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DANIELE BIACCHESSI
STORIE DI EROI BORGHESI
Live Bologna Cinema Perla in solista 11/02/10(audio)
Live Bologna Cinema Perla in solista 11/02/10(video)
GIORGIO AMBROSOLI
Anno 1979.
E’ la sera dell’undici luglio.
L’avvocato Giorgio Ambrosoli è un uomo perbene, di poche parole, un professionista, riservato quanto basta.
Da alcuni anni ricopre un ruolo importante, ma scomodo.
E’ il liquidatore della Banca Privata del finanziere Michele Sindona.
Nel tempo, svelerà i meccanismi dell’economia mafiosa, quella dei colletti bianchi, che si nasconde dietro società pulite, gestite da prestanome.
Gli affari sporchi della mafia politica, quella che non fa rumore, che agisce in silenzio.
La mafia che non si scopre.
11 luglio 1979.
Milano si è svuotata e le ombre della sera sono avvolte da un caldo umido che non ti fa respirare e ti penetra nei polmoni.
Sei amici.
Si conoscono dai primi anni ’70.
Le mogli sono in vacanza con i bambini.
Così decidono di vedersi, come ai vecchi tempi.
Vanno a mangiare al ristorante “ Tre fratelli ”.
Giorgio Ambrosoli è stanco, turbato, ma quella sera sorride, è cordiale, allegro.
Alle dieci e mezzo i sei amici hanno finito di cenare.
In televisione scorrono già le immagini dell’incontro di pugilato tra Lorenzo Zanon e Alfio Rigetti.
Fanno a pugni per conquistare il titolo europeo dei pesi massimi.
La casa più vicina al ristorante è quella di Ambrosoli.
Così ripartono in macchina.
Ora sono davanti al piccolo schermo nell’abitazione dell’avvocato.
Via Morozzo della Rocca numero 1.
Ambrosoli è contento.
Una serata come quella era da tanto tempo che non la trascorreva.
Ci si toglie la giacca, si slacciano le cravatte, ora gli occhi di tutti sono puntati su quei due atleti in calzoncini corti che si stanno picchiando… e come se si picchiano.
Il pugilato distrae: la mente di Giorgio Ambrosoli per un attimo si allontana da quei pensieri che lo assillano ormai da troppo tempo.
Ma un montante secco stordisce Righetti.
Gli occhi lucidi rimangono fissi e tornano i ricordi.
La memoria si dilata, nel tempo.
1971, Banca d’Italia.
Il Governatore Guido Carli convoca Giorgio Ambrosoli.
Gli affida l’incarico di commissario liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona.
Pochi mesi prima, dalle indagini sui conti correnti di Sindona, erano emersi gravi irregolarità e strane operazioni bancarie per miliardi di vecchie lire.
Sindona è assai potente, ha appoggi internazionali, estimatori nel Governo.
Soprattutto in Vaticano.
Ma Ambrosoli cerca la verità.
Ad ogni costo.
La società Fasco di Sindona è una società che ne contiene altre.
Come nel gioco delle scatole cinesi.
E in questo enorme cavallo di Troia si nascondono flussi di denaro sporco, proveniente dal narcotraffico e altri affari illegali.
Centinaia, migliaia di miliardi.
Ambrosoli fa il suo lavoro, fino in fondo.
Scioglie il consiglio di amministrazione della Fasco.
Non accetta i progetti di salvataggio di Sindona proposti da politici e faccendieri.
Accanto a lui c’é Silvio Novembre, maresciallo della guardia di Finanza.
Arrivano minacce.
11 luglio 1979: Zanon e Righetti si stanno picchiando forte.
Il posacenere tracima di mozziconi di sigaretta.
La tensione per l’incontro è alta.
I sei amici urlano, la casa sembra il palazzetto dello sport di Rimini.
L’incontro finisce in parità e il titolo di campione europeo resta a Zanon.
E’ mezzanotte e squilla il telefono.
L’avvocato alza la cornetta.
Dall’altra parte, nessuno parla.
Tutto il silenzio di una linea telefonica collegata investe i nervi dell’avvocato..
Poi l’anonimo mette giù.
Di colpo.
CLIK.
Ambrosoli scende in strada, saluta due amici.
Torneranno a casa a piedi.
Sulla vettura dell’avvocato salgono gli altri tre.
Li accompagna a casa.
Poi torna indietro, parcheggia la sua Alfetta blu davanti a casa.
Scende dalla macchina, sta per chiudere la portiera.
Se nte una voce sottile che giunge alle sue spalle.
“ Il signor Ambrosoli? ”
Tre colpi di Magnum 357 spengono la vita di Giorgio Ambrosoli.
Il passo di un uomo perbene.
I Tribunali accerteranno che William Aricò, killer della mafia italo-americana uccide Giorgio Ambrosoli su mandato esplicito di Michele Sindona.
Giorgio Ambrosoli viene fermato perché rappresenta lo Stato delle regole e della legalità.
E questo molti anni prima di Mani Pulite.
Al funerale dell’avvocato Ambrosoli nessuna autorità in rappresentanza del governo gli rende omaggio.
WALTER TOBAGI
Milano.
Mercoledì 28 maggio 1980.
E’ una fredda mattina di maggio.
Ore 8, via Solari.
Davanti all’abitazione di Walter Tobagi, inviato del Corriere della Sera e presidente dell’Associazione Lombarda Giornalisti, è appostato Manfredi De Stefano, nome di battaglia Ippo. Non è armato. Nell’operazione, a lui vengono assegnati compiti precisi: osservare ogni movimento nella zona, verificare se il cronista anticipa i suoi spostamenti mattutini, attendere gli altri cinque componenti del commando. Le auto per le vie di fuga sono già parcheggiate nei punti concordati dal piano operativo.
Ore 9,45, Porta Genova.
La Brigata 28 marzo si compone nel piazzale davanti alla stazione ferroviaria. Marco Barbone (Enrico), è il capo militare. Nel giaccone porta una calibro 9 corto con silenziatore montato e una 38 special Smith & Wesson. Mario Marano (Fabio), è armato con una 7,65. Francesco Giordano (Paolo o Cina), carica la sua 357 Magnum. Daniele Laus (Gianni) infila nelle tasche una 38 special. Paolo Morandini (Alberto) è in bicicletta, disarmato. Il gruppo si avvia verso la casa del giornalista.
Ore 10, via Solari.
Il traffico è caotico a quell’ora. I mezzi pubblici di superficie sostano e poi ripartono secondo un programma stabilito. Chi acquista i quotidiani all’edicola, chi si trova nei negozi del quartiere. Nei giardini del parco Solari i cani annusano il prato bagnato e gli alberi in fiore.
La pioggia batte fitta sugli ombrelli aperti.
Tutto sembra normale, ma qui la normalità è solo apparente.
De Stefano si incontra con gli altri del gruppo, abbandona la zona e si reca ad Arona. Barbone e Marano raggiungono l’edicola vicino all’abitazione di Tobagi. Morandini è in bicicletta nei pressi della fermata del tram, proprio di fronte al portone. Giordano, con funzioni da palo, si trova pochi metri indietro rispetto alla posizione di Barbone e Marano, sulla via Solari.
Ore 11,10.
Walter Tobagi esce di casa.
Devia a destra in via Andrea Salaino.
Si porta sul lato sinistro della strada.
Fermiamo la scena.
Via Andrea Salaino.
Alcuni negozi, una fabbrica, un ristorante, una scuola, palazzi signorili e vecchie case popolari.
Barbone con una calibro 9 corto e Marano con una 7,65 silenziata si trovano dietro a Tobagi, quattro o cinque metri di distanza.
Sono in movimento ma i loro passi sembrano felpati.
Il giornalista invece non si accorge di nulla, non si volta indietro, non nota niente di sospetto intorno, una circostanza che possa attirare attenzione. Lui cammina verso il garage di via Valparaiso. Ora è all’altezza di una trattoria in quei pochi centimetri di marciapiede che separano le siepi da una macchina in sosta.
Alcuni colpi di pistola calibro 7,65 fermano il cammino di Walter Tobagi, uno dei migliori giornalisti italiani.
Poche ore dopo giunge la rivendicazione:
<<Oggi, mercoledì 28 maggio, un nucleo armato della Brigata 28 marzo ha eliminato il terrorista di Stato Walter Tobagi, presidente dell’Associazione Lombarda dei Giornalisti.>>
Oggi di Walter Tobagi restano le sue parole.
Quelle che solo leggerle, pesano come macigni. Ancora oggi.
Un appunto, un bigliettino, un messaggio da consegnare alle nuove generazioni e alla storia:
<<Che cos’è la paura? Camminare per strada e sobbalzare ad ogni macchina che ti passa vicino, guidare l’automobile e spaventarsi ad ogni moto che ti si affianca. L’altra mattina 30 gennaio, è stata ritrovata una scheda con il mio nome nella borsa tipo 24 ore lasciata da un terrorista in viale Lombardia. Provo una sensazione di angoscia. Questa paura mi accompagna da più di un anno, da quando uccisero Carlo Casalegno e mi toccò di scrivere di brigatisti. L’assassinio di Emilio Alessandrini vuole dire che non valgono più le regole di un anno fa. Nel mirino ora entrano proprio i riformisti, quelli che cercano di comprendere. Mi pare di essere, forse è una suggestione, il giornalista che come carattere e come immagine è più vicino al povero Alessandrini. Se toccasse a me, la cosa che mi spiacerebbe di più è di non avere trovato il tempo per scrivere una riflessione che spiegasse agli altri, penso a Luca e a Benedetta, il senso di questa mia vita così affannosa.>>
MARCO BIAGI
Tu puoi uccidere un uomo.
Puoi seguirlo, pedinarlo, annotare sopra un taccuino ogni suo spostamento, spiarlo anche negli atteggiamenti più affettuosi, magari mentre esce dalla sua abitazione con la famiglia, quando va a fare la spesa, quando accompagna il figlio a scuola, quando è solo in casa e scrive al computer con la luce fioca, puoi perfino sentire ogni suo sospiro.
Tu puoi chiamarlo al telefono giorno e notte, sul suo cellulare e sul fisso, minacciarlo di morte, mettergli paura, mettere in allarme e in forte stato di tensione la sua famiglia.
Tu puoi offrirgli una scorta adeguata, poi toglierla, trasformare tutto questo in un semplice servizio di sorveglianza, alla fine togliergli ogni minima protezione.
Puoi attenderlo mentre scende da un treno e attraversa una piazza, di sera, seguirlo fino al luogo in cui ha lasciato la sua bicicletta, poi inseguirlo, con rapidità, ma in modo silenzioso.
Alla fine puoi assassinarlo e sotterrare il suo corpo, affliggere dolori immensi alla sua famiglia, e dopo la sua morte puoi denigrarlo in pubblico, lasciarlo di nuovo solo, senza neanche una memoria.
Tu puoi fare tutto questo, e altro ancora di indicibile, ma non riuscirai mai ad uccidere le sue idee.
19 marzo 2002.
La primavera a Bologna la senti spuntare ancor prima di Pasqua.
Le colline che proteggono la città cambiano i colori in fretta.
Dal verde dell’erba puoi perfino osservare le sfumature delle foglie degli alberi che stanno intorno.
E i profumi sono già forti nell’aria.
Gli odori e i sapori non sanno di mare ma di Appennino che è terra dura da coltivare.
Sotto i portici, lungo i viali e le direttrici che portano al centro, fin dal mattino, in molti lasciano nei parcheggi le automobili e pedalano in silenzio sopra biciclette lucidate, pitturate di fresco, le più vecchie, con i freni a bacchetta, arrugginite nel corso del tempo. E’ un rito al quale non si può rinunciare.
Del resto Bologna non è poi così diversa da quei paesi che osservi dal finestrino di un treno lungo la via Emilia, dove in bicicletta si gira d’estate e d’inverno.
Allo stesso modo, con le magliette a mezze maniche e il cappotto.
Ci si sposta per comprare il giornale, raggiungere i luoghi di lavoro, i supermercati nei giorni delle grandi spese, a giocare alle carte nei bar al sabato mattina mentre la nebbia sale dai fossi e rende il paesaggio umido e irreale.
Un mezzo pulito, silenzioso, ecologico, pratico.
Marco Biagi ricopre il ruolo di consulente del ministero del Welfare.
Un esperto di mercato del lavoro, un giuslavorista.
Insegna, interviene ai convegni, scrive editoriali sul Sole 24 Ore, programma leggi e politiche governative.
Un uomo assai conosciuto nel suo ambiente di professori e studiosi ma lontano dai riflettori della politica nazionale.
Biagi è un gran pedalatore.
Uno che macina parecchi chilometri al giorno. Bologna è la sua città e anche per lui la bicicletta è una passione.
Qualcosa di più di una semplice necessità.
Sopra le due ruote pedala da quando aveva ancora i calzoni corti.
E quelle strade di Appennino le conosce a memoria, curva dopo curva. Le salite, la pianura, le risalite e le lunghe discese.
Le può affrontare quasi ad occhi chiusi, prendendo fiato, caricando di aria i polmoni, premendo forte sui muscoli delle gambe, sui polpacci, azionando i rapporti del cambio per raggiungere la giusta velocità, quella che permette il massimo risultato con il minimo sforzo.
Ma pedalare costa fatica e allenamento.
Non basta solo la passione.
Dicono che certe domeniche Biagi salga sui tornanti del Mongardino, toccando la Crocetta e il Fossato.
Da solo o con gli amici di sempre.
Dicono quelli che lo conoscono bene.
Un uomo e la sua bicicletta.
E’ dunque l’immagine di quella fredda sera italiana.
E’ solo Marco Biagi.
Lui pedala dalla stazione a via Valdonica, una stradina stretta, intorno a vicoli, piazzette, antichi cammini, tra palazzi del Quattrocento e negozi moderni..
Si trova nel ghetto ebraico.
Su quella bicicletta porta una borsa di pelle nera, carica di documenti, ricerche, articoli già pronti, relazioni, idee e progetti.
Delle sue abitudini, i brigatisti conoscono ormai tutto.
Lo pedinano a Bologna, fin sotto la sua abitazione.
Lo cercano a Roma dove si reca per le consulenze al ministero del Welfare.
Non lo perdono di vista a Pianoro e Marina di Ravenna dove passa l’estate.
Neppure a Modena, dove insegna diritto del lavoro all’Università.
Ciak, prima scena
Alle 13,30, Marco Biagi prende il treno alla stazione di Bologna e si reca a Modena.
Tiene le sue lezioni, esamina incartamenti, legge libri, effettua qualche telefonata, accende il computer e controlla la posta elettronica.
Poi intorno alle 18, 30 esce dal portone principale dell’Ateneo, si reca allo scalo ferroviario e attende il treno interregionale per Bologna.
Ora si trova proprio sotto la pensilina.
Da Modena, probabilmente, un terrorista non ancora identificato avverte con il telefono cellulare Diana Blefari Melazzi, nome di battaglia Maria, staffetta del commando già operativo a Bologna.
Ciak, seconda scena
19,41. Marco Biagi scende dalla carrozza e cammina lungo il binario 1 del piazzale ovest della stazione di Bologna.
Si dirige verso l’uscita, poi volta a destra verso la saletta degli Eurostar.
Ciak, terza scena
19,41, stessa ora.
Cinzia Banelli, nome di battaglia Sonia, attiva la Sim Card acquistata giorni prima a Roma.
E’ montata su un cellulare, comprato a Bologna, configurato per computer quindici giorni prima.
Cinzia Banelli chiama l’operatore.
L’impulso viene captato e registrato dalla cella telefonica bis di via Mentana che copre gran parte del centro città, compresa l’abitazione di Marco Biagi.
L’attivazione della scheda viene compiuta pochi minuti prima e a pochi metri dal luogo dell’omicidio.
Come per trasmettere un messaggio: siamo noi, quelli delle Brigate Rosse.
Ciak, quarta scena
Alle 19,53, il professore esce dalla saletta Eurostar con il biglietto per Roma del giorno dopo.
Poi cammina a piedi ed esce dalla stazione.
Le telecamere della Polizia Ferroviaria sono sempre accese.
Quando è sera funzionano con i raggi infrarossi.
Così gli uomini non sono più ombre che camminano, i loro contorni restano ben visibili e in primo piano.
Biagi é alto, con i capelli argentati.
E’ inconfondibile, non ci si può sbagliare.
Lui attraversa la piazza, attende il verde del semaforo e taglia di traverso la strada.
Entra nella Galleria Due Agosto.
Lì ritrova la sua bicicletta.
E’ chiusa con due lucchetti, appoggiata ad un cartello stradale. La sua borsa è poco accanto al manubrio.
Ciak, quinta scena
Diana Blefari Melazzi, pure lei in bicicletta, si accerta che il professore sia partito.
Con la ricetrasmittente, scandisce agli altri componenti del commando il percorso abituale di Marco Biagi. Il suo ultimo tragitto.
La sagoma di Biagi viene ripresa più volte dagli impianti televisivi a circuito chiuso di banche, società, istituzioni.
<<Via Indipendenza, Piazza Otto Agosto, via Marsala, Piazza San Martino, via Valdonica.>>
Ciak, sesta scena
Mario Galesi, nome di battaglia Paolo e Roberto Morandi, nelle BR conosciuto come Luca, sono già sotto l’abitazione di Marco Biagi. Indossano i caschi integrali. Quello di Galesi è color bianco, più scuro quello di Morandi. Attendono il professore sopra un motorino color verde scuro. Cinzia Banelli è ferma sulla sua bicicletta in piazza San Martino. Nadia Desdemona Lioce, nome di battaglia Rosa, pure lei in bicicletta, si trova verso via Zamboni, tra via Valdonica e vicolo Luretta. Diana Blefari Melazzi è posizionata tra vicolo Luretta e via Marsala.
Ciak, settima scena
Lorenzo, figlio di Marco Biagi, ha appena finito i compiti e attende il ritorno del padre.
Francesco, figlio di Marco Biagi, raggiunge via Valdonica con il suo scooter Malaguti.
Lo parcheggia davanti al portone.
I brigatisti assistono alla scena.
Francesco sale le scale di casa.
Va di fretta. Deve prendere la borsa per la partita di basket.
Ciak, ottava scena
Sono le 20,10.
Il freddo di marzo comincia a pungere davvero e la scena dell’omicidio è fulminea.
Marco Biagi si trova davanti al portone, posa la borsa di pelle nera, sta per infilare le chiavi nella toppa…
Solo una voce acuta giunge alle sue spalle.
<<Professore….ehi professore>>
Ciak, nona scena
Il primo proiettile della pistola semiautomatica di Mario Galesi si conficca sul muro di via Valdonica.
Gli altri cinque trafiggono il corpo di Marco Biagi.
L’arma è una Makarov marcata Carl Walther 9×17 tipo corto.
Il brigatista utilizza la tecnica del sacchetto di plastica fissato in qualche modo sul lato destro della canna, poco sopra il calcio. Ma il meccanismo funziona solo quando l’arma è orizzontale. Galesi invece spara dall’alto verso il basso. Così i bossoli non vengono trattenuti e cadono in terra. Tre di loro vengono ritrovati dagli inquirenti, oltre al proiettile finito sul palazzo.
Mario Galesi e Roberto Morandi fuggono con il motorino verso Piazza San Martino e via Marsala.
Cinzia Banelli accende la ricetrasmittente e chiude l’azione:
<<Buonanotte>>
Quando viene ucciso dalle Brigate Rosse- Partito Comunista Combattente, Marco Biagi ha 51 anni.
E’ sposato con Marina Orlandi e ha due figli maschi: Lorenzo e Francesco.
Dal 2001 è membro del Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro.
E’ impegnato nel suo ruolo di consulente del ministero del Welfare guidato da Roberto Maroni.
Professore di diritto del lavoro nel dipartimento di economia aziendale dell’università di Modena e Reggio Emilia, Biagi è anche l’editorialista del Sole-24 Ore sui temi del mercato del lavoro.
L’obiettivo scientifico e culturale di Marco Biagi è modernizzare il diritto del lavoro in chiave europea, armonizzare le leggi in vigore nel nostro paese con quelle degli altri stati membri dell’Unione. Un’impresa non facile.
Da pochi mesi,l’Europa è infatti una realtà economica con l’avvento dell’euro ma stenta a divenire un unione politica.
Con questo spirito lavora prima con Tiziano Treu al ministero del Lavoro, poi con Gabriele Albertini e Stefano Parisi per il Patto di Milano del ’99,infine approda al ministero con Roberto Maroni.
Offre un contributo decisivo alla stesura del “Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia.
Proposte per una società attiva e per un lavoro di qualità”. A lui e Tiziano Treu appartiene il progetto dello “Statuto dei lavori”, il passaggio dallo Statuto dei lavoratori degli anni ’70, alle tutele per i nuovi lavori, quelli cosiddetti “atipici”.
Un uomo mite, un moderato.
Sul piano politico fa parte della tradizione dei riformisti.
Cattolico praticante, si avvicina ai socialisti.
E’ nel gruppo bolognese del Movimento per il lavoro di Labor, negli anni ‘70.
Alle elezioni amministrative del ’99, Biagi si candida per lo Sdi nello schieramento di centrosinistra contro Giorgio Guazzaloca.
Poi diviene simpatizzante della Margherita.
Del progetto di unire le forze centriste dell’Ulivo è un attento osservatore:partecipa ad uno dei congressi di fondazione e alle elezioni politiche del 2001 vota per il partito di Prodi.
Biagi è anche consulente della Confindustria: contribuisce alla definizione del documento sulla competitività presentato nel 2001 a Parma.
Frequenta il gruppo dell’Arel di Beniamino Andreatta e Enrico Letta.
La mancata protezione dello Stato a Marco Biagi resta ad oggi il vero buco nero dell’inchiesta.
E’ una storia che parte da lontano e solo a raccontarla mette i brividi.
6 luglio 2000.
E’ il giorno del fallito attentato alla sede della CISL di Milano di via Tadino.
Il documento di rivendicazione è firmato Nucleo Proletario Rivoluzionario.
Contiene un passaggio specifico al lavoro svolto da Marco Biagi, il cosiddetto <<Patto di Milano per il lavoro>>, che il professore disegna insieme al sindaco di Milano Gabriele Albertini e al direttore della Confindustria Stefano Parisi.
Scattano i primi provvedimenti di protezione nei confronti di Biagi. Il Questore Giovanni Finazzo comunica al suo collega bolognese Romano Argenio che Marco Biagi è nel mirino dei terroristi.
Gli viene affidato il servizio scorta: dal 25 luglio all’11 settembre 2000 si estende a Bologna, Milano, Roma e Modena.
9 giugno 2001.
Marco Biagi non ha più un servizio di protezione adeguato a Roma. E il 2 luglio, Marco Biagi invia una mail al sottosegretario al ministero del Welfare Maurizio Sacconi.
<<Caro Maurizio, consentimi di ricordarti di intervenire su quanti hanno revocato la mia tutela a Roma(confermata invece in altre parti d’Italia):penso al Prefetto, ma sarebbe meglio agire sul ministero dell’Interno e spiegare chi sono, cosa ho fatto e cosa sto facendo. Mia moglie (come me) allarmatissima e sarà difficile riprendere le collaborazioni al ministero senza adeguata protezione. La mia richiesta precisa:trasformazione del servizio da tutela (una buffonata) in scorta vera e propria ti prego di aiutarmi con la massima urgenza e determinazione. A domattina alle 8 da te.>>
Lo stesso giorno, Biagi spedisce un messaggio a Stefano Parisi, direttore della Confindustria.
<<Caro Stefano, consentimi di ricordarti di intervenire con la massima urgenza sul Questore (come dicevi, ma meglio sarebbe il Prefetto) per ripristinare la mia tutela anche su Roma (confermata nel resto d’Italia). Mia moglie è allarmatissima ed anch’io sono molto preoccupato. Voglio continuare a fare le cose che ci piacciono ma non vorrei che le minacce di Cofferati (riferitemi da persona assolutamente attendibile) nei miei confronti venissero strumentalizzate da qualche criminale. A risentirci domattina.>>
15 luglio 2001.
Biagi invia al Presidente della Camera Pierferdinando Casini un messaggio preoccupato.
<<Caro Presidente, devo chiederti aiuto per la mia sicurezza personale. Da un anno sono sottoposto a regime di tutela-scorta. Poiché collaboro con la Giunta Albertini a Milano e sono l’estensore tecnico del “Patto per il lavoro di Milano”, la DIGOS di varie città mi ha preso in consegna contro il rischio di possibili attacchi terroristici.Il timore è che si ripeta con me un caso D’Antona. Ti lascio immaginare come possa vivere tranquilla la mia famiglia. Ora collaboro anche con Confindustria e Cisl, nonché con lo stesso ministro Maroni, realizzando sul piano tecnico una strategia di flessibilità sul lavoro. Sono molto preoccupato perché i miei avversari criminalizzano la mia figura. Per ragioni che ignoro a Roma da dieci giorni è stata revocata la scorta-tutela e tutte le volte che vengo nella capitale sono molto allarmato.Ti chiederei la cortesia di fare il possibile affinché, continuando il mio impegno tecnico di cui sopra, io venga tutelato a Roma come a Milano, Bologna, Modena ed in genere in tutta Italia. Mi piacerebbe parlarti dieci minuti: se la tua segretaria ci potesse organizzare un incontro anche brevissimo ti sarei molto grato. Ti prego di non fare parola con tua mamma sulla questione confidenziale che ti ho prospettato perché mia mamma ne è all’oscuro.In ogni caso a Ferragosto sarò a Lizzana.>>
20 luglio 2001.
Biagi denuncia la prima minaccia telefonica.
29 agosto 2001.
Biagi riceve altre strane chiamate nella residenza estiva di Pianoro, nell’abitazione di via Valdonica 14 a Bologna, all’università di Modena e nella casa di Marina di Ravenna.
1 settembre 2001
Il professore spedisce al Prefetto di Bologna Sergio Iovino una missiva dai toni forti e accesi.
<<Egregio signor prefetto, mi rivolgo a lei per segnalarle tutta la mia preoccupazione per la mia condizione. Mentre infatti la mia collaborazione con il Ministro Maroni è stata formalizzata e si è avviata con molta intensità,ho ricevuto questa estate alcune telefonate anonime da cui si comprende facilmente che l’interlocutore è al corrente di alcune mie attività per il Ministro,nonché dei mie spostamenti fisici. Ieri sera, poco dopo che il personale della DIGOS si era allontanato dalla mia abitazione estiva, una telefonata anonima mi avvertiva di aver consapevolezza dell’allontanamento. Credo che la cosa si commenti da sola. Il Ministro Maroni mi ha mostrato una lettera indirizzata al Prefetto di Roma. Infatti in quella città dove ormai mi reco abitualmente io sono tuttora privo di qualsiasi tutela. Ho la sensazione, signor Prefetto che la mia situazione sia ampiamente sottovalutata. Ne ho parlato con il Presidente Casini il quale ne ha parlato al dott. De Gennaro. Continuo a segnalare queste telefonate e da parte della DIGOS non vengo informato di eventuali attività investigative. Ho anche l’impressione che la mia persona costituisca a Bologna una sgradita incombenza. Lo affermo perché è ben diverso il clima di cortesia e di collaborazione nei miei confronti che si è instaurato in altre città come ad esempio Milano, Modena e Ravenna. Ormai troppe volte mi sono rivolto a Lei per segnalare questo stato di cose. Non mi resta di esprimerle la mia preoccupazione e la mia profonda delusione per quella che secondo me è una chiara sottovalutazione dello stato di pericolo in cui mi trovo.>>
12 settembre 2001.
Il Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza di Bologna decide di non ripristinare la scorta a Marco Biagi.
15 settembre 2001.
Il ministro dell’Interno Claudio Scajola diffonde una circolare con cui si taglia il 30% dei servizi di tutela e scorta. Biagi non ha più alcun tipo di protezione. Sono i giorni in cui sta perfezionando il <<Libro bianco sul mercato del lavoro>>.
23 settembre 2001.
Marco Biagi tenta così l’ultima carta. Invia un messaggio al ministro del Welfare Roberto Maroni, per conoscenza al Prefetto di Bologna Sergio Iovino.
<<Caro ministro,desidero informarla che oggi ho ricevuto un’altra telefonata minatoria da un anonimo che asseriva perfino di essere a conoscenza dei miei viaggi a Roma senza protezione alcuna, ancora una volta cercando di intimorirmi in relazione alle mie attività di progettazione svolte su Suo incarico e del sottosegretario Sacconi. Desidero assicurarla che non intendo desistere dalla mia attività con il Suo ministero. Nel contempo vorrei rappresentarle tutta l’urgenza affinché vengano presi provvedimenti adeguati. Invio la lettera anche al Prefetto di Bologna in quanto tali telefonate si susseguono nella città dove risiedo. Qualora dovesse malauguratamente occorrermi qualcosa,desidero si sappia che avevo informato inutilmente le autorità di queste ripetute telefonate minatorie senza che venissero presi adeguati provvedimenti.>>
8 marzo 2002.
Il possibile obiettivo suggerito dai servizi segreti nel loro relazione semestrale sembra il ritratto perfetto del consulente del ministero del Welfare:
<<L’attività di intelligence in direzione dell’eversione interna resta prioritariamente rivolta verso la minaccia proveniente dalle Brigate Rosse-Partito Comunista Combattente e dai gruppi che ad esse si ispirano, in ragione del perdurante proposito di rilanciare la lotta armata ancorandola a strumentali interpretazioni di eventi interni ed internazionali…..I terroristi stanno stimolando un percorso operativo che coniuga forte proiezione internazionalista e decisa ostilità nei confronti della compagine governativa per le sue scelte in materia di politica economica….. Nel mirino dei nuovi interventi offensivi ci sono le personalità politiche, sindacali ed imprenditoriali maggiormente impegnate nelle riforme economico-sociali e del mercato del lavoro e, segnatamente, quelle con ruoli chiave in veste di tecnici e consulenti.>>
12 marzo 2002.
Il CESIS, Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e di Sicurezza, invia all’allora ministro Franco Frattini una missiva destinata a tutti i dicasteri.
Ogni ministro è invitato a suggerire elementi utili ai servizi segreti sul piano della sicurezza interna.
15 marzo 2002.
La lettera del CESIS giunge al ministero del Welfare.
Viene però protocollata solo tre giorni dopo perché in mezzo c’è il week end.
19 marzo 2002
Il ministero del Welfare predispone la risposta ai servizi segreti.
Nella lettera sono scritti i nomi dei possibili bersagli dei terroristi: il sottosegretario Maurizio Sacconi, l’avvocato Paolo Sassi e Marco Biagi.
Il file viene chiuso alle 20,15.
Ormai, proprio a quell’ora, Marco Biagi e’ già stato ucciso dalle Brigate Rosse.
Le idee non sono giuste, neppure sbagliate.
In democrazia, nascono dal bisogno di cambiare, trasformare lo stato delle cose, le leggi e perfino le regole.
Sono progetti che a volte l’uomo elabora con altri uomini, spesso invece in totale solitudine.
Un lavoro continuo di ricerca e studio, indirizzato verso obiettivi, offre alla fine infinite possibilità di sviluppo e conoscenza.
Ma le riforme, si sa, non sempre vengono realizzate.
Perché ci vuole una trattativa con le parti sociali e il consenso unanime dei protagonisti.
Non basta soltanto la volontà delle forze politiche e dei Governi in carica.
Bisogna avere dentro una spiccata propensione alla mediazione.
Convincere gli altri che i tuoi progetti sono efficaci e servono al Paese.
Solo così quelle idee si potranno trasformare in atti concreti, in modifiche radicali e strutturali, in leggi.
Significa che ognuno deve fare un passo indietro per compierne due in avanti.
Questo è il significato del riformismo in una società moderna e avanzata.
Tradurre in pratica le intuizioni con il concorso di tutti, cittadini compresi.
Altrimenti le scelte sarebbero viste da gran parte della popolazione come regole imposte dall’altro o peggio come un vero imbroglio. Governare, non comandare.
Come intendeva operare Marco Biagi, un riformista.
Proprio i riformisti e il loro riformismo hanno sempre colpito gli uomini delle Brigate Rosse.
Prima di Marco Biagi avevano ucciso nel 1999 Massimo D’Antona, consulente dell’allora ministro del lavoro Antonio Bassolino.
E a Forlì, undici anni prima, erano entrati nell’abitazione di Roberto Ruffilli, senatore ed esperto di riforme istituzionali, sparandogli in faccia numerosi colpi di mitraglietta Skorpion.
Negli anni Settanta e Ottanta la stessa sorte è toccata ad altri riformisti come Ezio Tarantelli, Vittorio Bachelet, Guido Galli, Emilio Alessandrini, Aldo Moro, giornalisti come Walter Tobagi e Carlo Casalegno e decine di poliziotti, carabinieri, guardie carcerarie, primari di ospedale, magistrati, giudici, avvocati, semplici passanti.
Gli anni di piombo……..
Una lunghissima scia di sangue che dal 1968 ad oggi ha lasciato a terra e senza vita 131 persone, oltre 2 mila i feriti.
Per tutte queste azioni oltre 4mila persone sono state condannate dai tribunali per omicidi, ferimenti, rapine di autofinanziamento, fatti in stretto collegamento con un’associazione sovversiva e di banda armata. Almeno 20 mila persone sono state indagate e poi prosciolte in sede giudiziaria, 100mila persone hanno dialogato con le organizzazioni della lotta armata.
Una guerra che i terroristi avevano dichiarato contro lo Stato, contro la democrazia, per spostare indietro l’orologio della storia, fermare il cammino delle riforme.
Ma non ci sono riusciti, non hanno vinto.
Perché la forza della democrazia è stata più forte del loro piombo e delle armi.
La forza della democrazia, della ragione e delle idee.
Tu puoi uccidere un uomo.
Puoi seguirlo, pedinarlo, annotare sopra un taccuino ogni suo spostamento, spiarlo anche negli atteggiamenti più affettuosi, magari mentre esce dalla sua abitazione con la famiglia, quando va a fare la spesa, quando accompagna il figlio a scuola, quando è solo in casa e scrive al computer con la luce fioca, puoi perfino sentire ogni suo sospiro.
Tu puoi chiamarlo al telefono giorno e notte, sul suo cellulare e sul fisso, minacciarlo di morte, mettergli paura, mettere in allarme e in forte stato di tensione la sua famiglia.
Tu puoi offrirgli una scorta adeguata, poi toglierla, trasformare tutto questo in un semplice servizio di sorveglianza, alla fine togliergli ogni minima protezione.
Puoi attenderlo mentre scende da un treno e attraversa una piazza, di sera, seguirlo fino al luogo in cui ha lasciato la sua bicicletta, poi inseguirlo, con rapidità, ma in modo silenzioso.
Alla fine puoi assassinarlo e sotterrare il suo corpo, affliggere dolori immensi alla sua famiglia, e dopo la sua morte puoi denigrarlo in pubblico, lasciarlo di nuovo solo, senza neanche una memoria.
Tu puoi fare tutto questo, e altro ancora di indicibile, ma non riuscirai mai ad uccidere le sue idee.
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