Teatro Civile
DANIELE BIACCHESSI
TEATRO CIVILE
Il testo è tratto dal libro “Teatro civile” di Daniele Biacchessi (Verdenero, 2010)
RECENSIONI
LIVE & READING
Live Reggio Calabria Teatro Odeon 27/11/10 (audio)
Live Tavazzano Teatro Nebiolo con Gaetano Liguori 12/11/10 (audio)
Live Cavriago Biblioteca Introduzione 14/10/10 (video)
Live Cavriago Biblioteca Sant’Anna e Monte Sole 14/10/10 (video)
Live Cavriago Biblioteca Ustica 14/10/10 (video)
Storie di Resistenza
24 luglio 1943, ore 17: inizia la riunione del Gran Consiglio del Fascismo, organismo costituzionale e direttorio politico del Partito Nazionale Fascista, PNF. Alle 3 di notte del 25 luglio, viene approvato l’ordine del giorno dei gerarchi Giuseppe Bottai, Dino Grandi e Galeazzo Ciano, il quale prevede la restituzione dell’alto comando al Re. Benito Mussolini viene destituito e subito arrestato.
25 luglio, ore 22:45: il popolo italiano apprende dalla radio che il Re ha assunto il comando supremo delle Forze Armate e il maresciallo Pietro Badoglio il governo militare del paese con pieni poteri. Poco dopo Badoglio indica già le sue prime direttive: «… la guerra continua e l’Italia resta fedele alla parola data… chiunque turbi l’ordine pubblico sarà inesorabilmente colpito».
Benito Mussolini viene trasferito per tre giorni alla caserma della Legione Allievi Carabinieri, nel quartiere Prati di Roma. Poi spostato via mare nelle isole di Ventotene, Ponza, Maddalena. Infine, rinchiuso in una cella a Campo Imperatore, sorvegliato da duecentocinquanta uomini tra carabinieri e guardia di finanza.
Ovunque, nelle città e nei paesi, manifestazioni di piazza salutano la caduta del regime fascista. La repressione dell’esercito è limitata, ma si registrano comunque numerosi morti tra operai, studenti e contadini. A Milano il Comitato delle opposizioni interpartitiche richiede la liquidazione totale del fascismo, la conclusione dell’armistizio con gli anglo-americani, il ripristino delle libertà civili e politiche, la liberazione dei detenuti, la costituzione di un governo composto da tutti i partiti antifascisti.
3 settembre 1943: a Cassibile, in Sicilia, viene firmato il testo del breve armistizio tra il generale Giuseppe Castellano, per conto del maresciallo Pietro Badoglio, e il generale Walter Bedell Smith, per conto di Dwight D. Eisenhower, comandante supremo delle forze alleate nel Mediterraneo.
8 settembre 1943, ore 19:45: dopo cinque giorni di lunghe ed estenuanti trattative, Pietro Badoglio annuncia l’armistizio dai microfoni dell’E.I.A.R.: «Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la schiacciante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi danni alla nazione, ha chiesto l’armistizio al generale Eisenhower… La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza».
9 settembre 1943, ore 5:10: il Re, la famiglia reale e Pietro Badoglio, seguiti da un corteo di generali e funzionari, abbandonano Roma diretti a Pescara, dove li attende una corvetta che li trasporta in Puglia. L’Italia è ormai occupata da ore dai nazisti. L’esercito regolare muore schiacciato da una guerra più grande delle sue possibilità militari, abbandonato a se stesso nelle ore dell’agonia, dal Re e dal comando supremo militare. Gli ufficiali di professione attendono ordini che non arriveranno mai. I soldati sfondano le porte, escono dalle camerate, abbandonano le caserme, le armi pesanti e leggere, i mezzi, i “muli di Badoglio”, barattano per pochi soldi ogni abito borghese, ogni via di scampo, ogni ritorno a casa. L’Italia si trasforma in un’immensa retrovia dove i soldati fuggono e si nascondono nelle case di famiglia, nei boschi, nelle valli, tra sentieri impervi e piccoli borghi e rifugi di montagna.
Il governo regio fuggiasco a Brindisi crede di poter tornare entro pochi giorni a Roma alla guida del paese. Ma i nazisti scambiano la disfatta dell’esercito in quella di un’intera nazione, tanto che nel comunicato del comando supremo tedesco si avverte l’orgogliosa sicurezza di chi pensa di non avere più un nemico, perché le forze armate italiane non esistono più. Intanto, il feldmaresciallo Erwin Rommel liquida le nostre armate al Nord, il feldmaresciallo Albert Keserling quelle del Sud, mentre si oppone alle forze anglo-americane, sbarcate a Salerno e Taranto.
E allora? Allora inizia la Resistenza. La guerra dell’Italia partigiana incomincia proprio quando termina la guerra del regime. L’armata ribelle si forma dopo la disfatta di quella regia e fascista. All’inizio sono poche migliaia di persone. In certi luoghi di montagna, mentre scendono a valle i soldati dell’esercito in rotta, risalgono gruppetti di studenti universitari, operai delle fabbriche delle città, ufficiali del corpo degli alpini, intellettuali, scrittori, giornalisti, professionisti affermati, contadini. La minoranza del settembre 1943 è l’avanguardia di una Resistenza che ha radici lontane: nelle fabbriche, nei campi, nelle scuole, nelle prigioni, tra i fuoriusciti in Francia e i confinati a Ventotene, fin dentro l’esercito fascista. I Comitati di opposizione interpartitici diventano Comitati di Liberazione Nazionale, CLN. Persone con idee diverse, spesso contrapposte, ma unite da un’idea comune: organizzare la lotta armata contro gli occupanti tedeschi.
13 settembre 1943: la radio tedesca annuncia la liberazione di Benito Mussolini dalla sua prigione, un albergo sul Gran Sasso d’Italia. Il giorno dopo il Duce va a Rastenburg, in Germania, in aereo. Hitler lo attende davanti al bunker. Mussolini è nelle sue mani, il Führer è il suo padrone politico e militare. Il Duce è ormai un fantoccio del Terzo Reich.
18 settembre 1943: da Radio Monaco, Benito Mussolini riprende le redini del “nuovo fascismo” nato sotto l’ombrello nazista: «Riprendere le armi a fianco della Germania e del Giappone, nostri alleati… preparare senza indugio le nostre Forze Armate attorno alle formazioni della Milizia… eliminare i traditori…».
Nell’Italia occupata dai nazisti nasce lo Stato fascista repubblicano, poi denominato Stato nazionale repubblicano d’Italia, infine Repubblica Sociale Italiana, RSI.
Si forma la Repubblica di Salò: Rodolfo Graziani alla Difesa, Guido Buffarini Guidi agli Interni, Fernando Mezzazoma alla Cultura popolare, Domenico Pellegrini Giampiero alle Finanze, Carlo Peverelli alle Comunicazioni, Carlo Alberto Biggini all’Educazione nazionale, Antonio Tringali Casanova alla Giustizia, Ruggiero Romano ai Lavori pubblici, Francesco Maria Barracu sottosegretario alla Presidenza, l’ammiraglio Antonio Legnani alla Marina, il generale Carlo Botto all’Aeronautica.
Da una parte si schierano i soldati della repubblichina, dall’altra prendono forma le prime bande partigiane. I ribelli si posizionano sopra Boves (teatro della prima strage nazifascista nel nostro paese), tra i laghi Maggiore e di Como (all’hotel Meina vengono trucidati un gruppo di ebrei), sulle Prealpi venete, sopra Sassuolo, sul Monte Amiata, sul Pratomagno, nelle valli abruzzesi.
Negli anni tra il ’43 e il ’45, i partigiani si organizzano in Brigate Garibaldi (comunisti), Gap e Sap (comunisti, socialisti, azionisti), Brigate Matteotti (socialisti), Brigate Giustizia e Libertà (azionisti), Brigate Autonome (ex militari, monarchici, badogliani), Brigate del popolo,Fiamme Verdi, Brigate Osoppo (democristiani), Brigate Bruzzi Malatesta (anarchici).
Dal 7 settembre 1944, gli alleati inglesi e americani riconoscono il ruolo dei partigiani italiani che si fondono nel Corpo dei Volontari della Libertà. capo del Comando militare supremo è il generale Raffaele Cadorna, vicecomandanti sono Ferruccio Parri (Partito d’Azione) e Luigi Longo (Partito Comunista); altri componenti sono Enrico Mattei (Democrazia Cristiana), Giovanni Battista Stucchi (Partito Socialista) e Mario Argenton (Partito Liberale e formazioni autonome).
La guerra di liberazione è lunga, dura, estenuante.
Prosegue tra forti avanzate, rastrellamenti dei nazifascisti, faticose ritirate, umilianti ripiegamenti, ancora avanzate, azioni di sabotaggio e attacchi contro postazioni strategiche, occupazioni di paesi e valli (Alba e Langhe, Montefiorino, Ossola, Valsesia sono i luoghi più importanti), insurrezioni di città (Napoli, Firenze, Milano, Torino, Genova), fino all’aprile del 1945, i giorni della resa dei conti finale e della libertà conquistata.
27 aprile 1945: a Dongo viene catturato Benito Mussolini mentre tenta di espatriare insieme all’amante Claretta Petacci e altri gerarchi. Il giorno dopo, il Duce e la Petacci vengono giustiziati dai partigiani a Giulino di Mezzegra, sul lago di Como. I loro corpi senza vita vengono impiccati a testa in giù in piazzale Loreto, a Milano, nello stesso luogo dove il 15 agosto 1944 nazisti e fascisti avevano trucidato quindici detenuti politici.
29 aprile 1945: l’esercito tedesco si arrende; il CLN assume pieni poteri civili, politici, militari.
2 maggio 1945: il generale inglese George Alexander ordina la smobilitazione delle forze partigiane. Le armi vengono in gran parte consegnate. Resta comunque alto il prezzo pagato dai ribelli dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945: 45.000 partigiani civili italiani morti in combattimento o fucilati dopo atroci torture; 22.000 mutilati e invalidi; 45.000 soldati uccisi in azione, quelli che dopo l’8 settembre 1943 decidono di schierarsi contro i nazifascisti; oltre 10.000 militari della Divisione Acqui, impegnati a Cefalonia e Corfù assassinati dai nazisti; 650.000 soldati rinchiusi nei lager per essersi rifiutati di aderire alla Repubblica di Salò, 40.000 sterminati, come altri 36.000 civili; 15.000 tra civili, partigiani, simpatizzanti della Resistenza trucidati nelle oltre duemila stragi naziste e repubblichine avvenute in Italia.
Storie di ordini già eseguiti
Marzo 1944. Da oltre sei mesi Roma è in mano ai nazisti. È avvenuta la deportazione di centinaia di ebrei romani, trasferiti nei campi di concentramento e di sterminio in Germania e Polonia.
Il capo della Gestapo e ufficiale delle SS Herbert Kappler, agenti del SD, il servizio segreto nazista, il questore Pietro Caruso, le bande fasciste, gli uomini del Reparto Speciale di Polizia direttoda Pietro Koch con sede alla Pensione Jaccarino, si sono resi responsabili di torture, sevizie, fucilazioni collettive ed esecuzioni sommarie senza alcun processo di membri e fiancheggiatori della Resistenza o semplici sospettati nel carcere di via Tasso. Gli alleati anglo-americani continuano a bombardare i quartieri periferici della città. Roma è avvolta dalla paura e dominata dal terrore.
Le attività dei GAP, Gruppi d’Azione Patriottica di Roma sono febbrili. I partigiani colpiscono nazisti e fascisti in ogni quartiere: comando tedesco di Trastevere (10 gennaio), corpo di guardia del carcere di Regina Coeli (18 gennaio), stazione Termini e via Regina Elena (23 gennaio), caserma repubblichina di viale Giulio Cesare (2 marzo), reparto della Guardia Nazionale Repubblicana in via Tomacelli (10 marzo).
I gappisti notano che l’11esima compagnia del 3° battaglione dello SS Polizei Regiment Bozen sfila ogni giorno cantando per le strade di Roma. I soldati sono tutti altoatesini di nazionalità tedesca. Fanno parte di una milizia volontaria con compiti di polizia, impegnata in azioni antiguerriglia; centosessanta uomini, armati di tutto punto, indossano la divisa della Wehrmacht e compiono lo stesso percorso nel primo pomeriggio: via Flaminia, piazzale Flaminio, piazza del Popolo, via del Babuino, piazza di Spagna, poi verso il Viminale dove c’è il loro quartier generale.
Per giorni, i partigiani studiano con precisione il tempo che la colonna impiega a percorrere il tragitto e progettano l’attacco finale in via Rasella: una strada in salita, scomoda per i nazisti, comoda per i partigiani.
Il 23 marzo 1944 è il venticinquesimo anniversario della fondazione dei Fasci di combattimento. Raul Falcioni preleva un carrettino a due bidoni della Nettezza Urbana vicino al Colosseo, lo porta in una cantina in via Marco Aurelio 47, il rifugio dei GAP.
Rosario Bentivegna, Carla Capponi, Giulio Contini, Laura Galloni, Mario Fiorentini e Lucia Ottobrini inseriscono nel carrettino una cassetta di metallo con 12 chilogrammi di tritolo con detonatore. Intorno ad alcuni spezzoni di ghisa vengono piazzati altri 6 chilogrammi di esplosivo. Un ordigno potente e devastante.
Poco prima delle 13, Rosario Bentivegna si traveste da spazzino, camiciotto e cappello, e si avvia con il carrettino verso via Rasella. Intorno alle 14 lascia il contenitore dell’immondizia in via Rasella, all’altezza di Palazzo Tittoni, e attende l’arrivo dei soldati.
Intanto, altri gappisti si posizionano nei punti prestabiliti dal piano operativo. Carla Cappon è in largo del Tritone, davanti alla sede del Messaggero. Porta un impermeabile in mano. Servirà a Rosario Bentivegna per coprire la divisa da spazzino, al termine dell’azione. Pasquale Balsamo si trova in via Tomacelli.
Due squadre sono pronte in via del Boccaccio: una da sette, l’altra da sei uomini. Tra loro ci sono Franco Calamandrei, Carlo Salinari, Raul Falcioni, Silvio Serra, Francesco Pulveri, Alfio Marchini. Sono armati di quattro bombe da mortaio d’assalto Brixia, trasformate in modo artigianale in bombe a mano.
Alle 15:34, il capo gappista Franco Calamandrei avvista i soldati della Bozen, si leva il cappello. Rosario Bentivegna comprende il segnale convenzionale. Con il fuoco della sua pipa accende la miccia dell’esplosivo e si dilegua. Cinquanta secondi dopo il carretto con due bidoni e 18 chilogrammi di esplosivo esplode. Le bombe a mano lanciate dai gappisti fanno il resto.
Vengono uccisi trentatré soldati e due civili, il militante di Bandiera Rossa Antonio Chiaretti, e un ragazzino di tredici anni, Pietro Zuccheretti; centodieci i militari feriti, nove di loro moriranno nei giorni successivi.
La reazione dei nazisti è caotica. Subito pensano a un attacco avvenuto dalle finestre dei palazzi. Così sparano alla cieca contro le case. Quattro civili perdono la vita.Pochi minuti dopo i nazisti organizzano la loro rappresaglia. Il generale Kurt Maelzer, detto il “re di Roma”, comandante della piazza, giunge in via Rasella. Dapprima grida tre volte “vendetta” e annuncia di voler pianare al suolo il quartiere. Poi, dopo una serie di concitate telefonate, da Berlino Adolf Hitler ordina al maresciallo Albert Kesserling di fucilare dieci civili per ogni soldato tedesco caduto nell’attentato, contravvenendo alle convenzioni dell’Aja e di Ginevra. L’ufficiale delle SS Herbert Kappler organizza ed esegue la mattanza. Vengono dunque scelti membri della Resistenza ed ebrei detenuti nelle carceri di via Tasso e di Regina Coeli, ma all’ultimo momento vengono presi a caso anche altri prigionieri: duecentosettanta persone.
Cinquanta partigiani romani vengono consegnati ai tedeschi dal questore di Roma Pietro Caruso e dal capo del Reparto Speciale di Polizia Pietro Koch: trecentoventi persone.
Nella notte tra il 23 e il 24 marzo muore un soldato della Bozen colpito in via Rasella. Così Kappler decide di ucciderne dieci in più: trecentotrenta persone.
Ma chi compila le liste commette un errore. Ci sono cinque prigionieri in eccesso: trecentotrentacinque persone in tutto.
Il 24 marzo 1944 i condannati a morte vengono prelevati dai luoghi di detenzione, caricati su pullman e autocarri. Non conoscono la loro destinazione finale: le Cave Ardeatine. Le vittime vengono fatte scendere dai veicoli, trasferite a gruppi di cinque dentro le gallerie di tufo, uccisi uno a uno con un colpo di pistola alla nuca. Alla fine del massacro, i nazisti minano le cave e le fanno saltare, tentando di eliminare le prove delle loro barbarie, a futura memoria. Ma un testimone osserva da lontano la scena. È il pastore Nicola D’Annibale.
Il 25 marzo 1944 sui giornali romani appare uno scarno comunicato: «Nessuno dovrà sabotare impunemente la cooperazione italo-tedesca nuovamente affermata. Il Comando tedesco perciò ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato, dieci criminali comunisti-badogliani saranno fucilati. Quest’ordine è già stato eseguito».
Trecentotrentacinque persone uccise. Nella lista ci sono le più importanti figure della Resistenza romana, di ogni appartenenza politica. Cadono fianco a fianco i professori Gioacchino Gesmundo e Pilo Albertelli, il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, i generali Simone Simoni, Dardano Fenulli e Sabato Martelli Castaldi, l’operaio Valerio Fiorentini, gli azionisti Pilo Albertelli e Armando Bussi. Trecentotrentacinque morti che portano la firma di alcuni assassini poi identificati, processati e condannati in via definitiva, anche se con molti anni di ritardo: Albert Kesserling, Herbert Kappler, Eric Piebke, Carl Hass.
Oggi le Fosse Ardeatine, così come il carcere di via Tasso, sono diventate luoghi di ricordo e memoria. Quello delle Ardeatine è un museo che conserva reperti, giornali, documenti, cimeli, fotografie delle trecentotrentacinque vittime di sessantasei anni fa. Se vai in un giorno infrasettimanale ci trovi studenti accompagnati da insegnanti e da guide. Sono curiosi, fanno domande, molti prendono appunti. Non vogliono dimenticare.
Storie di bambini e girotondi
1944. Sant’Anna di Stazzema è un piccolo paese di montagna in provincia di Lucca. Un borgo antico, quattro case, una chiesetta, pochi abitanti, quattrocento anime, alcune frazioni che portano nomi come Vaccareccia, Case, Pero, Moco, Coletti.
Le donne intente a governare le cose di casa. Gli uomini impegnati nell’agricoltura, nella pastorizia, oppure come cavatori nelle miniere. Una vita normale, tranquilla, nonostante il vicino fronte di guerra che contrappone le armate anglo-americane e le divisioni tedesche, attestate da mesi lungo la linea gotica.
La storia parte da una fotografia scattata il 12 luglio 1944, leggermente seppiata e di poco sfuocata. Ritrae un gruppo di piccoli che giocano festosi davanti al parco della scuola. Cantano e ridono felici, si tengono per mano e compiono uno straordinario girotondo. Sono spensierati, del resto è la festa che celebra la fine dell’anno scolastico, l’inizio delle vacanze estive. Scrivono i loro sogni su fogli di carta. Poche righe, frasi di bambini che vivono spensierati mentre intorno la guerra dei grandi distrugge e divide il mondo.
La mattina del 12 agosto 1944, proprio un mese dopo il girotondo della fotografia, quei sogni di bimbi vengono infranti da qualcosache riguarda la morte e la violenza degli adulti.
Se chiudi gli occhi, puoi immaginarti la scena. I razzi illuminano il cielo colorato di rosso. Alle 7 precise arrivano i soldati nazisti della 16 Panzergrenadier Division Reichfùhrer SS, comandata dal generale Max Simon. Entrano a Sant’Anna di Stazzema accompagnati da italiani fascisti in camicia nera, repubblichini di Lucca e di Viareggio, collaboratori dei nazisti. Bruciano le case, devastano le chiese, puntano i mitragliatori contro le persone, lanciano bombe a mano nei granai e nei cascinali.
Dopo tre ore di barbarie, si contano cinquecentosessanta morti. Sono donne, vecchi, bambini. Anna Pardini è nata solo venti giorni prima.
Quella di Sant’Anna di Stazzema non è una rappresaglia, ma un atto terroristico contro abitanti inermi e sfollati in fuga dalla guerra. È una azione premeditata e curata in ogni minimo dettaglio.
L’obiettivo dichiarato dei nazisti e dei repubblichini è distruggere il paese, sterminare civili, mettere paura, rompere ogni collegamento possibile fra la popolazione e le formazioni partigiane che operano nella zona, come la brigata Garibaldi Xbis dedicata a Gino Lombardi.
Nell’aprile 1945 finisce il conflitto. I testimoni oculari e i superstiti della strage di Sant’Anna di Stazzema si presentano davanti alle autorità giudiziarie. Raccontano ogni particolare del massacro. I carabinieri annotano tutto nei verbali. Rivelano ciò che sanno degli ufficiali nazisti responsabili degli omicidi, i loro nomi e i cognomi.
1960. Sono passati quindici anni dalla fine del conflitto. In Italia è terminata la ricostruzione, siamo in pieno boom economico. Il nemico dell’Occidente non è più il nazismo, ma il blocco sovietico, ciò che sta a est del muro di Berlino. La Germania sconfitta e lacerata è divisa in due. E le decine di migliaia di persone trucidate in Italia dalle truppe naziste devono restare avvolte nell’ombra, come vittime invisibili che non sono più corpo e nemmeno memoria. Così il procuratore generale militare Enrico Santacroce, che dipende direttamente dalle volontà politiche dei governi democristiani, emette un decreto di archiviazione provvisoria dei documenti sulla strage di Sant’Anna di Stazzema e di altri eccidi come Marzabotto-Monte Sole, Fossoli, Bolzano, Fivizzano, Vinca, Fucecchio, Benedicta, Fosse Ardeatine, piazzale Loreto e Hotel Regina di Milano, Gubbio, Civitella val di Chiana. Prove sepolte per mere ragioni di Stato.
1994. Quasi cinquant’anni dopo. Alcuni operai compiono lavori di ristrutturazione nel palazzo Cesi, in via degli Acquasparta, a Roma. È la sede della Procura Generale Militare. Dietro un tramezzo affiora d’improvviso la memoria italiana. Un armadio con le ante rivolte verso il muro, chiuso a chiave, protetto da un cancello e da un lucchetto. Quando i magistrati aprono l’armadio, vengono alla luce 695 fascicoli, stipati uno sull’altro. C’è un registro composto da 2.273 voci. Tutto sembra archiviato, o meglio nascosto e occultato, in modo rigoroso, preciso, ordinato. Emergono le testimonianze dei sopravvissuti alle stragi dei nazisti e dei fascisti che indicano già nel 1945 i nomi dei colpevoli. Per l’eccidio delle Fosse Ardeatine a Roma vengono accusati Herbert Kappler, Erich Priebke e Carl Hass. I verbali custodiscono i nomi dei nazisti in ritirata che hanno colpito a Sant’Anna di Stazzema e in centinaia di paesi e città del Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Marche, Umbria, Lazio, Campania. Liguria. Praticamente ovunque.
Grazie al ritrovamento dei fascicoli sepolti per cinquant’anni nel cosiddetto “armadio della vergogna”, il Tribunale Militare di La Spezia (pm Marco De Paolis) istruisce i processi. Quello per il massacro di Sant’Anna di Stazzema è il primo a giungere a una sentenza definitiva. In primo grado, dieci ufficiali e sottufficiali nazisti vengono condannati all’ergastolo. Alla fine dell’iter giudiziario, vengono ritenuti responsabili dell’eccidio il tenente Karl Gropler, il luogotenente Georg Rauch, il sottotenente Gerard Sommer. L’8 novembre 2007, al momento della sentenza, questi criminali sono tutti ultraottantenni.
Oggi Sant’Anna di Stazzema continua a essere un piccolo paese di montagnaUn borgo antico, quattro case, alcune frazioni, una chiesetta, pochi abitanti, una quarantina, che conducono una vita normale, tranquilla. Come prima della strage.
Ma oggi c’è qualcosa in più. Sant’Anna di Stazzema è diventato Parco Nazionale della Pace. È un’area composta dalla chiesa, dal Museo Storico della Resistenza, da una faticosa via crucis che raggiunge il Col di Cava, dove è posto il Monumento Ossario.
Il museo conserva la storia delle cinquecentosessanta persone trucidate dalla furia nazista. I loro vestiti, le bambole, gli occhiali dei vecchi, i giornali dell’epoca, portafogli, monete, anelli, orecchini, portafoto. E poi ci sono gli scatti di Oliviero Toscani nella splendida mostra I bambini ricordano. All’ingresso del museo, alla fine di una scalinata, c’è la lapide con le parole di Pietro Calamandrei, Lo avrai Camerata Kesserling.
Lo avrai camerata Kesserling
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi
non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolato delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti vide fuggire
ma soltanto col silenzio dei torturati
più duro d’ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo
su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama ora e sempre
RESISTENZA
Storie dalla linea gotica
1944. Monte Sole e Marzabotto si trovano in provincia di Bologna, sull’Appennino tosco-emiliano, sul filo della cosiddetta linea gotica, il fronte di guerra dove sono attestate le truppe naziste e repubblichine e i soldati anglo-americani.
Nella zona sono in corso da mesi le azioni clandestine della Brigata partigiana Stella Rossa, alla guida di Mario Musolesi, nome di battaglia “il lupo”. È formata da sette-ottocento persone, in gran parte giovani provenienti dai paesi dell’Appennino: Marzabotto, Monzuno, Grizzana Morandi, Castiglione dei Pepoli. Altri ragazzi provengono da Bologna. Altri ancora sono ex prigionieri inglesi fuggiti da un campo di concentramento, ora alla macchia.
La Brigata partigiana Stella Rossa organizza una lunga serie di attentati contro nazisti e repubblichini. Un treno militare tedesco viene deragliato lungo la direttrice Bologna-Firenze, all’altezza della stazione di Grizzana. E ancora, vengono ideati sabotaggi di ponti e strade di lunga comunicazione, l’omicidio di un maresciallo della legione dei carabinieri, l’eliminazione di alcune spie, fino allo scontro vittorioso in campo aperto con una divisione tedesca vicino a Sasso Marconi (cinquecentocinquanta morti).
Il gruppo comandato da Musolesirappresenta dunque una spina nel fianco del sistema di occupazione e controllo del territorio nazista lungo la linea gotica. Ecco perché, nel settembre 1944, il feldmaresciallo Albert Kesselring mette in pratica la sua risposta militare contro i partigiani, lo stato d’eccezione, nella convinzione che il controllo di un luogo da parte dei ribelli richieda la complicità di chi in quel luogo ci vive.
Il capo dell’operazione di rastrellamento è il maggiore Walter Reder, detto “il monco”. La mattina del 29 settembre 1944, prima di muovere all’attacco, quattro reparti delle truppe naziste accerchiano una vasta area di territorio compresa tra le valli dei fiumi Setta e Reno. Dalle frazioni di Panico, Vado, Quercia, Grizzana, Pioppe di Salvaro le truppe tedesche procedono come granchi all’assalto di abitazioni, cascine, scuole. Nella frazione di Casaglia di Monte Sole, la popolazione impaurita si rifugia nella chiesa di Santa Maria Assunta. A quel punto i nazisti pianificano l’eccidio. Prima tocca a don Ubaldo Marchioni, poi ai vecchi, alle donne, ai bambini. I criminali si spostano nel cimitero. La loro mitragliatrice colpisce e uccide centonovantacinque persone, tra le quali cinquanta giovanissimi.
E la strage è solo all’inizio. Ogni località, ogni frazione, ogni casolare viene setacciato dai soldati nazisti. Nessuno viene risparmiato. Neanche don Giovanni Fornasini. Dopo sei giorni di rastrellamenti e violenze, perdono la vita settecentosettanta persone.
La strage di Marzabotto-Monte Sole è numericamente la più grave tra quelle compiute dai nazifascisti in Italia durante la ritirata del 1944. Solo molti anni dopo, in seguito al ritrovamento dei fascicoli nel cosiddetto “armadio della vergogna”, si sono potute aprire le inchieste e processare i responsabili dell’eccidio.
14 gennaio 2007. Il Tribunale Militare di La Spezia condanna all’ergastolo dieci imputati. Sono Paul Albers, aiutante maggiore di Walter Reder, il sergente comandante di plotone Josef Baumann, il maresciallo delle SS Hubert Bichler, i sergenti Max Roithmeier, Max Schneider, Heinz Fritz Traeger, Georg Wache, Helmut Wulf, il maresciallo capo Adolf Schneider, il soldato Kurt Spieler.
7 maggio 2008. La Corte Militare d’Appello di Roma conferma le condanne.
Storie di banche
Ti ricordi, uomo, il 1969? La televisione era in bianco e nero. Uno strano bussolotto di metallo con un vetro verde e concavo davanti. Non c’era il telecomando, solo l’interruttore. Si vedeva un solo canale, il primo. Quando si vedeva… Perché non era mica come oggi, con l’antenna centralizzata, con i padelloni per ricevere i satelliti.
A casa mia l’antenna era vicina all’apparecchio. E ognuno faceva come gli pareva. Uno si alzava e muoveva l’antenna, le righe orizzontali sparivano. Poi qualcun altro si alzava, passava accanto al filo e le righe tornavano più grandi di prima. Si poteva andare avanti per ore.
Certe volte la valvola si scaldava e l’immagine si ingrandiva, poi si stringeva, e ancora si ingrandiva. Ci voleva tanta pazienza. E c’erano le manopole del contrasto e del volume, quelle di plastica, quelle che a furia di girarle ti restavano in mano e non si vedeva né sentiva più niente.
Una lotta impari. Per farli funzionare, quegli strani aggeggi, bisognava essere dei veri esperti. Roba da Scuola Radioelettra Torino.
Di pomeriggio, alle 17:30, si vedeva La tv dei ragazzi. C’era Angelo Lombardi, “L’amico degli animali”. Parlava con cani, gatti, leoni, serpenti. Con tutti, perfino i topi, ma con gli uomini no. Aveva la faccia da buono. E Paolo Poli raccontava fiabe per bambini. Poi c’erano I viaggi di Gulliver: «… voglio girare tutte le strade del mondo…».
Come si può scordare Giovanna la nonna del corsaro nero? «Nonnetta sprint, più forte di un bicchiere di gin».
Poi c’erano i telefilm: Ivanhoe, cavaliere senza macchia e senza paura che si batteva contro gli uomini di Giovanni Senza Terra e lo Sceriffo di Nottingham, aspettando il ritorno di re Riccardo Cuor di Leone. Thierry La Fronde, giustiziere francese ai tempi della guerra dei cento anni. Come Robin Hood rubava ai ricchi per dare ai poveri. I Compagni di Baal, fantomatica setta che agiva nella malavita francese.
E chi può dimenticare le commedie musicali? Il Quartetto Cetra di Non cantare spara? Eh…?
E gli sceneggiati? Tino Buazzelli Nero Wolf, Gino Cervi il Commissario Maigret, Ubaldo Lay il mitico Tenente Sheridan.
E i quiz? Lo sport preferito degli italiani… Chissà chi lo sa di Febo Conti. Non si vinceva niente. Ogni sabato pomeriggio si sfidavano due classi delle medie inferiori. Mi ricordo quella che veniva da Valmadrera. C’erano sempre loro. «Squillino le trombe, entrino le squadre» gridava Febo Conti.
A un certo punto, mia madre mi guardava in modo serio.
«Dopo Carosello… a letto».
Ma come fai a perderti certe cose…
«A letto… che domani si va a scuola».
Avveniva tutte le sere, tranne il sabato e la domenica, quando alle 20:30 andava in onda La freccia nera: «La freccia nera fischiando si scaglia e la sporca canaglia il saluto ti dà».
D’estate si poteva guardare la tv fino a tardi. Ricordo che c’era uno strano tipo di nome Gennaro, in completo azzurro, una sorta di Mago Zurlì napoletano, travestito da arbitro internazionale. Ma non di calcio. Era l’arbitro di Giochi senza frontiere, un guazzabuglio di corse a ostacoli, giochi a base di acqua e sapone dove i concorrenti scivolavano e si andavano a schiantare contro castelli di polistirolo, cuscini, piume. Le squadre venivano da ogni parte d’Europa. E ti chiedevi, come sarà fatto un francese, un tedesco e un olandese? Che vita faranno? Quali sono le loro abitudini? E il calcio, eh…?
C’era la gara per chi conosceva a memoria le formazioni. Quella del Milan era come una filastrocca: Cudicini, Anquilletti, Schnellinger, Rosato, Malatrasi, Trapattoni, Hamrin, Lodetti, Sormani, Rivera, Prati.
Poi c’era quella dell’Inter, come una saga antica: Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Peirò, Suarez, Corso.
Le formazioni le imparavi a scuola o all’oratorio, quando scambiavi le figurine con gli amici. Lo scudetto della Fiore, la Fiorentina, era introvabile. Per averlo un giorno dovetti sborsare dieci Pizzaballa, cinque Chiarugi, tre Bulgarelli e due De Sisti. Mi indebitai per sempre. C’è ancora gente che mi rincorre chiedendomi dov’è finito Pizzaballa.
E i biliardini? I giocatori di plastica avevano magliette di squadre vere. Qualcuno frullava, altri facevano ganci mirabolanti che sfondavano la porta dell’avversario. Le partite duravano ore. Si diventava gobbi.
Nei bar c’erano flipper colorati. La biglia di ferro compiva giri virtuosi e la macchina emetteva dei rumori, come fossero muggiti. Se appena la scuotevi si bloccava, andava in tilt e ti fregava la monetina.
Amavo il rock, e la Rai ovviamente trasmetteva Fin che la barca va di Orietta Berti. La chitarra di Jimi Hendrix uscì una notte dall’altoparlante di una vecchia radio valvolare attraverso Radio Caroline, un’emittente che trasmetteva dal canale della Manica. Radio Caroline era sempre in movimento perché girava l’Europa sopra una nave. I dj me li immaginavo vestiti di nero, con la benda nera su un occhio, a bordo di una vecchia imbarcazione con la bandiera dei pirati.
Nel 1969, lo stipendio di un operaio specializzato era di 110.000 lire al mese. L’affitto medio di un appartamento a Milano e Roma ammontava a 35.000 lire al mese. La Fiat 500 lusso costava 525.000 lire. Una tazza di caffè al bar costava 50 lire. Un litro di benzina 75 lire. Il 27 del mese era un miraggio.
Il 1969 è l’anno degli scioperi, dei cortei di operai e studenti in tutto il paese. Le rivendicazioni degli operai per il salario garantito e un lavoro per tutti si mischiano al diritto allo studio chiesto da milioni di giovani delle scuole medie superiori e delle università. Torino, Milano, Genova, il triangolo industriale. Le lotte diventano più calde. 7.507.000 persone coinvolte in conflitti di lavoro per 302.597.000 ore di produzione perdute a causa di scioperi.
È l’anno delle bombe. Dal 3 gennaio al 12 dicembre se ne conteranno centoquarantacinque, una ogni tre giorni. Per novantasei la responsabilità accertata è dell’estrema destra.
Il 15 aprile ne scoppia una nell’ufficio del rettore dell’Università di Padova.
Il 9 aprile a Battipaglia vengono uccisi due lavoratori e centodiciannove persone sono arrestate. Il giorno dopo ci saranno manifestazioni in tutta Italia, accompagnate da violenti scontri con la polizia. Il commissariato di Battipaglia viene dato alle fiamme.
Il 25 aprile, alla Fiera di Milano, un ordigno ad alto potenziale provoca il ferimento di venti persone.
In agosto vengono piazzati dieci ordigni sui treni: otto esplodono e colpiscono dodici passeggeri.
A Pisa, il 27 ottobre, durante una manifestazione contro i colonnelli greci, uno studente rimane ucciso da un candelotto lacrimogeno lanciato dalla polizia.
Il 19 novembre, a Milano, nel corso di una manifestazione per la casa, due camionette si scontrano; nell’incidente muore il poliziotto Antonio Annaruma.
Un clima incandescente sul piano politico. Si è appena insediato il secondo governo a guida Mariano Rumor. Il suo vice è Paolo Emilio Taviani. Ministro degli Esteri Aldo Moro, agli Interni Franco Restivo. Un monocolore Dc. Capo del Sid è l’ammiraglio Eugenio Henke. Al vertice della polizia c’è Angelo Vicari. Presidente della Repubblica è Giuseppe Saragat. Il Pci è il più forte partito comunista occidentale. La Cgil è il sindacato meglio organizzato.
12 dicembre 1969, mancano tredici giorni a Natale. È quasi sera, ma Milano è illuminata a giorno. I grandi magazzini sono sfavillanti. Le compere e gli acquisti. Le luminarie addobbano il centro che sembra un carnevale. Migliaia di persone stipate in pochi metri tra corso Vittorio Emanuele, piazza Duomo e piazza San Babila vanno su e giù, osservano le vetrine. Ci sono gli zampognari e i venditori di caldarroste. Ai bar del Barba e Haiti servono espressi in continuazione, 50 lire a tazza. La gente transita nei pressi del Teatro alla Scala. Quella sera rappresentano Il barbiere di Siviglia. C’è ressa davanti al Rivoli per Un uomo da marciapiede e all’Excelsior per Nell’anno del Signore. Il freddo entra nelle ossa. Tutti noi italiani ci sentiamo felici, immortali, allegri, innocenti.
A un tratto un forte e dirompente boato rompe quella strana ubriacatura invernale. Giunge dalla Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana: 7 chilogrammi di esplosivo vengono compressi in una cassetta metallica, poi inseriti dentro una valigetta nera, tipo ventiquattrore. È collocata proprio al centro del salone dove gli agricoltori contrattano i loro affari. La gelignite è attivata da un timer.
12 dicembre 1969, piazza Fontana. Diciassette morti, ottantotto feriti. È il giorno dell’innocenza perduta.
Alle 16:37 non ci sono più La Tv dei ragazzi,La freccia nera, Giochi senza frontiere, le figurine. A quell’ora, noi ragazzi italiani siamo già vecchi.
Al termine dei miei spettacoli, spesso i più giovani mi chiedono com’è andata a finire.
Come volete che sia andata a finire… Come sempre, tutti assolti.
Processo per la strage di Piazza Fontana, 30 giugno 2001, Corte d’Assise di Milano. Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Giancarlo Rognoni condannati all’ergastolo. Tre anni a Stefano Tringali, militante di Ordine nuovo, per favoreggiamento nei confronti di Zorzi. Non luogo a procedere per Carlo Digilio.
12 marzo 2004. La Corte d’Assise di Appello di Milano assolve Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi per insufficienza di prove, Giancarlo Rognoni per non aver commesso il fatto, e riduce da tre anni a uno la pena per Stefano Tringali con la sospensione condizionale e la non menzione della condanna.
3 maggio 2005. La Corte Suprema di Cassazione conferma le assoluzioni degli imputati e l’obbligo, da parte dei parenti delle vittime, del pagamento delle spese processuali, 500.000 euro.
La sentenza definitiva accerta comunque le responsabilità dei neofascisti Franco Freda e Giovanni Ventura, ritenuti tra gli esecutori della strage, anche se non più giudicabili dopo l’assoluzione definitiva nel gennaio del 1987, a Catanzaro.
Storie di aerei
27 giugno 1980, cade di venerdì. Aeroporto Guglielmo Marconi di Bologna. Sono le 17:30. Il caldo quasi non si sente, un forte temporale rinfresca l’aria, pioggia d’estate, nulla di più. I bocchettoni dell’aria condizionata raffreddano il salone dell’aeroporto. I taxi scaricano passeggeri con valigie e pacchi. Sembrano non avere fretta alcuna.
L’orario di partenza previsto del DC9 IH870 dell’Itavia per la tratta Bologna-Palermo è fissato alle 18:15. Chi legge un giornale, chi si guarda intorno, chi si reca al duty free. Un profumo, una stecca di sigarette, l’ultimo settimanale, il libro, il quotidiano che non si è potuto leggere al mattino.
Ottantuno persone, sessantatré adulti, tredici bambini, due piloti, due assistenti di volo. Luigi Andres è un medico dentista. Con lui c’è Cinzia Benedetti, appena laureata in lingue all’Università di Pavia. Francesco Baiamonte commercia in carni. Paola Bonati amministra la società Emir. Alberto Bonfietti, insegnante di scuola media a Mantova, giornalista del quotidiano Lotta Continua. Alberto Bosco si occupa di macchinari per l’estrazione del marmo, come Andrea Guarano. Maria Vincenza Calderone torna nella sua casa a Palermo. Giuseppe Cammarata è un carabiniere, proprio come Giacomo Guerino. Arnaldo Campanini è un esperto di macchine per l’industria alimentare. Antonella Cappellini è avvocato. Accanto a lei c’è Guelfo Gherardi e molte, molte altre persone.
Nomi comuni, volti che puoi incontrare al supermercato, al bar, allo stadio di domenica, vicini di tavolo in una trattoria, a un concerto. Nomi, cognomi e mestieri.
Il DC9 dell’Itavia IH870 ha volato per tutto il giorno, ma gode comunque di buona salute. L’aereo imbarca i passeggeri all’aeroporto Guglielmo Marconi di Bologna-Borgo Panigale. È la sua ultima fatica.
20:08. Il volo DC9 Itavia decolla da Bologna con centotredici minuti di ritardo. La torre di controllo gli ha già assegnato un numero di identificazione: IH870. Sale sull’aerovia Ambra 12: «Itavia 870, il decollo agli 8, cambi con Padova Informazioni… Con Padova fin d’ora la 870, arrivederci Bologna.»
Pochi secondi e il pilota si collega con Padova Informazioni: «Padova buonasera, è la 870… Itavia 870, prosegua come autorizzato, richiami Firenze».
20:20. Il DC9 si trova ormai allineato al radiofaro di Firenze. Il pilota prende contatto con Roma Ciampino: «Buonasera radar di Roma, è l’IH870… Buonasera anche a lei, 870… Inserisca 1136 sul transponder ed è autorizzato a Palermo via Bolsena, Puma, Latina, Ponza, Ambra 13… 1136 sta arrivando per lei, a Palermo come da piano di volo, è su Firenze, praticamente, mantiene 190».
20:23. Il DC9 IH870 vira a sinistra e imbocca Ambra 14, l’autostrada del cielo che percorre la dorsale appenninica verso sud. Il sole sta calando dietro la linea dell’orizzonte, ma per il tramonto c’è ancora bisogno di vento. Per i passeggeri sono risate e discorsi, pensieri e ricordi, angosce e dubbi. Quelli di una vita.
20:26. Il volo del DC9 sembra inarrestabile. Il pilota comunica ancora con il radar del centro di controllo di Ciampino: «870 identifichi… Arriva… Ok, è sotto radar, vediamo che sta andando verso Grosseto, che prua ha? La 870 è perfettamente allineata sulla radiale di Firenze, abbiamo 153 in prua. Ci dobbiamo ricredere sulla funzionalità del VOR di Firenze… Sì, in effetti non è che vada molto bene… Allora ha ragione il collega… Sì, sì pienamente… Ci dica cosa dobbiamo fare… Adesso vedo che sta rientrando, quindi, praticamente, diciamo che è allineato, mantenga questa prua… Noi non ci siamo mossi, eh?».
20:40. L’aereo giunge all’altezza di Roma, è spostato leggermente a est sull’incrocio tra le aerovie Ambra 14 e Green 23. Per le carte militari aeronautiche il punto si chiama Puma. Vira a destra, abbandona Ambra 14 e taglia verso il mare, sorvola Pratica di Mare ed è sopra la lunga distesa di acqua: «È la 870, buonasera Roma… Buonasera 870, mantenga 290 e richiamerà 13 Alpha… Sì, senta, neanche Ponza funziona?… Prego?… Abbiamo trovato un cimitero stasera, venendo da Firenze in poi, praticamente non ne abbiamo trovata una funzionante… E sì, in effetti è un po’ tutto fuori, compreso Ponza, lei quanto ha in prua ora?… Manteniamo 195… 195, sì, va bene, mantenga 195, andrà un po’ più giù di Ponza, di qualche miglio… Bene, grazie… E comunque 195 potrà mantenerlo, io penso, ancora un 20 miglia, non di più, perché c’è molto vento da ovest, al suo livello dovrebbe essere di circa 100-120 nodi l’intensità… E sì, in effetti sì, abbiamo fatto qualche calcolo, dovrebbe essere qualcosa del genere… Ecco, non lo so, se vuole continuare ancora con questa prua, altrimenti accosti a destra anche un 15-20 gradi… Ok, mettiamo per 210».
20:46. Il DC9 a questo punto chiede di scendere di livello a 25.000 piedi. Ottiene l’autorizzazione: «È la 870, è possibile avere 250 di livello?… Sì, affermativo, può scendere anche adesso… Grazie, lasciamo 290».
20:50. Il DC9 è sull’isola di Ponza, la sorvola e imbocca Ambra 13 che va giù fino a Tripoli, in Libia, passando per Palermo Punta Raisi dove l’aereo è atteso per le 21:13. Roma Radar vede l’aereo passare leggermente spostato a ovest dell’isola e chiede al pilota di richiamare su Ambra 13 Alfa, 80 chilometri più a sud di Ponza.
20:57. Il pilota del DC9 esegue, richiama dal punto Alfa dove termina il servizio e la copertura del centro di controllo di Roma. È l’ultima comunicazione del DC9 con Ciampino: «115 miglia per Papa Alpha… per Papa Romeo Sierra, scusate, mantiene 250… Ricevuto, IH870, e può darci uno stimato di Raisi?… Sì, Raisi lo stimiamo intorno ai 13… 870, ricevuto, autorizzati a Raisi Vor, nessun ritardo è previsto, ci richiami per la discesa… A Raisi nessun ritardo, chiameremo per la discesa, 870… Corretto».
20:58. Il volo IH870 si trova a metà circa tra Ponza e Ustica. Il pilota chiama la torre di controllo di Palermo Punta Raisi: «Calma di vento, temperatura 23, autorizzati ai 15, altimetro 1013… Molto bene».
20:58. Le grandi parabole della difesa aerea seguono l’aereo. Il DC9 è nulla di più di un puntino che si muove in mezzo ad altre tracce tutte ancora da decifrare, altri aerei, un traffico fuori dal comune. Al sito di Marsala, un sottufficiale sta proprio davanti allo schermo, segue tutti i punti che si spostano in lungo e in largo del Tirreno. Per il DC9 Itavia IH870 è già pronto un codice di identificazione della rete militare, AJ421: «Sta’ a vedere che quello dietro mette la freccia e sorpassa… quello ha fatto un salto da canguro».
20.59. Punto Condor. Prima una barzelletta e una risata. Alla fine quella del comandante del DC9 Domenico Gatti sarà l’ultima parola ingoiata di traverso. Forse vede qualcosa di inverosimile, lo stupore, la lingua piegata sul palato, neanche una frase, le mani che non rispondono, nemmeno il cervello, la radio proprio non riesce ad attivarla. La paralisi. Una frazione di secondo. Un attimo: «Gua…».
Poco dopo le 21. «Itavia 870, Do you read?» Terminano così le chiamate verso il DC9, nel giorno in cui la nostra coscienza nazionale è sprofondata negli abissi del mar Tirreno.
A distanza di trent’anni si conoscono molti retroscena dell’abbattimento del DC9 IH870 dell’Itavia. Una verità racchiusa in cinquemila pagine nella sentenza ordinanza del giudice romano Rosario Priore. Nessun cedimento strutturale, nessun incidente aereo, nessuna bomba scoppiata a bordo.
L’indagine accerta invece la presenza di velivoli militari italiani, francesi e americani, con il transponder spento, tutti impegnati in un’esercitazione militare lungo le autostrada del cielo percorse dal DC9. Si andrà avanti fino al processo.
Diciannove anni di accertamenti; quattro anni di istruttoria; due milioni di atti giudiziari, perizie e controperizie. I giudici assolvono i generali Zeno Tascio e Corrado Melillo, prescrivono il reato di alto tradimento per i generali Franco Ferri e Lamberto Bartolucci.
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