I CARNEFICI
I CARNEFICI
Daniele Biacchessi (voce narrante, testo, regia)
Giulio Peranzoni (illustrazioni live con tecnica LDP)
Gaetano Liguori (pianoforte)
La festa della crescentina agosto 2014
Una sera di fine estate, sull’Appennino tosco-emiliano, all’acrocoro di Monte Sole, nei comuni di Marzabotto, Grizzana Morandi, Monzuno, in provincia di Bologna, tra i fiumi Setta e Reno.
Al tramonto, i contorni della montagna diventano più marcati e gli alberi disegnano strani chiaroscuri dentro un semicerchio.
Quando le nuvole si diradano, le stelle accompagnano i viandanti lungo un percorso certo e un riparo sicuro, nel rifugio del Poggiolo.
A Monte Sole ci sono gruppi di case sparse che formano un’antica comunità.
Le mulattiere portano fin dentro alla buia macchia, i tratturi fangosi tagliano in due i dirupi. Lungo quegli sterrati, fratelli e sorelle cenobiti della «Piccola famiglia dell’Annunziata» camminano silenziosi e pregano per la pace, ogni sera, dai ruderi della chiesa al piccolo cimitero di Casaglia. Vi è sepolto Giuseppe Dossetti, presbitero, politico, teologo, uno dei padri del Cattolicesimo democratico, a tre metri dal muro della cappella, forato dai colpi contro i civili della mitraglia nazista, il 29 settembre 1944.
Da quelle parti la memoria è cosa viva, ancora oggi.
Una famiglia numerosa si riunisce in un cascinale per una ricorrenza non scritta e codificata.
Non è una festa sacra, né di compleanno, un battesimo o una prima comunione.
È quella che alcuni chiamano la festa della crescentina.
Avete presente la pasta del pane fritta? Quella roba lì, unta e grassa, rosolata nello strutto e tagliata a pezzetti, soffice e gustosa.
La tavola è imbandita, nonna Maria resta in cucina e prepara la pasta insieme alle donne, in un rito che si tramanda di generazione in generazione.
Quella che in alcune parti della provincia di Bologna si chiama crescentina, a Parma prende il nome di torta, a Reggio Emilia e Modena diventa gnocco, intorno a Piacenza si trasforma in chisulèn o burtlèina, ma il sistema per cucinare questa ode al colesterolo è immutato ancora oggi: si setaccia la farina, si aggiungono lievito e latte, si rende l’impasto omogeneo e lo si stende sul tavolo con il matterello, si taglia in rombi di quattro o cinque centimetri, che si friggono nello strutto o nell’olio di arachide.
I ragazzi sono sempre più irrequieti: corrono, schiamazzano a gran voce, mentre fuori, sotto il pergolato ricoperto da ricchi grappoli di uva rossa e bianca, gli uomini bevono il vino, giocano a briscola e comunicano tra loro attraverso strani gesti del volto, delle spalle, degli occhi, delle mani.
Sono giocatori professionisti, che si scambiano messaggi convenzionali: l’asso è una strizzatina d’occhio, il tre è una smorfia della bocca, gli occhi verso il cielo annunciano il re, per la regina si alzano le spalle, la punta della lingua fuori dalle labbra è un fante, l’assenza di briscola è un soffio.
Potrebbero andare avanti tutta la notte, cambiando d’improvviso i loro segnali, tanto per confondere gli avversari.
Ai vincitori vanno i premi offerti dai perdenti: un salame stagionato e un prosciutto crudo da cinque chili.
Il camino è sempre acceso, ma il tiraggio non è dei migliori e si sente un leggero odore di legna bruciata. Nella sala fa caldo e Claudio, uno dei nipoti, si rivolge al nonno: «È ancora estate, dobbiamo tenerlo sempre acceso questo camino?»
E nonno Giuseppe, un uomo autorevole e stimato nella comunità, ex insegnante di storia alle scuole superiori di Bologna, questa volta risponde spazientito: «Sì, deve restare acceso perché la legna è come le nostre parole!»
A un certo punto nonna Maria e le altre donne portano sulla tavola enormi vassoi: davanti ai commensali sfilano la crescentina fumante, porzioni generose di salumi e formaggi di alpeggio, bacili di insalata e verdure, teglie di lasagne e di melanzane alla parmigiana, tortelloni fatti a mano conditi con il ragù, maialino al forno, il pane appena sfornato con la farina del mulino, l’olio del frantoio e, per finire, la brazadela, un dolce lievitato e cotto al forno.
Intanto il nonno sale dalla cantina, portando quattro bottiglie di Pignoletto e Sangiovese, e si siede capotavola, come richiede la tradizione delle famiglie patriarcali.
I ragazzi, più dispettosi che mai, alzano sempre più la voce, indisciplinati, come quei moscerini che d’estate non danno pace, che scivolano in bocca mentre sei sul letto a riposare. Prendono in giro il nonno perché, dicono, racconta solo storie vecchie. Non gli lasciano tregua.
«Sono sempre le stesse storie, nonno… mai nulla di nuovo, sempre quelle!» afferma con tono spavaldo Antonio, il più grande dei nipoti.
Appena finito di mangiare, Giuseppe sprofonda nel divano accanto al camino.
Gli uomini sparecchiano, le donne lavano i piatti.
Il nonno inserisce in una pipa di ciliegio una presa di tabacco secco e forte mischiato a foglie di marasca, la accende rigorosamente con i fiammiferi da cucina e aspira piano.
Poi versa la grappa in un bicchierino: è di quella buona, distillata con l’alambicco che gira di famiglia in famiglia.
Si sposta di taglio rispetto al fuoco. Il suo volto segnato dal tempo ora è illuminato in penombra. I suoi movimenti sembrano studiati, lenti, quasi teatrali. Da anni il suo palco è quella zona della sala ricavata davanti al fuoco: un divano, un tavolino, un blocco degli appunti, una penna stilografica, gli occhiali.
Guarda dritto negli occhi dei ragazzi, spazientito.
«Allora… un po’ di silenzio e di rispetto per favore. Chi non è interessato, invece di disturbare può anche andare fuori, non è obbligato a stare qui!»
Anche quest’anno nonno Giuseppe vuole raccontare una storia che risale all’autunno del 1944, quando sul crinale dell’Appennino tosco-emiliano si combatteva una delle ultime grandi battaglie della Seconda guerra mondiale, quella decisiva, lungo la linea Gotica, o linea Verde, come l’avevano poi chiamata i tedeschi.
Una parte della Toscana era già stata liberata dagli Alleati, Bologna invece restava occupata dai nazifascisti, e in mezzo c’era la linea del fronte, dove, con un binocolo, i partigiani della Brigata Stella Rossa, guidati da Mario Musolesi, nome di battaglia Lupo, potevano intravedere le postazioni degli angloamericani, con i cannoni a lunga gittata assestati da settimane sulle creste dei monti tra Castiglione dei Pepoli e Lagaro, un chilometro e mezzo in linea d’aria, a non più di mezz’ora in bicicletta da Monte Sole.
«Nonno, ma è possibile che con tutte le storie che finiscono bene, e ce ne sono tante, racconti sempre quella che finisce con i bambini fucilati nel cimitero?» ribadisce Antonio.
Ma nonno Giuseppe fa spallucce e tira dritto nella sua narrazione.
Gli uomini rientrano in casa, le donne escono dalla cucina e si siedono intorno al tavolo della sala, davanti al camino che si sta lentamente spegnendo. Sanno che Giuseppe tiene molto alla loro presenza e attenzione e si potrebbe offendere se non lo ascoltassero. Sarebbe una mancanza di stima e di rispetto nei confronti di chi, come lui, ha un ruolo nella comunità, soprattutto per via di ciò che ha vissuto.
Invece i ragazzi non sembrano interessati ed escono alla chetichella, ognuno per i fatti propri. Ma uno di loro non ci sta, rompe le regole del branco.
Il nipote Carlo abita a Milano e a Monte Sole torna in vacanza con la famiglia.
Resta al suo posto, rosicchiandosi le unghie, come se fosse impaziente, però non se ne va. È seduto con il tablet acceso sulle ginocchia, affascinato dalle parole del vecchio.
«Nonno, ma questa è una storia vera o ci metti del tuo?»
«Certo che è vera.»
«Ora cerco le informazioni su internet, lì si trova tutto.»
«Aspetta, verifica se vuoi alla fine, è giusto che tu lo faccia, ma prima ascolta e osserva bene questi documenti.»
Il nonno si alza d’improvviso, apre le ante di un armadio in noce della sala. Dentro c’è la sua memoria. Sono libri piegati e segnati dall’uso, album fotografici, biglietti, appunti, mappe militari ingiallite, cartine geografiche dell’epoca, sentenze di vecchi e nuovi processi, verbali con testimonianze di sopravvissuti, tra cui il suo recente interrogatorio sullo sterminio del cimitero di Casaglia davanti agli uomini della polizia giudiziaria, che portano avanti le ultime indagini contro i criminali nazisti e fascisti responsabili di violenze efferate contro donne, vecchi e bambini.
Nonno Giuseppe impila una parte di quel prezioso e inedito archivio storico sopra il tavolo e inizia a sfogliare le pagine, una a una. Poi si rivolge al nipote.
«Sono uno dei superstiti della strage sull’acrocoro di Monte Sole. Io c’ero la mattina del 29 settembre 1944, lassù, nella chiesa di Casaglia. Ero piccolo, avevo appena dodici anni. Mentre stavano portando tutta quella gente al massacro al cimitero, mi sono salvato lanciandomi in un dirupo scosceso. Uno scatto rapidissimo, nessuno se ne è accorto. Mi è andata bene. Qualche sbucciatura alle gambe e alle braccia, un paio di colpi in testa, nulla di più. Sono uno che è stato testimone di quell’orrore e che oggi non vuole dimenticare. Vedi questi volumi e queste carte? Li ho letti, riletti, e conservati gelosamente per anni dentro questo armadio. All’inizio li archiviavo solo per me, per analizzarli dal punto di vista storico. Poi ho pensato che tutti dovessero conoscere i fatti, che fosse giusto sapere per poter condividere, in particolare con quelli come te, e fare in modo che ciò che ho visto non possa più accadere.
Ai miei studenti del liceo di Bologna ho raccontato per anni queste storie. L’ho fatto per difenderle dall’incuria, dalla mancanza di memoria, dagli effetti del revisionismo e dal rovescismo. Poi ho conosciuto i sopravvissuti agli eccidi, quelli che ancora hanno la mente lucida e non hanno paura di parlare.
E ho incontrato storici, giornalisti, amministratori locali, uomini delle istituzioni, magistrati, giudici, membri di associazioni, cittadini. Li ho incrociati a convegni, spettacoli musicali e teatrali, proiezioni di film, assemblee con gli studenti.
C’è sempre una grande attenzione e commozione, ma resta ancora molto da fare. La nostra testimonianza conferma la verità di quello che è successo. Come dire: ‘Io ho visto perché c’ero’. Quando non ci saremo più, sarà complicato mantenere viva la memoria. Però, se io racconto una storia a te, tu la racconti ai tuoi amici, ai tuoi figli. E fino a che avremo gambe per poter camminare, queste storie non moriranno mai. Ma quando non verranno più raccontate, allora moriranno due volte, insieme alle persone e alle ingiustizie.»
C’è qualcosa di commovente
C’è qualcosa di commovente e inatteso, che provoca un silenzio totale, quasi metafisico, nella bellezza scarna dell’altopiano di Monte Sole. Qualcosa che fa scattare una forma di stupefatto dolore.
Affonda in una coltre di buio immenso, nel peso della Storia.
Camminando lungo i sentieri in quei luoghi incontaminati, tra il verde intenso dei boschi e il marrone delle foglie che cadono preannunciando l’arrivo dell’autunno, si è trasportati nel passato un istante dopo l’altro, immersi in un tempo che fatica a diventare presente e futuro, in una dimensione irreale in cui l’identità sfuma. D’improvviso le voci di uomini e donne, le grida di sofferenza degli anziani e le urla dei bambini si materializzano nella nostra coscienza, in un attimo che pare eterno. È il momento in cui noi diventiamo di colpo memoria vivente.
Quella sera, in particolare, il cielo è stellato, non vi sono nuvole, la luna è quasi piena, i contorni delle montagne sono perfettamente visibili, la temperatura è tiepida. Gli uomini e le donne sono ormai andati a riposare, i ragazzi si divertono a modo loro, lontani, in discoteca.
Dalla camera da letto al primo piano, si sente solo nonna Maria che prega a bassa voce. Il suo rosario è una vecchia nenia che si sussurra ai bambini prima di addormentarsi.
«Madonina bèla bèla, che d in ciel la vins in tèra, partorè un bèl bambin biènc e rass e ricciulin! La Madòna l al portêva, sèn Iusèf e l aiutêva, tòtt i sènt il prêsn amor: sia lodà nostro Signor. I Re Magi i gnénn da vîa, adorêr Gesù Messia, tra la paja in mèz a e fé, il trovònn che steva bén. La Madòna l al cunéva, sen Iuséf e l aiutava, tòtt i sènt il prêsn amor: sia lodà nostro Signor!»
Allora Giuseppe e Carlo si spostano fuori, sotto il pergolato, in punta di piedi, senza fare troppo rumore, per non disturbare quello strano silenzio di fine estate, e restano uno davanti all’altro sullo stesso tavolo dove poco prima gli uomini giocavano a carte. Una lampada a gas illumina i loro volti.
La notte è lunga, Giuseppe parla come un fiume in piena, Carlo non ha sonno e vuole conoscere la grande Storia del suo paese.
Il nonno entra in cucina e mette in un piatto due fette di brazadela della Iolanda. È venuta bene, soffice e deliziosa, come piace a Carlo.
Il vecchio prende fiato, preparandosi a un lungo discorso, finisce la grappa e si volta di scatto verso il ragazzo.
«Quella della 16. SS-Panzergrenadier-Division Reichsführer SS è una storia lugubre e pazzesca, che parte da lontano. Se vuoi te la racconto.»
Soldati di Hitler
Heinrich Himmler, i suoi soldati li vuole biondi e alti, di robusta costituzione, con le teste rasate, lo sguardo fiero, senza zigomi troppo pronunciati che possono richiamare sangue mongolo o slavo, anche solo lontanamente.
Per Himmler, le giovani reclute delle SS devono diventare come l’esercito pretoriano della Roma imperiale: disposti a eseguire ogni ordine in modo risoluto, senza rivolgere troppe domande ai loro capi.
Li sceglie di persona, esaltati e spietati senz’altro dio al di fuori di Hitler: esamina accuratamente le fotografie degli aspiranti candidati e scarta quelli il cui aspetto può apparire stravagante all’occhio tedesco.
Himmler non è proprio l’ultimo gradino della scala gerarchica nazista. È una delle menti della cosiddetta «notte dei lunghi coltelli», l’operazione organizzata tra il 30 giugno e il 2 luglio 1934 per eliminare l’intero vertice delle squadre di assalto naziste (SA), oppositrici del Führer. In soli due giorni vengono epurate tra le centocinquanta e le duecento vittime.
Devi sapere, Carlo, che Himmler è anche il maggiore responsabile della «soluzione finale della questione ebraica», il promulgatore, insieme a Adolf Eichmann e Reinard Heydrich, della campagna di annientamento di ebrei, avversari politici, zingari, omosessuali, malati di mente, attraverso un sistema sofisticato ed efficiente di campi di concentramento e sterminio disseminati dal 1933 al 1945 in Polonia, Austria e Germania.
È lui che plasma un’intera generazione e la mette al servizio di una ideologia affascinante per ragazzi senza valori, se non quelli negativi del potere preso a tutti i costi, dell’annullamento fisico del nemico, dei falsi miti della razza ariana e delle vittime sacrificali, in particolare ebrei, comunisti e socialisti.
Obbliga perfino le sue SS a procreare almeno quattro figli prima di partire per il fronte per incrementare e salvaguardare la Herrenrasse.
Himmler è un fanatico cultore di tutto ciò che è occulto.
Addirittura si autonomina fondatore di un nuovo «ordine pagano », si inventa il mito della reincarnazione di Enrico I, il primo re dei tedeschi, e celebra a Quedlinburg il millenario della sua morte.
Poi viene a sapere di un’antica leggenda legata al castello di Wewelsburg, in Vestfalia, nel circondario di Paderborn, una delle poche fortezze sopravvissute all’assalto degli slavi dell’Est nel Seicento. Con i suoi adepti trasforma le rovine dell’antica costruzione nella sede ideologica e mistica delle SS, che dopo la vittoria finale sarebbe dovuta diventare «il centro del nuovo mondo». Lì Himmler vuole far rinascere i Cavalieri della Tavola Rotonda, che avrebbero dovuto assumere le sembianze di dodici generali delle SS.
Per assicurarsi la manodopera necessaria, Himmler installa nei pressi della fortificazione il campo di concentramento di Niederhagen, dove le condizioni di lavoro sono durissime e le torture sui prigionieri all’ordine del giorno.
Il castello di Wewelsburg è circondato da un muro di un chilometro di diametro, e nella torre Nord, il pavimento è in marmo decorato da un mosaico verde scuro con al centro un disco in oro, il Sole nero.
Sotto la torre c’è la cripta, detta «terra dei morti», una grande sala rotonda con dodici colonne di granito e un soffitto adornato da un’enorme svastica. Qui, in una struttura a forma di pozzo di pietra, secondo il cancelliere del Reich avrebbero dovute essere sepolte le ceneri degli ufficiali SS uccisi in battaglia.
Si narra di strani riti e riunioni notturne celebrate dallo stesso Himmler a Wewelsburg.
Intrisa di simbolismi di morte, la 16. Panzergrenadier-Division è quindi la creatura perfetta di Heinrich Himmler, forgiata a sua immagine e somiglianza.
A Lubiana, nell’attuale Slovenia, comincia la storia della Divisione assassina, che nasce il 3 ottobre 1943, dopo l’armistizio dell’8 settembre, la disfatta del nostro esercito e l’occupazione nazista dell’Italia.
L’idea di Himmler è quella di ampliare la Sturmbrigade Reichsführer-SS, creata nel 1941 come scorta di accompagnamento del Führer, dato confermatomi da Marco De Paolis.
Himmler si fida ciecamente della lealtà dei volontari e dei coscritti arruolati nelle Waffen-SS: la fanteria meccanizzata, il braccio armato delle SS, la riserva implacabile di Adolf Hitler, la truppa scelta dal punto di vista fisico, spirituale, convinta di appartenere a una razza superiore.
Ma razza eletta proprio non è, Carlo, semmai un normale sangue misto. Le reclute sono in larga parte tedesche, austriache, ma anche Volksdeutsche, cioè cittadini tedeschi che vivono fuori dalla Germania: provengono da Alsazia, Lorena, Unione Sovietica, Cecoslovacchia, Polonia, Francia.
Sono ragazzi divenuti soldati troppo in fretta, tutti di un’età compresa tra i diciassette e i vent’anni, facilmente influenzabili sul piano ideologico, sottoposti a una forte pressione psicologica, in pratica un lavaggio del cervello. I loro ufficiali gli mettono in capo un elmetto e sul corpo una divisa con le mostrine, visibili anche da lontano, e la scritta, che li distingue dalle altre Divisioni, «Reichsführer-SS».
Molti di loro vengono subito impiegati come guardie nei campi di concentramento di Dachau, Buchenwald, Sachsenhausen, Neuengamme, Ravensbrück, Lublino, Gross-Rosen e Auschwitz.
Ho studiato a lungo sui libri la Divisione: volevo conoscere la provenienza dei soldati, i loro comportamenti, le idee, il gusto ossessivo per il rito sacrificale, quello della morte.
Gli ufficiali e sottufficiali, per esempio, si formano nei principali gruppi dell’estrema destra tedesca e austriaca, e sono addestrati sul piano militare nella Divisione Totenkopf (teste di morto), una delle più famigerate unità combattenti SS.
La Divisione, ripartita in diversi Kampfgruppen (gruppi di combattimento), formata inizialmente da 12.720 effettivi, giunge in Italia nella zona tra Massa e Livorno, ed è subito imbarcata via nave per la Corsica.
È un viaggio difficile.
Quel tratto di mar Tirreno è in burrasca, le onde sono alte quattro metri, i soldati sono stipati come sardine nelle stive, manca l’aria, l’acqua è poca e mal distribuita, il cibo è pessimo.
C’è chi vomita, chi piange in silenzio, chi ride disperato, chi parla da solo, chi prega, chi scrive sul suo diario, chi mostra al camerata di fianco la foto della sua fidanzata lasciata in Austria o in Germania. Puoi immaginarti in quale condizione versa il pavimento.
Quando la barca giunge a Bastia inizia anche per loro la guerra vera.
In mezzo alla mischia le teorie non bastano più, non servono il culto del magico e il mito della razza pura ed eletta. Lì si combatte davvero, per conquistare postazioni, avanzare o ritirarsi, per salvarsi la vita.
In Corsica, l’obiettivo è attaccare il 7º Corpo d’armata guidato dal generale Giovanni Magli, costituito dalle Divisioni Cremona e Friuli, diventato ormai nemico dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943.
Tra settembre e ottobre 1943, la 16. SS-Panzergrenadier-Division Reichsführer SS difende i porti di Bonifacio e Porto Vecchio e gli aeroporti militari, combatte contro le crescenti forze francesi della 4ª Divisione marocchina di montagna, si distingue nella battaglia di Col de Teghime, nel sud di Capo Corso.
Gli italiani si difendono fino all’ultimo colpo e i giovani soldati delle Waffen-SS saranno anche una élite, avranno anche molto coraggio, ma non sanno combattere contro eserciti di prim’ordine.
Guarda questa immagine.
È la truppa lasciata allo sbando sulla strada per Bastia. I loro carri armati sono distrutti, bruciati, inutilizzabili. È il segno dell’inevitabile sconfitta.
Ecco perché i primi di ottobre 1943, il comando supremo della Wehrmacht ordina al generale Frido von Senger und Etterlin di abbandonare la Corsica e ripiegare subito su Piombino.
Il gruppo torna in Italia e viene smembrato per questioni logistiche: una piccola parte rientra a Lubiana, mentre nel marzo 1944 il rimanente e più numeroso è inviato a Baden, vicino a Vienna e poi in Ungheria orientale, settore di Debrecen, dove è in corso la presa del potere del governo filotedesco dell’ammiraglio Miklós Horthy.
Il 15 maggio 1944, la Divisione si riunisce in Italia, sulla costa dell’alto Tirreno.
Non viene impegnata subito in prima linea, perché i suoi ranghi risultano incompleti e non si è ancora concluso il ciclo di addestramento per il personale più giovane e inesperto.
Tra giugno e luglio 1944, viene definita meglio la sua missione operativa. È trasferita in Toscana per contrastare eventuali sbarchi Alleati e intervenire in combattimento qualora il fronte dovesse spostarsi a nord ma, al di là delle mere strategie militari, i vertici nazisti pensano alla 16. SS-Panzergrenadier- Division come a un gruppo specializzato in crimini contro la popolazione civile, mascherati da rappresaglie antipartigiane.
Devono essere dei veri contabili della morte, al servizio del nazismo.
In pratica, Carlo, il loro obiettivo è mero terrorismo.
Ci sarebbero due modi per combattere
«Ci sarebbero due modi per combattere: il primo con le leggi, il secondo con la forza», esclama a gran voce nonno Giuseppe.
«E in Italia, dal 1943 al 1945, i nazisti che cosa fanno?» domanda ingenuamente Carlo.
«Scelgono la seconda opzione, quella dello stato di eccezione, che si verifica quando il potere costituito – in questo caso la dittatura e la forza di occupazione di un territorio – sospende ogni diritto civile e politico», risponde con sicurezza il vecchio.
«Ma come è possibile? Nessuno si è ribellato? E gli italiani dov’erano mentre i nazisti facevano tutto questo al nostro Paese?» lo incalza Carlo.
«In Italia, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, da una parte si schierano i soldati fascisti e nazisti, dall’altra si formano le prime bande partigiane. I ribelli si posizionano dove possono, dove ci sono montagne, colline, boschi, nelle scuole e nelle fabbriche delle città, praticamente dappertutto. Il loro numero cresce gradualmente nei mesi della lotta di liberazione: sono duemila nel settembre del 1943, e due mesi dopo raddoppiano; nell’aprile del 1944 arrivano a venticinquemila e a ben centotrentamila all’inizio dello stesso mese dell’anno successivo. Alla fine di aprile del 1945 si contano duecentocinquantamila partigiani.
«I ribelli sono comunque una esigua minoranza: la maggior parte degli italiani osserva gli avvenimenti dalla finestra, oppure aderisce alle adunate del regime, riempiendo le piazze all’inverosimile per applaudire Benito Mussolini ai suoi comizi. E tutto ciò avviene perché le istituzioni e gli equilibri degli organi democratici non possono più funzionare, quando lo stato di eccezione tende a confondersi con la regola: lo stesso confine fra democrazia e totalitarismo sembra cancellarsi.
«In Italia, i nazisti realizzano lo stato di eccezione in modo preciso, puntuale, determinato, e lo adottano fin dalle prime ore della loro occupazione. È il terrorismo contro civili inermi non belligeranti», conclude nonno Giuseppe, che si alza dalla sedia sotto il pergolato, entra in casa e tira fuori altri libri. «Adesso ti spiego cosa ha voluto dire, per la nostra gente, lo stato di eccezione.»
Dapprima si sentiva il suono di un organetto
«Dapprima si sentiva il suono di un organetto che si avvicinava lentamente, poi, dai fitti boschi di montagna, dai sentieri impervi che corrono in mezzo ai dirupi, apparivano gli assassini in divisa nazista. Alcuni si camuffavano con del fogliame, altri invece agivano allo scoperto. Altri ancora parlavano in italiano, anzi nel dialetto dell’Appennino bolognese, la nostra lingua», ricorda Giuseppe.
«Il suono di un organetto?» domanda Carlo.
«Sì, a Monte Sole alcuni sopravvissuti raccontano di un nazista che suonava una piccola fisarmonica. A Cerpiano, le SS chiudevano gli ostaggi nell’oratorio e lanciavano bombe a mano attraverso le finestre. Le grida e i lamenti si spegnevano lentamente mentre, nella grande casa padronale che tutti chiamavano ‘Palazzo’, un tedesco suonava tranquillo l’armonium. A Sant’Anna di Stazzema i nazisti calavano precipitosi, accompagnati dal suono di organetti e di canzoni esaltate, e poi dal rumore di nuovi spari e grida di agonia. A Vinca, un soldato suonava l’organetto mentre i suoi commilitoni davano la caccia alla popolazione casa per casa.
«È l’eccidio totale, come scrisse il teologo Giuseppe Dossetti, che nel 1943 si unì alla Resistenza. Non è una furia di vendetta, un raptus di follia omicida; è la negazione radicale dell’umanità. Le stragi compiute dalla Divisione non sono casi isolati, e nemmeno l’aspetto terribile di un certo periodo della storia moderna, ma un punto di svolta, un’era nuova, in cui il progresso tecnologico della guerra, la pianificazione politica, i sistemi burocratici e l’assoluta scomparsa di valori morali si sono combinati per rendere le stragi di massa una possibilità sempre presente.
«I personaggi chiave di questa mattanza di innocenti restano comunque Albert Kesselring, Max Simon, Walter Reder. Ma non sono i soli responsabili», afferma con amarezza il nonno.
È tiepida la notte
È tiepida la notte, sull’acrocoro di Monte Sole. Dai boschi l’umidità non è calata e nonno e nipote restano seduti intorno al tavolo sotto il pergolato.
Per Giuseppe è giunto il momento dei ricordi più duri.
Ora il suo racconto non può rimanere generico e astratto, deve per forza scendere nei particolari, quelli indicibili, più agghiaccianti e truci.
Entra in casa e, da un cassetto di un armadietto nascosto in un ripostiglio della cantina, estrae alcuni album di scatti d’epoca impolverati. Sono lì ormai da troppi anni, è giunto il momento di mostrarli a qualcuno di cui si fida.
Ha messo da parte quelle immagini nel corso di settant’anni.
Da adolescente, si era fatto dare da amici e parenti quelle relative alla strage di Monte Sole. Poi, da adulto, grazie alla collaborazione di istituti storici, associazioni, privati cittadini e sopravvissuti, ha archiviato centinaia di fotografie sugli altri eccidi. Ha ricostruito il percorso di morte della Divisione in un archivio unico nel suo genere. L’idea di Giuseppe è utilizzare quelle immagini a corredo di un libro sulla memoria italiana.
Noi dobbiamo comprendere
«Noi dobbiamo comprendere e trasmettere il senso del vuoto, il dramma dello sterminio.»
Le fotografie scorrono davanti agli occhi di Giuseppe e del nipote
Carlo.
Un’immagine è tratta dall’archivio storico di un quotidiano.
Ritrae un giovane mentre trascina su un sentiero un carrettino dove sono accatastati cadaveri di civili uccisi a Vinca.
Un’altra ritrae un cimitero dove sono radunate alcune persone, davanti a una targa che commemora la strage. C’è chi guarda un contadino che si asciuga le lacrime.
Una foto è scattata poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Una donna tiene in braccio una bambina e tre ragazze camminano nel corso principale. In alto, su un grande striscione bianco, c’è una scritta che sa di memoria viva.
La commozione quasi impedisce al nonno di parlare. Ma Giuseppe non vuole rinunciare a spiegare a Carlo quello che sente.
«Noi dobbiamo superare la tragica contabilità dei morti, far emergere il significato di ferite psichiche e fisiche che hanno condizionato la vita quotidiana di centinaia di migliaia di persone, quasi mai entrate nella memoria ufficiale. Sono elementi difficili da cogliere, che però emergono da spezzoni di testimonianze di noi sopravvissuti. Le vittime non sono soltanto i morti, i feriti e i torturati, ma anche i loro congiunti e le intere comunità colpite. Perché dopo una strage, nulla è più come prima, ricordalo.»
Raccontami la tua vita qui a Monte Sole
«Raccontami la tua vita qui a Monte Sole», lo interrompe Carlo.
Il nonno sorride, finalmente. Tra i suoi ricordi ce ne sono anche di belli.
«Oggi il paesaggio è diverso, perché i lavori per l’alta velocità ferroviaria e l’autostrada Bologna-Firenze hanno cambiato l’aspetto della zona. Ma nel 1944, lungo il corso del fiume Setta, apparivano a tratti le rotaie della cosiddetta Direttissima, in un susseguirsi di buie gallerie, ponti sopraelevati dagli archi altissimi, caselli, piccole stazioni. E ancora: antiche torri, castelli abbandonati, case con le feritoie al posto delle finestre, muri massicci di pietra grezza, tetti con lastre sfaldate, vecchie cascine isolate nei campi tra selve e calanchi, abitazioni ammassate a lato di minuscoli cimiteri erbosi, attorno a chiese dai campanili bassi color mattone. Eravamo un gruppo di amici, tutti più o meno coetanei, la piccola banda di Pian di Setta. Andavamo a scuola lontano e ogni mattina dovevamo camminare parecchio, che ci fosse sole o pioggia, ghiaccio o neve. I tuoi bisnonni, Maria e Giovanni, erano dei bonaccioni, ma erano anche autorevoli. Lei era la classica casalinga emiliana, grande organizzatrice delle cose di casa, cuoca sopraffina. Lui invece era ferroviere, capo della stazione di Grizzana. Aveva rifiutato la tessera del Partito nazionale fascista. Quante gliene hanno fatte patire! Ha pure rischiato di perdere il posto di lavoro, che per noi avrebbe significato la fame. Volevano che facessi una vita diversa dalla loro. Per questo si sono sacrificati, mi hanno fatto studiare e alla fine sono diventato un professore di storia.
«Il fiume Setta, ormai imbrigliato nel bacino del Brasimone, non aveva segreti per noi ragazzi e rappresentava il nostro mare.
Sulle sue rive, il cui livello era deciso più dalla Società bolognese di elettricità che dalla pioggia, d’estate passavamo le nostre giornate facendo il bagno in buche che arrivavano a mezzo metro.
Tiravamo su capanne con le canne di bambù, frugavamo con le mani sotto i sassi per catturare i pesci. Ci accontentavamo davvero di poco: pane e formaggio, un pezzo di crescentina e via a correre sulle rive del fiume. Ma la nostra felicità e innocenza si interruppe nella tarda primavera del 1944. Il fronte era ormai vicino. I bombardamenti degli Alleati si facevano sempre più minacciosi.
I tedeschi erano ovunque, dettavano legge, e i fascisti erano i loro maggiordomi. Di sera ci nascondevamo in anfratti sotterranei.
Quante notti abbiamo passato lì sotto, al buio. La nostra vita diventò un inferno e peggiorò ancora la mattina del 29 settembre 1944, il giorno della strage.»
La notte corre lenta a Monte Sole e le pagine dell’album fotografico di nonno Giuseppe si fanno ancora più dense, perché adesso i luoghi sono noti e i volti delle persone riconoscibili. Nonno Giuseppe si concentra sugli scatti di ciò che oggi resta delle chiese di San Martino e Casaglia, dell’oratorio degli angeli custodi di Cerpiano e del piccolo cimitero di Casaglia, teatro del martirio.
Poi osserva le foto dei preti sterminati dai nazisti. Nel sacrario di Marzabotto ci sono le immagini delle persone trucidate tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 dalle truppe della 16ª Divisione, guidate da Max Simon e Walter Reder.
Le foto dei bimbi che Carlo trova sul sito internet dell’associazione che ricorda le vittime degli eccidi nazifascisti nei comuni di Grizzana, Marzabotto e Monzuno provocano in lui una grande commozione.
Ma come è andata a finire?
«Ma come è andata a finire?
I famigliari delle vittime hanno ottenuto almeno che si sapesse la verità? Sono stati condannati i responsabili di questi terribili eccidi? Come si è comportata la politica? » chiede a bruciapelo Carlo.
«Verità e giustizia sono due concetti che in Italia purtroppo non sono mai andati d’accordo.
Per gran parte delle stragi nazifasciste dal 1943 al 1945 esiste oggi una verità storica, scritta a chiare lettere nei fascicoli dell’armadio della vergogna, così lo ha definito nel suo libro Franco Giustolisi, giornalista d’inchiesta tra i più importanti di questo paese.
Si tratta di un armadio occultato nel Palazzo Cesi, in via degli Acquasparta a Roma, sede della procura generale militare, ritrovato nel 1994, che conservava 695 fascicoli con i nomi e i cognomi dei responsabili di tutti gli eccidi.
Nomi tedeschi e italiani.
Solo dopo il ritrovamento dell’armadio sono stati istruiti i processi, ma dei carnefici condannati molti sono morti e i più vecchi sono ultra novantenni.
Oggi certamente quel ‘Io so’ di Pierpaolo Pasolini in qualche modo si è trasformato in ‘Noi sappiamo’, ma la risposta della giustizia è stata condizionata dalla volontà politica di insabbiare le inchieste e dalla ragion di Stato. E questo è accaduto sia per le vicende del passato, sia in periodi più recenti.
«Per tutti gli eccidi della cosiddetta ‘strategia della tensione’, da piazza Fontana alla strage alla stazione di Bologna, abbiamo una conoscenza storica certa, ma i colpevoli sono stati assolti al termine di lunghi processi e i beneficiari politici si sono solo intravisti durante le indagini. Sono verità scomode, perché la politica avrebbe dovuto ammettere le gravi colpe dei funzionari infedeli, degli apparati dello Stato che hanno protetto testimoni importanti, occultato o distrutto documenti, creato servizi segreti paralleli con licenza di uccidere, archiviato in modo illegale indizi e prove. E tutto in nome della ragion di Stato», risponde Giuseppe.
La notte a Monte Sole è terminata
La notte a Monte Sole è terminata e già si intravede il chiarore dell’alba.
Per lunghe ore, dalla sera alla mattina, l’infaticabile Giuseppe ha raccontato a Carlo le storie della grande Storia. È stata un’impresa faticosa, una lezione affascinante, a tratti forte e impietosa, ma seria e necessaria.
Quello del nonno è un lascito morale ed etico, un testamento composto da libri, documentazione giudiziaria, ricordi personali e condivisi da una comunità colpita negli affetti più cari. Ma più di tutto è un patrimonio da consegnare alle nuove generazioni.
Ora Carlo e Giuseppe sparecchiano il tavolo, riportano nell’armadio della sala tutto il materiale che è servito al racconto, chiudono i libri e vanno a dormire.
Al suo risveglio, Carlo si interrogherà sulle parole del nonno, capirà che è necessaria una presa di coscienza e che le storie che ha sentito gli resteranno addosso tutta la vita. Negli anni, comprenderà che democrazia e pace sono frutto di pratiche quotidiane e di relazioni tra individui, di cittadinanza attiva, di impegno civile.
Carlo scoprirà che oggi Sant’Anna di Stazzema è un borgo antico, quattro case, alcune botteghe, una chiesetta, una quarantina di abitanti. Una vita normale, tranquilla. Come prima della strage.
Ma c’è qualcosa in più.
A Sant’Anna è stato istituito il Parco nazionale della pace, un’area composta dalla chiesa, dal Museo storico della Resistenza, da una faticosa via crucis che raggiunge il Col di Cava, dove è posto il Monumento Ossario. Il museo conserva gli oggetti appartenuti alle circa quattrocento persone trucidate dalla furia nazista: i loro vestiti, le bambole, gli occhiali, i giornali dell’epoca, i portafogli, le monete, gli anelli, gli orecchini.
Ci sono gli scatti del fotografo Oliviero Toscani nella mostra I bambini ricordano. All’ingresso del museo, al termine di una scalinata, c’è la lapide «ad ignominia», su cui è incisa la celebre epigrafe di Piero Calamandrei: lo avrai camerata Kesselring.
Carlo capirà che a Monte Sole si custodisce con la massima cura il ricordo delle ottocento vittime delle barbarie, grazie al Parco Storico Regionale e alla Fondazione Scuola di Pace di Monte Sole, attiva dal 2002, che ha scelto di non conservare la memoria in un monumento o in un archivio nascosto, ma di farla vivere nel presente, con lo sguardo rivolto al futuro.
A Monte Sole arrivano ragazzi da ogni parte del mondo, anche israeliani e palestinesi, che studiano forme e sistemi di convivenza pacifica fra i popoli. Vengono organizzati convegni, seminari, laboratori, spettacoli teatrali, mostre, concerti.
Dalla prossima estate, anche Carlo si iscriverà a quei percorsi formativi e parteciperà ai forum giovanili del museo di Sant’Anna di Stazzema. Conoscerà anche quei simpatici tedeschi dell’associazione Die AnStifter di Stoccarda che, ogni anno, intorno all’anniversario della strage di Sant’Anna, il 12 agosto, portano la loro solidarietà ai famigliari delle vittime.
E camminerà in silenzio, insieme ad altri suoi coetanei, lungo gli antichi sentieri dell’Appennino tosco-emiliano, fino ai ruderi della chiesa di Casaglia, fin dentro il piccolo cimitero, dove il muro scrostato e segnato dal tempo mostra ancora i buchi lasciati dai colpi delle mitragliatrici naziste.
Perché nulla vada mai disperso e dimenticato.
Perché la memoria possa diventare finalmente cosa viva.