Il paese della vergogna
DANIELE BIACCHESSI GANG
IL PAESE DELLA VERGOGNA
Il testo è tratto dal libro “Il paese della vergogna” di Daniele Biacchessi (Chiarelettere, 2007)
Live Catania Zo Culture 25/05/12(audio)
Live Sesto San Giovanni con Marino e Sandro Severini dei Gang 25/11/2008 (acquista e-shop)
Live Lifegate con Marino e Sandro Severini dei Gang/06/07/2009(audio)
Live Bologna Caserme Rosse versione solista 30/05/2009(video – audio)
Live Imperia con Andrea Sigona 24/01/2009(audio)
Live Radio Popolare intervista Daniele Biacchessi e Marino Severini dei Gang su “Il paese della vergogna” (audio)
Live Milano Camera del Lavoro versione solista servizio di Radio Popolare 21/10/08 (audio)
Live San Polo d’Enza con Marino e Sandro Severini dei Gang 03/10/2008 (audio)
Live Torino Circolo dei lettori con Marino e Sandro Severini dei Gang 19/09/2008 (audio)
Live Torino Circolo dei lettori con Marino e Sandro Severini dei Gang 19/09/2008 (foto e video )
Live Cremona Teatro Monteverdi versione solista 22/04/2008 (video)
Live Capannori Sala Consiliare versione solista 21/04/2008 (foto di scena)
Live Jesi con Marino e Sandro Severini dei Gang 18/04/2008 (video)
Live Castelfidardo con Marino e Sandro Severini dei Gang 17/04/2008 (audio)
Live Bologna sala di aspetto seconda classe con Michele Fusiello 08/11/2007 (audio- video)
Live Milano Feltrinelli con Gaetano Liguori e Michele Fusiello 17/09/2007 (audio – video)
Daniele Biacchessi intervistato da Piero Ricca (video)
Quanto pesano le ingiustizie?
Qual è il loro prezzo?
E chi lo ha pagato, nel corso della storia?
Bisogna pur partire da una data.
Eccola: 12 luglio 1944.
Siamo a Sant’Anna di Stazzema, poche case sparse nell’entroterra della provincia
di Lucca.
Questa storia parte da una fotografia in bianco e nero, leggermente sfuocata.
Ritrae un gruppo di bambini che giocano festosi davanti al parco della scuola.
Cantano e ridono felici, si tengono per mano e fanno girotondo.
Le bambine vestite di bianco, con i grembiuli puliti e i cappellini in testa.
I bambini con la camicia, i pantaloni corti e le bretelle.
Giro giro tondo, casca il mondo, casca la terra, tutti giù per terra.
Poco prima avevano scritto i loro sogni su fogli di carta.
Poche righe, frasi di bambini che vivono spensierati dentro i loro giochi mentre
intorno la guerra dei grandi distrugge e divide il mondo.
Sogno, sogno di fare il dottore per aiutare le persone. Sogno,
sogno di diventare vecchio come mio nonno e mia nonna.
Sogno di vedere il mondo. Sogno e ancora sogno di correre
nel bosco con il mio cagnolino.
12 agosto 1944.
Proprio un mese dopo, quei sogni di bambini vengono infranti da qualcosa più grande di loro, qualcosa che ha a che fare con la morte e la violenza dei grandi. I razzi illuminano il cielo di rosso.
Arrivano i soldati nazisti del Secondo Reggimento della XVIa divisione Panzergrenadier.
Entrano a Sant’Anna di Stazzema accompagnati da italiani
fascisti in camicia nera.
Bruciano le case, devastano le chiese.
Alla fine si contano cinquecentosessanta morti.
Una strage efferata, compiuta contro civili in fuga dalla guerra, donne, vecchi, contro centoquarantadue bambini con meno di 10 anni.
Anna Pardini è nata solo pochi giorni prima.
Nella piazza principale di Sant’Anna di Stazzema c’è una lapide in sua memoria:
Anna Pardini, la più piccola dei tanti bambini che la guerra
ha qui strappato dai girotondi.
Quella fotografia di bambini che solo qualche giorno prima correvano e ridevano senza preoccuparsi delle cose del mondo, conserva ancora oggi il senso della storia e della memoria.
Scrive Cesare Pavese:
«Ora che ho visto che cos’è la guerra, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero
chiedersi: e dei caduti che facciamo? Perché sono morti? Io non saprei cosa rispondere. Non adesso almeno. Non mi pare che gli altri lo sappiano. Poiché lo sanno unicamente i morti, soltanto per loro la guerra è finita davvero».
Nel 1944 Sant’Anna di Stazzema si trova proprio sul filo della cosiddetta Linea Gotica, il fronte di guerra dove sono attestate le forze dell’Asse, i militari della Repubblica sociale italiana (Rsi), i soldati anglo-americani.
La linea taglia in due la penisola italiana da Massa Carrara a Pesaro, si estende per una lunghezza di trecentoventi chilometri.
I nazisti sono in ritirata dopo gli sbarchi delle forze alleate in Sicilia, il 9 luglio 1943, e ad Anzio, il 20 gennaio 1944. Monte Sole e Marzabotto si trovano in provincia di Bologna, sull’appennino tosco-emiliano.
Nella zona di Monte Sole sono in corso da mesi le azioni clandestine del gruppo partigiano Stella Rossa, civili, tutti comunisti.
Il feldmaresciallo Albert Kesselring organizza la sua risposta militare. Capo dell’operazione è Walter Reder.
La mattina del 29 settembre 1944, prima di muovere all’attacco dei partigiani, quattro reparti delle truppe naziste accerchiano una vasta area di territorio compresa tra le valli dei fiumi Setta e Reno.
Dalle frazioni di Panico, Vado, Quercia, Grizzana, Pioppe le truppe si muovono all’assalto di abitazioni, cascine, scuole.
Nella frazione di Casaglia di Monte Sole, la popolazione impaurita si rifugia nella chiesa.
Prima tocca a don Ubaldo Marchioni, ai vecchi, alle donne, ai bambini.
Poi i criminali si spostano nel cimitero.
La loro mitragliatrice colpisce e uccide centoquarantasette persone, tra le quali cinquanta giovanissimi.
E la strage è solo all’inizio. Ogni località, ogni frazione, ogni casolare viene setacciato dai soldati nazisti.
Dopo sei giorni di rastrellamenti e violenze milleottocentotrenta persone perdono la vita.
I nazifascisti proseguono i massacri senza interruzione in gran parte delle città, dei paesi, delle frazioni.
Colpiscono civili in fuga dalla guerra, vecchi, donne, bambini, ma anche militari dell’esercito italiano che non intendono arrendersi al nemico, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Come a Cefalonia, Spalato, Rodi.
Almeno trentamila vittime.
Cinquant’anni dopo. Maggio 1994, a Roma.
Sapete quante cose si possono stipare in un armadio? Provate a
immaginare.
Un armadio rimasto dimenticato dentro un palazzo del Cinquecento, sede degli Uffici di vertice della Magistratura Militare, Palazzo Cesi, via degli Acquasparta.
Un armadio con le ante rivolte verso il muro, chiuso a chiave, protetto da un cancello e da un lucchetto.
Nell’armadio vengono ritrovati seicentonovantacinque fascicoli.
Un registro composto da duemiladuecentosettantatré voci.
C’erano le testimonianze dei sopravvissuti alle stragi dei nazisti e dei fascisti.
C’erano i nomi dei colpevoli. Al numero 1, l’eccidio delle Fosse Ardeatine a Roma.
In testa Herbert Kappler, seguito dai nomi di altri assassini.
C’erano Erich Priebke e Carl Hass.
Tutto ordinato con una puntigliosità quasi encomiabile in una storia di vera ingiustizia, una delle più tremende ingiustizie che un popolo possa subire.
Come è stato possibile nascondere per tutto quel tempo una verità così importante e scomoda?
Chi ha deciso lo spostamento di quei fascicoli?
Sapete qual è la verità? Quei fascicoli rimasti sepolti per quasi 50 anni portavano due timbri: Comando alleato e Comando tedesco.
Archiviati per sempre in nome del trattato di Yalta e della spartizione del mondo. Un silenzio colpevole dei governi italiani che si sono avvicendati fino al 1994 e che in nome di quegli accordi hanno tenuto nascosta la storia del paese ai loro cittadini.
Ventidue giugno 2005. Per la strage di Sant’Anna di Stazzema dieci ex ufficiali e sottoufficiali tedeschi vengono condannati all’ergastolo dal Tribunale Militare di La Spezia.
14 gennaio 2007. Il Tribunale militare di La Spezia condanna all’ergastolo dieci imputati per l’eccidio di Marzabotto-Monte Sole.
Oggi i colpevoli condannati sono tutti ottantenni.
Nel 1960, quando furono meticolosamente archiviati i fascicoli dell’armadio della vergogna, ne avevano tra i 40 e i 50.
Nel 1945, finita la Seconda guerra mondiale, ne avevano 25-35.
La politica non è in grado di offrire ai suoi cittadini una verità condivisa sui fascicoli nascosti nell’armadio.
Perché viviamo nel paese della vergogna.
Le bombe portano messaggi. Spesso sono nascosti, velati, non dichiarati.
A volte non vengono neppure compresi.
Il messaggio delle bombe scoppiate in Italia dal 1969 a oggi è qualcosa di più di una prova. Ora non servono analisi. Basta solo voler capire.
Dodici dicembre 1969, mancano tredici giorni a Natale.
È quasi sera ma Milano è illuminata a giorno.
I grandi magazzini sono sfavillanti. Le compere e gli acquisti.
Le luminarie addobbano il centro.
Migliaia di persone stipate in pochi metri tra corso Vittorio Emanuele, piazza Duomo e piazza San Babila vanno su e giù, osservano le vetrine.
Ci sono gli zampognari e i venditori di caldarroste.
Ai bar del Barba e Haiti servono espressi in continuazione, cinquanta lire a tazza.
La gente transita nei pressi del Teatro alla Scala.
Quella sera rappresentano Il barbiere di Siviglia.
C’è ressa davanti al Rivoli per Un uomo da marciapiede e all’Excelsior per Nell’anno
del Signore.
Il freddo entra nelle ossa.
Tutti noi italiani ci sentiamo felici, immortali, allegri, innocenti.
A un tratto un forte e dirompente boato rompe quella strana ubriacatura invernale. Giunge dalla Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana.
Diciassette morti, ottantotto feriti.
Alle 16.37 siamo già vecchi.
Trenta giugno 2001, Corte d’Assise di Milano. Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Giancarlo Rognoni condannati all’ergastolo. Tre anni a Stefano Tringali, militante di Ordine nuovo, per favoreggiamento nei confronti di Zorzi. Non luogo a procedere per
Carlo Digilio.
Dodici marzo 2004.
La Corte d’Assise di Appello di Milano assolve Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi per insufficienza di prove, Giancarlo Rognoni per non aver commesso il fatto, e riduce da tre anni a uno la pena per Stefano Tringali con la sospensione condizionale e la non menzione della condanna.
Tre maggio 2005, il processo si chiude in Cassazione con la conferma delle assoluzioni degli imputati e l’obbligo, da parte dei parenti delle vittime, del pagamento delle spese processuali.
I giudici compiono un vero capolavoro.
Ma resta una verità storica anche dalle sentenze di assoluzione.
Le responsabilità di Franco Freda e Giovanni Ventura, ritenuti anche dalla Corte di Cassazione tra gli esecutori della strage di piazza Fontana, anche se non più giudicabili dopo l’assoluzione definitiva nel gennaio del 1987.
Brescia, Piazza della Loggia.
28 maggio 1974.
Parla Franco Castrezzati della Cisl. Sono le 10 e 12 minuti.
Amici e compagni, lavoratori, studenti, siamo in piazza perché in questi ultimi tempi una serie di attentati di chiara marca fascista ha posto la nostra città all’attenzione preoccupata di tutte le forze antifasciste. Sono così venuti alla luce uomini di primo piano che hanno rapporti con gli attentatori
di piazza Fontana e del direttissimo Torino-Roma, vengono pure alla luce bombe, armi, tritolo, esplosivi di ogni genere. Ci troviamo di fronte a trame intessute segretamente da chi ha mezzi e obiettivi precisi. A Milano… State fermi… state calmi, state calmi. State all’interno della piazza, il servizio d’ordine faccia cordone intorno alla piazza, state all’interno della piazza. Invitiamo tutti a portarsi sotto il palco, venite sotto il palco, state calmi, lasciate il posto alla Croce Bianca, lasciate il passo, lasciate il passaggio delle macchine, tutti in piazza della Vittoria, tutti in piazza della Vittoria.
Piazza della Loggia, 28 maggio 1974.
Otto morti. Novantaquattro feriti, alcuni gravi.
Cinque insegnanti, due operai, un pensionato.
Neanche un sorriso, un sospetto, una parola, nemmeno una frazione di tempo, quanto
basta per accorgersi che in un cestino dei rifiuti, sotto i portici, c’è chi ha piazzato poco prima un ordigno ad alto potenziale. Alla fine moriranno sul colpo, nel giorno in cui dalla polvere nera e giallastra c’è chi vede perfino volare una bicicletta. Va su, verso il cielo, sembra uno strano mostro di metallo. Si alza oltre lo sguardo delle persone, poi si schianta sull’asfalto.
Ottanta chilometri separano Firenze da Bologna.
In treno sono circa un’ora di cammino ma durano un’eternità.
Ci puoi vedere un mondo dentro quelle lunghe gallerie, spesse di un buio intenso.
Alla fine di un tunnel ce n’è un altro ancora.
Da Vernio a San Benedetto Val di Sambro c’è una galleria, diciotto chilometri, la più lunga d’Italia.
Il 4 agosto 1974 era una giornata di sole, di caldo.
Io ero al mare, seduto su una sdraio.
Guardavo l’orizzonte lontano, c’era chi faceva il bagno, chi leggeva, qualcuno ascoltava la radio.
E in quell’agosto di molti anni fa, un brano musicale venne interrotto bruscamente e andò in onda la sigla dell’edizione straordinaria del giornale radio.
Dentro un vagone di seconda classe è scoppiata una bomba ad alto potenziale.
È accaduto proprio nel tunnel ferroviario di San Benedetto
Val di Sambro. Dodici morti e cento feriti.
Quel giorno nessuno entrò più in acqua, mio padre si mise le mani nei capelli e iniziò a fumare, i bambini smisero di gridare e ci fu un lungo silenzio.
Per la strage sul treno Italicus, a oggi non vi è ancora giustizia.
Due agosto 1980, stazione di Bologna. Sergio Secci ha 24 anni.
Quel giorno Sergio non riesce a prendere il treno.
Uno stupido ritardo di pochi minuti.
Si reca all’ufficio informazioni e scopre che un altro convoglio sta per arrivare.
È annunciato alle 10.50.
Attende la sua coincidenza. Anche Roberto Procelli è a Bologna. Viene da San
Leo di Anghiari, Arezzo. È partito soldato.
Ora si trova lì, sotto la pensilina, ad aspettare il suo treno di ritorno.
Si mette sotto il vecchio orologio della stazione.
Lancette che segnano il tempo, e treni in arrivo, e nuove partenze.
I bambini non conoscono le regole degli adulti.
Figuriamoci in una stazione d’agosto, in mezzo a quel chiasso è come sentirli. Scappano, si nascondono poi si riprendono e si rincorrono.
Una danza che può andare avanti fino all’infinito.
I genitori non riescono proprio a tranquillizzarli.
Ci sono i fratelli danesi Eckhardt, 14 anni, e Kai Mader, 8 anni. Margherete Mader, 39 anni, è la loro madre.
I bambini corrono… corrono… senza sosta.
Nella sala entra un uomo che non ha un’anima, con una borsa-valigia in mano, di quelle con la cerniera e i piedini metallici.
Si guarda intorno, tutti parlano, fumano, leggono.
Non badano a quello che accade. Non prestano granché attenzione. Nessuno lo vede, nessuno lo scorge tra tanti volti perché non ha un’anima.
L’uomo deposita la valigia sul tavolino portabagagli, a cinquanta centimetri dal suolo, accanto al muro portante della sala. Il timer è già azionato, puntato su dei numeri,
10.25. Dieci minuti. Poi la strage. Venti, venticinque chilogrammi di esplosivo gelatinato Compound B, di tipo militare, compresso in una valigia, di aspetto normale.
10.25. Un vento forte spazza via ogni cosa, un tornado violento, più forte di un terremoto, qualcosa che ha il sapore della morte e di cose bruciate, di vecchi boati, e
urla, e grida, polvere, fumo, odore di corpi.
Una sala d’aspetto di seconda classe si è sbriciolata come fanno quei castelli di sabbia quando c’è l’alta marea, è entrata in quella di prima classe e ha travolto ogni cosa. Centinaia di metri cubi di terra, travi lunghe duecento metri, pensiline in acciaio, traversine, sassi, binari troncati di netto, frammenti di rotaie, enormi blocchi di cemento armato ridotti in minuscoli pezzetti, con dentro uomini, donne, bambini, ragazzi, anziani, due carrozze del treno straordinario 13534 Ancona-Basilea, il ristorante Cigar, e ancora speranze, discorsi, progetti, sogni di una vacanza promessa solo per un’estate.
Un’onda lunga di tutto questo si è riversata in meno di un secondo nella piazza della stazione, verso il binario 1, infilata laggiù nel sottopassaggio.
Un mondo compatto, fatto di cose e persone che poco prima erano vive, è venuto giù, sfaldato, e si è dissolto.
E in quel macello l’orologio si è fermato.
10.25. Ottantacinque morti, duecento feriti.
Strage alla stazione di Bologna. Anno 1994: sentenza
della Corte di Cassazione.
Ergastolo per i neofascisti dei Nar Francesca Mambro e Valerio Fioravanti. Sette tribunali accertano che sono gli autori della strage. Dai 7 ai 10 anni di carcere per il capo della loggia P2 Licio Gelli, il faccendiere Francesco Pazienza, i vertici del Sismi, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte. Sono i personaggi che, secondo i tribunali hanno depistato le indagini.
23 dicembre 1984, manca poco a Natale. Il Rapido 904 corre lungo la tratta Napoli-Milano.
Gli scambi incrociano i binari, poi li separano e ancora li incrociano.
Tu tum tu tum.
Le carrozze sono stracolme di persone.
Le valige non si riescono nemmeno a contare. Invadono i corridoi, fin quasi dentro i bagni.
Ci sono i sacchetti con i regali impacchettati. Ci sono i salumi, i formaggi del Sud, il pane buono, quello fatto in casa, i dolci sfornati poche ore prima. Nei portafogli qualcuno mostra le fotografie dei nipotini e dei figli più grandi da portare orgogliosi
ai parenti lontani. I bimbi più piccoli piangono.
Le madri li accarezzano di poco accanto.
Chi legge, chi dorme, chi guarda fuori dai finestrini appannati. Tu tum
tu tum.
Il Rapido 904 è come un mulo, solo le stazioni e i semafori rossi possono fermarlo.
Di chilometri ne deve avere macinati tanti prima di quella sera.
Tu tum tu tum.
Alla stazione di Firenze le porte si aprono e si chiudono.
L’altoparlante annuncia un lieve ritardo ma tutto sembra normale in quella tranquilla serata di fine dicembre.
Nessuno, proprio nessuno nota un uomo sulla quarantina con in mano una grande valigia.
«Buon natale… Buon natale…»
La deposita in fretta nella carrozza e svanisce nel nulla. Il treno riparte. Sono le 18.35. Tu tum tu tum.
Lascia la stazione di Firenze Santa Maria Novella, sfiora Prato con i capannoni del tessile e si avvia verso il tratto appenninico. Il sole è già tramontato da due ore.
In alcuni scompartimenti c’è chi ride e chi discute di calcio e di politica.
Tu tum tu tum.
Il Rapido 904 sembra inarrestabile. Alle 18.55 imbocca la galleria tra Vernio e San Benedetto Val di Sambro.
Dentro il tunnel, il buio è intermittente.
Ogni cento metri le luci delle fotoelettriche rendono tutto più inquietante.
Le 19.08. Tu tum tu tum. Il comando a distanza innesta l’esplosivo contenuto nella valigia posta nella carrozza centrale. La forza d’urto è impressionante.
La deflagrazione crea uno squarcio enorme nel vagone.
La gente urla come impazzita, apre le portiere, si incammina
a piedi lungo la galleria.
Alla fine si conteranno quindici morti, duecentosessantasette feriti.
Per le stragi italiane ad oggi nessuna giustizia.
Nessuno ha pagato per gli omicidi di Roberto Franceschi assassinato dalla polizia la sera del 23 gennaio 1973 davanti all’Università Bocconi di Milano.
Non sono stati scoperti i killer di fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, detto Iaio, colpiti il 18 marzo 1978, in via Mancinelli a Milano.
Nessuna giustizia per Saverio Saltarelli, Franco Serrantini, Claudio Varalli, Giannino Zibecchi, Piero Bruno, Alceste Campanile, Giorgiana Masi, Walter Rossi, Valerio Verbano e centinaia di ragazzi uccisi per le loro idee.
Ma le ingiustizie hanno riguardato anche le storie di mafia.
Primo maggio 1947, in Sicilia. È gran festa a Portella della Ginestra. Sembra ormai estate. In almeno duemila si radunano nel giorno della festa del lavoro. Sono in
gran parte contadini, gente povera che vive di zolle di vita ed ettari di lavoro.
Quelle persone in festa hanno portato da mangiare e da bere.
Come si fa in famiglia.
Ma su quelle colline c’è chi ha piazzato armi da guerra.
Centinaia di colpi in rapida successione.
Undici morti, due bambini e nove adulti. Ventisette feriti.
Solo quattro mesi dopo si scopre una verità ancora parziale.
La mente della strage é la banda di Salvatore Giuliano.
Gente senza valori, predoni, criminali che qualcuno però trasforma in un’armata separatista.
Aprile 1943. Salvatore Giuliano aderisce al Mis, il Movimento indipendentista siciliano, sostenuto dalla mafia. Il movimento nasce dopo lo sbarco alleato, quando nella Sicilia liberata c’è chi si riattiva per far ottenere migliori condizioni di vita ai contadini.
La mafia reagisce come sempre, come sa fare: uccide sindacalisti e militanti politici.
Il Mis non è però sostenuto solo dai mafiosi, ci sono anche siciliani delusi dallo Stato centrale.
Ecco perché il movimento tra il 1943 e il 1947 gode di un notevole sostegno popolare.
Ma già dal 1945, dopo la vittoria contro i nazifascisti, il separatismo perde l’appoggio americano, e sceglie la strada dello scontro armato.
Nasce l’esercito dei volontari per l’indipendenza della Sicilia, di cui Salvatore Giuliano diventa colonnello e assume il comando per la Sicilia occidentale.
Diventa amico di personaggi importanti, appartenenti al mondo monarchico e conservatore siciliano, ma presto abbandona l’utopia separatista per il progetto di debellare militarmente il comunismo in Sicilia.
Sulla strage, restano molti lati oscuri. La vicenda giudiziaria si conclude con la sentenza pronunciata nel 1952 dalla Corte d’Assise di Viterbo: dodici ergastoli e altre cinque condanne per un’ eccidio rimasto senza mandanti.
Salvatore Giuliano era già morto. E con lui i segreti che custodiva.
Passano gli anni e la mafia affina le sue tecniche.
È la sera dell’11 luglio 1979. L’avvocato Giorgio Ambrosoli è un uomo perbene, di poche parole, un professionista, riservato quanto basta.
Da alcuni anni ricopre un ruolo importante, ma scomodo.
È il liquidatore della Banca Privata Italiana del finanziere Michele Sindona.
Nel tempo svelerà i meccanismi dell’economia mafiosa, quella dei colletti bianchi, che si nasconde dietro società pulite, gestite da prestanome.
Gli affari sporchi della mafia politica, quella che non fa rumore, che agisce in silenzio. La mafia che non si scopre.
Milano si è svuotata e le ombre della sera sono avvolte da un caldo umido che non ti fa
respirare e ti penetra nei polmoni.
Sei amici. Si conoscono dai primi anni Settanta.
Le mogli sono in vacanza con i bambini.
Così decidono di vedersi, come ai vecchi tempi. Vanno a mangiare al ristorante. Giorgio Ambrosoli è stanco, turbato, ma quella sera sorride, è cordiale, allegro.
Alle dieci e mezzo i sei amici hanno finito di cenare. In televisione scorrono già le immagini dell’incontro di pugilato tra Lorenzo Zanon e Alfio Righetti.
Fanno a pugni per conquistare il titolo europeo dei pesi massimi.
La casa più vicina al ristorante è quella di Ambrosoli.
Ripartono in macchina.
Ora sono davanti al piccolo schermo nell’abitazione dell’avvocato, a vedere il
match.
Via Morozzo della Rocca numero 1.
Ambrosoli è contento. Una serata come quella era da tanto tempo che non la trascorreva.
Ci si toglie la giacca, si slacciano le cravatte, ora gli occhi di tutti sono puntati su quei due atleti in calzoncini corti che si stanno picchiando.
Il pugilato distrae: la mente di Giorgio Ambrosoli per un attimo si allontana da quei pensieri che lo assillano ormai da troppo tempo.
Un montante secco stordisce Righetti.
Gli occhi fissi sullo schermo, e intanto tornano i ricordi. La memoria si dilata, nel tempo.
1971. Il governatore della Banca d’Italia Guido Carli convoca Giorgio Ambrosoli.
Gli affida l’incarico di commissario liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona.
Pochi mesi prima, dalle indagini sui conti correnti di Sindona, erano emerse gravi irregolarità e strane operazioni bancarie per miliardi di vecchie lire. Sindona è assai potente, ha appoggi internazionali, estimatori nel governo.
Ma Ambrosoli va dritto per la sua strada, cerca la verità. A ogni costo.
La società Fasco di Sindona è una società che ne contiene altre.
Come nel gioco delle scatole cinesi. E in questo enorme cavallo di Troia si nascondono flussi di denaro sporco, proveniente dal narcotraffico, e altri affari illegali.
Centinaia, migliaia di miliardi.
Ambrosoli fa il suo lavoro, fino in fondo. Scioglie il consiglio di amministrazione della Fasco.
Non accetta i progetti di salvataggio di Sindona proposti da politici e faccendieri. Accanto a lui c’è Silvio Novembre, maresciallo della guardia di Finanza. Arrivano le minacce.
Zanon e Righetti si stanno picchiando forte. Il posacenere tracima di mozziconi di sigaretta.
La tensione per l’incontro è alta. I sei amici urlano, la casa sembra il palazzetto dello sport di Rimini.
L’incontro finisce in parità e il titolo di campione europeo resta a Zanon.
È mezzanotte e squilla il telefono. L’avvocato alza la cornetta.
Dall’altra parte, nessuno parla. Tutto il silenzio di una linea telefonica collegata investe i nervi dell’avvocato.
Poi l’anonimo mette giù. Di colpo. Clic.
Ambrosoli scende in strada, saluta due degli amici. Torneranno a casa a piedi. Sulla vettura dell’avvocato salgono gli altri tre. Li accompagna a casa. Poi torna indietro,
parcheggia la sua Alfetta blu davanti all’abitazione.
Scende dalla macchina, sta per chiudere la portiera.
Sente una voce sottile che giunge alle sue spalle.
«Il signor Ambrosoli?»
L’avvocato si gira. «Sì, sono io.»
Tre colpi di Magnum 357 spengono la vita di Giorgio Ambrosoli. Il passo di un uomo perbene.
I tribunali accerteranno che William Aricò, killer della mafia italoamericana uccide Giorgio Ambrosoli su mandato esplicito di Michele Sindona. Ambrosoli viene fermato perché rappresenta lo Stato delle regole e della legalità. E questo molti anni prima di Mani pulite.
Ma non servono solo i grandi intrecci politico-affaristici per comprendere gli interessi delle piovre nel nostro paese. Anche altre storie fanno pensare…
Ha braccia forti e un corpo allungato, come il suo volto.
Capelli mai pettinati, e baffi, e barba. E uno sguardo che osserva lontano.
Al di là delle persone e dei fatti, al di là della sua stessa terra.
È un uomo curioso, Giuseppe Impastato detto Peppino.
A Cinisi c’è nato e cresciuto.
Cinque gennaio 1948.
Il padre, Luigi Impastato, è un commerciante, amico di mafiosi.
Lo zio, Cesare Manzella, è un capomafia, verrà ucciso nel 1963 nel corso di una guerra tra clan.
È giovane Peppino.
Lui ha fatto un giuramento.
«Così, come mio padre, non ci diventerò mai.»
Fonda il circolo Musica e Cultura.
Molti dicono che è matto, ma altri giovani del paese si uniscono a lui. Siamo nel 1976. Insieme a un gruppo di amici mette su una radio libera. La chiama Radio Aut.
Piccola emittente che denuncia le illegalità, i progetti criminali, gli affari della mafia.
Nel 1978 Peppino Impastato decide di candidarsi come indipendente nelle liste di Democrazia Proletaria alle elezioni comunali.
Ma all’appuntamento non arriverà mai.
9 maggio 1978.
Sono le ore 1,40.
Il macchinista del treno Trapani-Palermo, Gaetano Sdegno, è un onesto lavoratore.
Quella tratta di ferrovia siciliana che sfila tra le campagne e i coltivi la conosce bene.
Località “Feudo”, territorio di Cinisi.
Il macchinista avverte uno scossone, ferma la locomotiva e osserva il binario:é tranciato.
Così avverte il dirigente della stazione ferroviaria che, alle 3,45 chiama al telefono i carabinieri.
Arrivano sul posto.
Compiono il primo sopralluogo.
Il binario è divelto per un tratto di circa 40 centimetri e nel raggio di 300 metri sono sparsi resti di una persona.
E’ Giuseppe Peppino Impastato.
Sul posto accorrono decine di paesani curiosi.
I compagni di Impastato vengono tenuti a distanza.
Ciò che rimane del corpo di Peppino viene raccolto in un sacco di plastica e portato via.
Lo stesso 9 maggio il procuratore aggiunto Gaetano Martorana invia un fonogramma al procuratore generale in cui parla di “attentato alla sicurezza dei trasporti mediante esplosione dinamitarda”. Scriveva il magistrato:
<<Verso le ore 0,30-1 del 9.5.1978, persona allo stato ignota, presumibilmente identificantesi in tale Impastato Giuseppe, si recava a bordo della propria autovettura Fiat 850 all’altezza del Km. 30+180 della strada ferrata Trapani-Palermo, per ivi collocare un ordigno dinamitardo, che, esplodendo, dilaniava lo stesso attentatore.>>
Undici aprile 2002, ventiquattro anni dopo.
Le 17.15. A Palermo esce la Corte.
Ergastolo a don Tano Badalamenti. È il mandante dell’assassinio.
Leggo un passo dalle conclusioni della sentenza.
“….Grazie alle dichiarazioni dei collaboratori, non solo si è potuto restringere il cerchio della responsabilità alla cosca di Cinisi, ma anche è rimasto accertato che Badalamenti Gaetano, avvalendosi delle prerogative di capo di detta famiglia, decise l’omicidio e la sua esecuzione con quelle particolari modalità, essendo il maggiore interessato sia all’eliminazione del Giuseppe Impastato, che alla successiva messa in scena dell’attentato; cosicché il composito quadro indiziario, per la sua gravità, precisione ed univocità, impedisce ogni altra lettura alternativa”.
Scrive la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Giuseppe Impastato:
“E’ ancora tutto da scrivere il capitolo del rapporto tra mafiosi e forze dell’ordine. E quando finalmente lo si scriverà si potrà vedere che è popolato da noti capimafia che con i carabinieri trattano, si accordano, fanno dei patti. Un doppio gioco, ma alla luce del sole”.
Chi si ribella alle richieste economiche delle cosche, chi trova coraggio e denuncia pubblicamente gli estorsori non viene difeso né protetto.
Il dottore Grassi?
Senta abbiamo letto la relazione annuale sulla sua azienda e volevamo farle tanti complimenti per come vanno gli affari…
Libero Grassi è proprietario della Sigma, un’azienda sana, a conduzione familiare, specializzata in biancheria intima.
Una società pulita, con i conti a posto, che lavora nel libero mercato italiano.
Vanta un giro di affari di sette miliardi di vecchie lire all’anno.
Grassi è un uomo coraggioso, combatte una battaglia di legalità contro estorsori e usurai.
Si rifiuta di pagare il pizzo per salvaguardare la sua dignità.
Lo fa alla luce del sole, in televisione, alla radio, sulle pagine dei principali quotidiani.
Buongiorno sono il geometra Anzalone, parlo col dottore Grassi?
Senta ma quando le cose vanno bene non è giusto aiutare quelli a cui le cose vanno meno bene?
Ci sono amici, brave persone… che stanno in difficoltà e siccome allei le cose ci vanno bene…
Dottore Grassi, mi ascolti… la sua Azienda fattura sette miliardi all’anno… e ho sentito dire chellei ci ha un grande cuore… e allora… facesse un’opera di bene: una piccola somma per gli amici ospiti all’Ucciardone…
Dottore… ma che fa? Io le dico che c’è gente bisognosa, da aiutare e lei mi sbatte giù il telefono? Ma che modi sono questi? Lei è stato cattivo, perciò ora deve farsi perdonare in qualche modo… Deve pagare.
Dica al Dottore Grassi che il magazzino è infiammabile, che deve stare attento al fuoco, in questo periodo… col vento che tira… in un attimo si brucia il lavoro di anni… lo riferisca al Dottore Grassi… mirraccomando… e gli dica pure… di fare attenzione che in Sicilia è facile farsi male quando non si rispettano le regole…
Libero Grassi continua per la sua strada, pensa alla sua azienda, al suo lavoro, ma le telefonate non cessano più…
Dottore… glielo dico per l’ultima volta: voi dovete pagare.
Proprio mentre la fabbrica era sorvegliata dalla polizia entrarono due tipi strani. Dissero di essere Ispettori di sanità.
Fuori però c’era l’auto della polizia e avevano grande premura.
Volevano parlare a tutti i costi con il titolare.
Libero Grassi li descrisse alla polizia e venne fuori che altri imprenditori avevano fornito le medesime descrizioni.
Gli esattori del pizzo, i due che indifferentemente si facevano chiamare geometra Anzalone, altri non erano che i fratelli gemelli Antonio e Gaetano Avitabile, 26 anni. Furono arrestati il 19 marzo 1991 insieme a un complice.
Voi dovete pagare.
Ecco quello che si sentiva dire al telefono Libero Grassi.
Voi dovete pagare…
Dottore Grassi… voi dovete adeguarvi…
I sicari di Cosa Nostra lo attendono all’angolo tra via D’Annunzio e via Alfieri. Lo uccidono senza pietà, nella sua Palermo, davanti a numerosi testimoni.
Era il 29 agosto 1991.
I suoi assassini sono stati arrestati.
Occhi osservano dall’alto della collina.
Occhi minacciosi, pieni di odio.
Occhi che hanno il colore del tritolo incrociano occhi buoni di uomini e donne.
Sono dentro un’automobile che corre verso la morte.
L’ultima corsa di Giovanni Falcone inizia all’aeroporto di Ciampino, a Roma, sabato 23 maggio 1992.
Sono le 16:50.
Un jet dei servizi segreti decolla con a bordo il giudice e la moglie Francesca Morvillo.
Destinazione Palermo, aeroporto di Punta Raisi.
Atterrerà 53 minuti dopo.
Li attendono 6 agenti con le loro auto, 3 Fiat Croma blindate.
Le vetture si muovono dall’aeroporto alle 17:50.
Falcone sceglie la Croma bianca.
Lui è al volante, la moglie gli siede di poco accanto.
Imboccano l’A29.
La campagna siciliana sfila ai lati con i suoi colori di maggio.
Il sole taglia di traverso i finestrini mentre un caldo vento di scirocco accarezza tutti i loro volti.
C’è odore di mare.
Sulla statale che corre parallela all’autostrada, una Lancia Delta si mette in moto. E’ quella di Gioacchino la Barbera.
Palermo dista solo 7 chilometri.
Le auto si stanno lentamente avvicinando allo svincolo Capaci-Isola delle Femmine.
Dalle colline che sovrastano l’autostrada alcuni uomini seguono la scena, scatto dopo scatto, come se fosse la sceneggiatura di un film.
Ma un film proprio non è.
L’interruttore che mette in moto il meccanismo della strage è un segnale in codice.
Una telefonata ” sbagliata”, entrata nella storia di sangue di Capaci.
” Pronto Mario? ”
” No, ha sbagliato numero. “
Il cellulare di La Barbera squilla alle 17:02.
Sa che quella telefonata non è un errore ma un segnale preciso.
Con lui, in un casolare vicino alla statale, ci sono altri sette uomini.
Sono al vertice di Cosa Nostra.
La Barbera sale sulla sua Lancia Delta e imbocca la strada che corre parallela alla Palermo – Punta Raisi.
Arrivato ad un punto prefissato si ferma e aspetta.
Ferrante e Salvatore raggiungono l’aeroporto.
Gioè e Troìa inseriscono una ricevente vicino a 500 chilogrammi di esplosivo, in un tombino dell’autostrada.
Poi salgono con Brusca e Battaglia sulle colline di Capaci, sotto lo sperone di rocce bianche che interseca il profilo di Montagna Grande.
Dall’autostrada, spuntano 3 Fiat Croma.
La Barbera riparte e le segue a distanza.
Alle 17:49 chiama Gioè sulle colline.
Meno di un secondo e la telefonata s’interrompe.
Sono le 17,56 minuti e 48 secondi, l’uomo della collina, Giovanni Brusca, sfiora il tasto del comando a distanza.
L’impulso raggiunge il tombino dove è collocata la ricevente.
I cinque quintali di tritolo, seppelliti nel canale di scolo, divampano, il boato è enorme, solleva cento metri di asfalto.
Si apre una voragine, larga trenta metri e profonda otto, che risucchia metallo, uomini, alberi, massi.
Sull’altra carreggiata una Fiat Uno verde con due turisti austriaci, e una Opel Corsa sono investite dai detriti.
Fiamme e fumo, poi solo silenzio.
Nella prima auto catapultata a 5 metri gli agenti di scorta muoiono sul colpo: Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani.
Nella seconda, spezzata in due tronconi, il giudice e la moglie, respirano ancora.
Una pattuglia della polizia accosta.
Giovanni Falcone e Francesca Morvillo moriranno all’Ospedale Civico di Palermo, un’ora più tardi.
L’autista del giudice e gli altri due poliziotti, feriti gravemente, sopravvivono.
L’uomo della Lancia Delta è ormai lontano.
Paolo Borsellino lo ripeteva come fosse un’ossessione: «Il mio problema è il tempo».
Lo diceva in quei cinquantacinque giorni dell’estate 1992.
Il 19 luglio 1992 a Palermo è una domenica calda.
Paolo Borsellino pranza in famiglia nella casa di Villagrazia di Carini. Poi, nel tardo pomeriggio, decide di far visita all’anziana madre.
Tra il mare e la casa della signora Maria a Palermo c’è un’autostrada, e quel pomeriggio le tre Croma blindate su cui viaggiano il giudice e la sua scorta transitano vicino allo svincolo di Capaci,
Arrivati in città, raggiungono via Mariano D’Amelio, una strada chiusa, ostruita al fondo da un muro di tufo che recinta un cantiere edile. Paolo Borsellino fa giusto in tempo a citofonare al numero civico 21, quando alle sue spalle esplode una Fiat 126 carica di tritolo.
Muore sul colpo, e con lui i sei uomini della scorta: Antonio Vullo, Emanuela Loi, Walter Cusina, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli e Agostino Catalano.
Così si moriva a Palermo. Soli. Senza la protezione dello Stato che si serve. Senza neanche il tempo di vivere.
Senza un saluto, senza aver chiuso l’ultima pagina di un’inchiesta.
Soli e minacciati… lavorando e basta. Soli…
Semplicemente soli.
È il 27 luglio 1993, Milano si sta spopolando.
Alle 23.15 tutti si fermano.
Un’autobomba esplode in via Palestro, davanti alla Villa Reale.
Il Padiglione d’Arte Contemporanea viene distrutto.
Moriranno cinque persone.
Tre pompieri, un vigile urbano, un immigrato marocchino che dormiva su una panchina del parco.
Altre sette persone rimangono ferite, in maggioranza vigili del fuoco e vigili urbani. Pochi minuti dopo la stessa scena si sposta a Roma.
Due ordigni esplodono, uno sul retro della Basilica di San Giovanni in Laterano dove
ha sede la Curia, l’altro davanti alla chiesa di San Giorgio al Velabro.
Nelle stesse ore viene registrato un black out a Palazzo Chigi.
Rimarrà isolato per alcune ore.
Gli attentati vengono messi subito in relazione a quelli in via Fauro a Roma (14 maggio
1993) e in via dei Georgofili a Firenze (27 maggio 1993, cinque morti).
La macchina utilizzata dagli attentatori è una Fiat Uno imbottita di esplosivo.
Come alla Galleria degli Uffizi di Firenze, anche a Milano si sceglie un luogo d’arte
per il nuovo attentato.
Pochi minuti prima dello scoppio, la Fiat Uno viene segnalata da una coppia di giovani
a una pattuglia di vigili urbani.
Dalla vettura esce infatti del fumo nero.
I vigili pensano subito a un principio d’incendio.
Chiamano con l’autoradio i pompieri che inviano sul luogo mezzi e soccorsi. Tre vigili del fuoco si avvicinano all’auto, tentano di aprire il cofano, si rendono
subito conto della trappola.
È un’autobomba, non un incendio.
Intravedono la miccia a lenta combustione già accesa.
E uno di loro grida: «C’è una bomba».
Ma non fa in tempo a salvarsi. Lo scoppio è devastante.
L’esplosione crea in via Palestro una fossa ampia due metri per tre.
Il Padiglione d’Arte Contemporanea si sbriciola.
Ci vorranno anni per ricostruirlo. Quella di via Palestro a Milano chiude la stagione delle stragi del 1993. Dieci morti, novantacinque feriti.
Firenze. Piazza della Signoria. Poco distante.
Via dei Georgofili, il 27 di maggio si sta bene fuori.
Pennellate di colore: gli occhi della Madonna, il naso del Bambino.
I colori brillano accesi mentre una famiglia cammina senza pensieri cattivi.
Angela Fiume in Nencioni 36 anni
Fabrizio Nencioni 39 anni
Nadia Nencioni 9 anni
Caterina Nencioni 6 mesi
Una famiglia che passeggia prima di rientrare in albergo, tra queste vie fiorentine che crescono uomini di lettere e di pittura.
Le statue sono immobilizzate in gesti antichi.
Meravigliose.
E la vita, ancora sta dando il meglio di se.
Dario Capolicchio 22 anni
L’una di notte.
La pallida luna fa ombra ai rossori degli amanti.
I colori ad olio eterni, si squagliano come acquerelli al calore dei sospiri.
2 ragazzi incollati alla vespa dai baci: gambe incastrate per un amore totale, anche dove non si dovrebbe ma come fai ai suoi sorrisi non prestare ascolto, diventare una cosa sola nell’ombra della strada, stringerla per sempre, non salutarla mai.
“ Ancora 5 minuti… ”
< Devo andare! > e poi entrambi a ridere…
Come fai ad andar via sul serio che parrebbe andassi via per sempre e allora… si, ti bacio, si resto.
< Ancora 5 minuti… non è una fatica: siediti sulla vespa, davanti a me: voglio annusare i tuoi capelli… profumano di lavanda, tiene lontane le zanzare, ma non me che rido attirato nel tuo gioco… ma è tardi. >
“ No… è quasi l’una… ”
< Ti bacio, devo andare. >
“ Ancora 5 minuti ”
< No dai, è tardi, devo andare… a domani. >
“ Si amore, notte. Ti bacio anch’io. Dolce notte. ”
Ancora 5 minuti.
Ma che fine farà la bellezza tra 5 minuti?
In che stato si ridurrà l’Arte fra 5 minuti?
La cera si squaglierà; i colori ad olio si annacqueranno; il marmo si sbriciolerà; gli affreschi si staccheranno in bolle d’aria; il bronzo si fonderà in figure frattali; la pietra franerà mentre le chiavi di volta ormai arrese non riusciranno più a contenere le strutture chiuse nelle loro architetture.
Quale bacio nuovo, bacio vecchio ci sarà? … Se ormai tra 5 minuti, tra 4 minuti, tra 3 minuti, tra 2 minuti, tra un minuto… tra 5 tra 4 tra 3 tra 2 tra 1 secondo… è terra e polvere… è pietra e sassi… è cemento e ghiaia… è torba e catrame… è ferro e gesso… è legno e vetro… è polvere e gomma e fuoco e fumo… e fumo e fuoco… e fumo ancora e polvere e aria e polvere e terra e aria e terra…
Quale opera potrà sublimare tutto questo?
Non c’è stato un duello da narrare, non una battaglia di valorosi, non c’è stata sfida lanciata a tempo debito, o guanto col quale aver schiaffeggiato l’altra parte.
Qui solo vittime innocenti di assassini vigliacchi.
Assassini senza onore marionette di uomini d’onore.
Solo vigliacchi.
Vigliacchi e basta.
Una famiglia: Madre Padre, un bimbo, una bimba appena nata, pochi mesi… ancora 5 minuti e sarebbe stata anche per loro un’altra vita…
Ma la vita è questa: nessun destino umano ha 5 minuti di riserva?
Milano, via Palestro, 27 luglio 1993: cinque morti e sette
feriti.
Firenze, via dei Georgofili, 23 maggio 1993: cinque
morti e trentasette feriti.
La stagione delle stragi comprende anche un fallito attentato allo stadio Olimpico a Roma nell’autunno del 1993.
Nel mirino dovevano entrare un centinaio di carabinieri.
Con quelle azioni la cupola di Cosa Nostra intende dare un messaggio alla politica, alle Istituzioni, per la legge sul 41 bis, il carcere duro ai boss mafiosi.
Il messaggio doveva contenere il terribile T4, contro persone comuni, vittime innocenti, contro il patrimonio artistico del paese.
Per le stragi del ’93 c’è una verità storica e giudiziaria. Ma i mandanti politici non sono mai stati individuati.
Anni dopo. Oggi. La mafia tace.
O almeno ha cambiato metodo.
Non più bombe contro cose e persone.
Non più sangue. Solo una vecchia strategia, quella del silenzio.
La mafia per il momento sta a guardare.
Ancora per il momento.
Scriveva Giovanni Falcone:
<<Un uomo fa quello che è suo dovere fare, quali che siano le conseguenze personali, quali che siano gli ostacoli, i pericoli o le pressioni. Questa è la base di tutta la moralità umana.>>
<<Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini.>>
<<Non è retorico nè provocatorio chiedersi quanti altri coraggiosi imprenditori e uomini delle istituzioni dovranno essere uccisi perchè i problemi della criminalità organizzata siano finalmente affrontati in modo degno in un paese civile.>>
<<Il vero tallone d’Achille delle organizzazioni mafiose è costituito dalle tracce che lasciano i grandi movimenti di danaro connessi alle attività criminali più lucrose>>
«Credo dovremmo ancora per lungo tempo confrontarci con la criminalità organizzata di stampo mafioso. Per lungo tempo, non per l’eternità: perché la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una sua fine».
” Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere ”.
Questa è la nostra memoria. Quella che non deve mai andare dispersa.
Per non dimenticare, grazie
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