macigni. Ancora oggi.
Il giorno dopo l’uccisione del giudice Emilio Alessandrini, assassinato daPrima Linea, Walter Tobagi scrive:
<<…Sarà per quella faccia mite, da primo della classe che ci lascia copiare i compiti, sarà per il rigore che dimostra nelle inchieste, Alessandrini è il prototipo del magistrato di cui ‘tutti si possono fidare, che non combina sciocchezze, (…) era un personaggio simbolo, rappresentava quella fascia di giudici progressisti, ma intransigenti, né falchi chiacchieroni, né colombe arrendevoli.
Il terrorista mira a colpire personaggi che hanno ancora credibilità, la parte buona del sistema, che reagiscono con il ragionamento e senza isterismi cercano di <<Cerco <<Non sono le parole tonanti ma i comportamenti di ogni giorno che modificano le situazioni, danno senso all’impegno sociale: il gradualismo, il riformismo, l’umile passo dopo passo sono l’unica strada percorribile per chi vuole elevare per davvero la condizione dei lavoratori. Ecco la lezione che le dure repliche della storia ripetono ancora una volta.>>
Poi c’è un appunto, un bigliettino, un messaggio da consegnare alle nuove generazioni e alla storia:
<<Che cos’è la paura? Camminare per strada e sobbalzare ad ogni macchina che ti passa vicino, guidare l’automobile e spaventarsi ad ogni moto che ti si affianca. L’altra mattina 30 gennaio, è stata ritrovata una scheda con il mio nome nella borsa tipo 24 ore lasciata da un terrorista in viale Lombardia. Provo una sensazione di angoscia. Questa paura mi accompagna da più di un anno, da quando uccisero Carlo Casalegno e mi toccò di scrivere di brigatisti. L’assassinio di Emilio Alessandrini vuole dire che non valgono più le regole di un anno fa. Nel mirino ora entrano proprio i riformisti, quelli che cercano di comprendere. Mi pare di essere, forse è una suggestione, il giornalista che come carattere e come immagine è più vicino al povero Alessandrini. Se toccasse a me, la cosa che mi spiacerebbe di più è di non avere trovato il tempo per scrivere una riflessione che spiegasse agli altri, penso a Luca e a Benedetta, il senso di questa mia vita così affannosa.>>
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