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” Non sente gli anni Stragi d’Italia. Ombre nere 1969-1980, pubblicato dalla casa editrice Jaca Book; sia per gli apporti di testimonianze inedite, sia perché il suo autore, Daniele Biacchessi, si conferma uno scrittore dallo stile accattivante senza essere mai superficiale, un giornalista che ha scelto di continuare a raccontare senza remore o paura della verità, che riesce a restituire in maniera chiara ricerche approfondite, senza banalizzarle o dare facili giudizi, e soprattutto senza spettacolarizzazioni, ma con una assunzione di responsabilità in un profondo impegno civile dove l’indignazione per quello che è avvenuto vibra e fa vibrare anche il lettore. Quelle che l’autore raccoglie in questo testo sono vicende dolorose già più o meno note che dovrebbero far parte del nostro patrimonio culturale, argine e antitodo a derive reazionarie. Così non è. Per questo è un libro particolarmente importante, perché l’autore inanella i fatti mostrandoli nella loro essenza. Con la sua capacità di narratore tesse parole mostrando le trame ordite in una stagione terribile di sangue e violenza vissuta dal nostro paese senza che si sia mai compiuta una reale elaborazione di quel periodo e lo fa con una profonda onestà intellettuale, astenendosi dalla forzatura di piegarle a scoop sensazionalistici millantando sconvolgenti rivelazioni.” Claudia Pinelli, Limina Rivista.
“Esistono pagine nei manuali di storia che appaiono misteriosamente strappate. Come tasselli mancanti in un affresco più ampio, intere vicende del Novecento ci interrogano senza voce, in attesa di ritrovare una verità storica che, ieri come oggi, è fondamento democratico e civile., Affondando le mani nei decenni passati, il volume «Stragi d’Italia., Ombre nere 1969-1980» del giornalista Daniele Biacchessi (Jaca Book) descrive una pagina oscura della storia italiana, affrontando le ombre che da Piazza Fontana arrivano alla P2, passando anche per la sanguinosa strage di Piazza della Loggia di Brescia del 28 maggio 1974., Un’indagine che dedica uno spazio importante alle parole dei testimoni, dalle sorelle Pinelli al giudice Salvini, per fare luce sulle ambiguità dello Stato, tra servizi segreti, potenze straniere, estremismi e silenzi istituzionali, terminati con molte assoluzioni e alcune, clamorose, condanne. ” Stefano Malosso, Brescia Oggi.
Perché tornare oggi su questi fatti? Perché oggi – spiega l’autore – «ci sono sentenze e verità che prima non avevamo, molte risposte sono arrivate dai processi. Parte delle ombre, seppure ancora in misura limitata, sono state schiarite, hanno un nome, una provenienza. Esistono documenti che in maniera inconfutabile mostrano il ruolo svolto nella strategia della tensione dallo Stato, dalla massoneria, da gruppi eversivi di destra e da molti esponenti del Msi. La politica deve avere il coraggio di guardare al futuro e di cancellare le ombre che si allungano sulla storia del Paese. E in occasione degli anniversari delle stragi occuparsi della verità, non delle polemiche ideologiche cercando una riappacificazione che non sta in piedi». Pertanto, l’autore ha voluto «mettere in ordine lo stato delle inchieste, dei processi, il senso dei fatti». Antonio Salvati, Globalist.
Lei incontra spesso gli studenti e parla di questo periodo storico. Perché lo fa? “È bellissimo dare alle nuove generazioni, che sono curiose, gli strumenti per conoscere la storia, priva di ideologie, e per saperla interpretare. Ogni volta sono travolto dalle domande, perché cerco di far parlare le storie personali e di far scattare l’empatia, di trasmettere che tra le vittime delle stragi i più erano persone comuni, ad esempio quel turista giapponese che sul treno per Bologna quel giorno voleva solo andare al mare. Racconterò di questo periodo anche in un film che si sta autofinanziando attraverso un crowfunding, intorno si è creato un forte movimento di partecipazione e un interesse da parte dei giovani di dare dignità a un dolore impressionante a cui ogni politica, di ogni colore, non ha mai dato ascolto: quello di migliaia e migliaia di morti e feriti che nella casualità hanno vissuto un dramma nazionale”.Laura Mosca, Il Giorno.
Una lettura urgente, estremamente attuale per il suo portato etico, che ci riporta ad una responsabilità condivisa nei confronti delle vittime, dei “sopravvissuti” a loro vicini, degli instancabili cercatori di verità, affinché la memoria non si spenga e non venga meno il desiderio di conoscere cosa davvero è successo in quegli anni bui per la nostra democrazia.Caterina Bonetti, Gli Stati generali.
Il libro va letto perché la memoria, come dicevamo, va coltivata, difesa, arricchita. E Biacchessi si è assunto con grande impegno e caparbietà questo compito. Sento, infine, un senso di condivisione con l’autore – forse anche per la vicinanza anagrafica – nel raccomandare la lettura di questo libro alle giovani generazioni private (o quasi) nei loro testi scolastici di tanti periodi ed eventi della nostra Storia contemporanea. Stefano Ferrarese, Mentinfuga.
Negli ultimi anni in Italia la crisi economica ha colpito la classe media creando nuovi poveri che si sono aggiunti a chi già versava in condizioni di grave indigenza. Sono gli ultimi, gli invisibili. Così la middle class è diventata proletariato, il proletariato si è trasformato in sottoproletariato e il sottoproletariato è sprofondato nel baratro e si barcamena ben sotto i livelli minimi della dignità. Secondo le rilevazioni ISTAT (Report povertà 2020), l’Italia ha visto peggiorare la condizione di povertà e l’aumento delle disuguaglianze a partire dalla crisi economica del 2008 e la conseguente recessione. Questa tendenza negativa è visibilmente in aumento. Nel 2016, gli individui in condizione di povertà assoluta erano 4 milioni e 700 mila, 5 milioni e 58 mila nel 2017 e oggi toccano la cifra record di 5 milioni e 600 mila. Di questo ed altro parla l’ultimo e pregevole volume di Daniele Biacchessi, I nuovi poveri. Inchiesta sulle disuguaglianze, conversioni ecologiche, mondi possibili (Jaca Book 2022, pp. 192 € 22). Sulla povertà nel nostro Paese, le cifre sono drammaticamente in salita. Infatti, i dati sono ancora più preoccupanti se si raffrontano con quelli degli anni precedenti la crisi economica del 2008: da allora infatti la povertà è aumentata del 182%.
Nel volume si parla di mondi possibili attraverso la realizzazione di buone pratiche e azioni concrete per fronteggiare La Banca mondiale ha identificato la soglia della povertà estrema al livello di 1,9 dollari di retribuzione giornaliera, a parità di potere di acquisto. Ma è opinione largamente condivisa tra i ricercatori economici che questa convenzione sottostimi ampiamente i bisogni reali di un essere umano sano, capace di condurre una vita dignitosa. Un reddito minimo di 7,4 dollari al giorno sembra molto più ragionevole. Nel 2018, oltre 4,2 miliardi di persone (il 60% della popolazione mondiale) vivevano ancora al di sotto di tale soglia, e questo numero aumenterà notevolmente nei prossimi mesi a causa delle conseguenze catastrofiche del lockdown. Quale flusso di reddito annuale – si è chiesto Gael Giraud, economista francese e gesuita – sarebbe necessario per consentire a questa gente di vivere al di sopra di tale soglia? Alcuni analisti hanno sostenuto che costerebbe meno di 13 mila miliardi di dollari. Appare una cifra considerevole: è vicina al Pil nominale della Cina nel 2018. Tuttavia, uno studio della Ong Oxfam mostra che, nello stesso anno, l’1% degli individui più ricchi del Pianeta ha percepito un reddito annuo di 56.000 miliardi di dollari (pari all’80% del Pil mondiale).
L’autore precisa che non è un libro di economia, neppure un trattato sui cambiamenti climatici, un rapporto sullo sviluppo sostenibile, un documento sul green deal, un compendio di urbanistica applicata all’ambiente. È un vero e proprio viaggio lungo le strade delle nuove povertà in Italia e nel mondo che delinea cause ed effetti nel breve e lungo periodo, e indica soluzioni possibili provando a rispondere ad una serie di domande che dovrebbero essere cruciali per qualsiasi agenda politica. Si vuole mostrare il lato nascosto di una nazione, quello della sua povertà, cercando di comprendere perché in pochi in Italia, e non solo, la classe media è diventata proletariato; come si svolge la vita quotidiana di una famiglia di disoccupati che non riesce a sfamare i propri figli; perché il proletariato, specie urbano, si è trasformato invece in sottoproletariato, ed è precipitato negli abissi della povertà assoluta; etc.
Un intero capitolo del libro è tutto incentrato sull’insegnamento e sulla testimonianza pastorale di papa Francesco, soprattutto con le sue encicliche Laudato si’ (2015) e Fratelli tutti (2020). In quest’ultima enciclica il Papa afferma: «L’opzione per i poveri deve portarci all’amicizia con i poveri». È possibile? Se l’amicizia presuppone reciprocità, posso essere amico dei poveri, se io povero non sono o comunque vivo condizioni di vita diverse? Sono oggettivamente domande difficili, sono vere e proprie sfide. Da raccogliere e far proprie.
Papa Francesco ha detto che: «in questo delicato frangente storico, [c’è] un compito non più rimandabile: contribuire attivamente a smilitarizzare il cuore dell’uomo». Gli ebrei parlano di Tikkun Olam, che vuol dire riparare il mondo, preso dal caos. Occorre mettere in moto una rivoluzione culturale. Giustamente Biacchessi ha ricordato Alexander Langer, scomparso prematuramente nel 1995, all’età di 49 anni. Un “profeta” laico a volte contestato e disconosciuto o ignorato, finché è stato in vita, ma un “profeta” che su molte questioni ha visto più lontano dei suoi contemporanei. Il pensiero di Alex Langer è ancora tutto da studiare, valutare, riscoprire, attuare, specie oggi, nel bel mezzo di una pandemia sanitaria dove sono entrati in crisi stili di vita e sistemi economici e di sviluppo. Penso in particolar modo, laddove sostiene che tutto può avvenire, purché ogni passo limitato e parziale si muova in una direzione chiara e comprensibile, e i vantaggi non siano rimandati a un futuro impalpabile, a un libro dei sogni infranti. In altri termini, non si può più voltare lo sguardo, bisogna agire. Questo libro è un atto di accusa contro i responsabili di uno sviluppo economico ormai non più sostenibile, perché nemmeno conveniente ai destinatari dei prodotti, perfino a chi è proprietario degli stessi mezzi di produzione. È un sistema perverso che ha provocato lacerazioni spavento- se, dove un’esigua minoranza di persone detiene gran parte della ricchezza mondiale, mentre il resto dei cittadini del Pianeta vive in condizioni di mera sussistenza o, peggio, negli inferi dell’oscurità. Un mondo condizionato da un’élite di 2.153 “Paperoni” più agiata di 4,6 miliardi di persone, in cui la quota di ricchezza del- la metà più povera dell’umanità, circa 3,8 miliardi di persone, non sfiora nemmeno l’1%, con il 46% della popolazione mondiale che vive con meno di 5,50 dollari al mese. Il Nord America e l’Europa rappresentano il 55% della ricchezza totale nel mondo, con il 17% della popolazione adulta mondiale.
Spesso circola nel linguaggio delle società, nella politica e nel quotidiano un disprezzo per i poveri. Recentemente l’economista Zamagni ha usato il termine aporofobia, una parola greca che vuol dire disprezzo del povero, sottolineando che non siamo di fronte allo scontro classico tra chi sta molto bene e chi sta male. Tutt’altro, «la guerra sociale oggi è stata scatenata dai penultimi nei confronti degli ultimi, perché le élite e i ricchi non hanno nulla da temere dalle politiche ridistributive di cui parlano i governi». Giustamente Luigino Bruni, anch’esso economista, ricordava che «una delle più grandi novità morali dell’umanesimo cristiano ed europeo è l’aver liberato i poveri dalla colpa per la loro povertà. Il mondo antico ci aveva lasciato come eredità l’idea, molto radicata e diffusa, che la povertà non era altro che la maledizione divina meritata per qualche colpa commessa dalla persona o dai suoi avi. I poveri si ritrovavano così condannati due volte: dalla vita e dalla religione […], e i ricchi si sentivano tranquilli, giustificati e doppiamente benedetti».
Il libro ha il pregio di trasmettere e seminare speranza. Negli angoli del mondo, laddove gli ambienti si lacerano, i cristiani e gli uomini di buona volontà, come si sarebbe detto una volta, concorrono a riparare le solitudini e rammendare la vita con la loro presenza. Si tratta di un lavoro paziente e quotidiano, che risana le fratture e costruisce ponti nelle solitudini, che rappresenta il possesso di un regno mite. Per fare Tikkun Olam, gli ebrei compiono ghemilut chassadim, che significa spargere gentilezza amorevole, senza sperare di ricevere indietro. Amicizia e simpatia sono sparse per rifare il mondo, opera dei credenti di ogni fede in uscita. Come ha detto papa Francesco negli Emirati: «in questo delicato frangente storico, [c’è] un compito non più rimandabile: contribuire attivamente a smilitarizzare il cuore dell’uomo». Smilitarizzando i cuori, è Tikkun Olam: si ripara la terra. Antonio Salvati, Globalist.
L’ITALIA LIBERATA STORIE PARTIGIANE
L’ALTRA AMERICA DI WOODY GUTHRIE
“Nell’America di Trump, una figura come quella di Woody Guthrie sarebbe augurabile anche solo come contrappeso del quotidiano. a suggerirlo con un lavoro tutt’altro che nostalgico, anzi acceso e vivo di una forte coscienza civile l’istruttivo ultimo libro di Daniele Biacchessi.” Enzo Gentile, Sole 24 ore Domenicale
“Veloce, essenziale, diviso in un lungo capitolo biografico e critico, seguito da rapidi affondi sui diversi aspetti della vita e dell’opera del grande folk singer, il libro di Biacchessi e un modello di sintesi esaustiva.” Andrea Colombo, Alias, Il Manifesto
Daniele Biacchessi tra i cento nomi del 2017 secondo Gianni Mura di Repubblica per il libro “Una generazione scomparsa” e per l’omonimo film con Giulio Peranzoni
“Una generazione scomparsa (libro più film, ed. jaca Book), è dedicato ai mondiali in Argentina del ’78, il calcio che abbiamo visto, gli orrori che non si potevano nemmeno immaginare, i voli della morte e le Madri di Plaza de Mayo, Videla e Licio Gelli in tribuna” Gianni Mura, La Repubblica
“….Il libro è “Una generazione scomparsa” (ed. Jaca Book). Sottotitolo: “I mondiali in Argentina del 1978”. L’ha scritto Daniele Biacchessi, giornalista di Radio24. Molto documentato, racconta gli orrori della giunta militare, i desaparecidos, la non casuale presenza di Licio Gelli in tribuna d’onore il giorno della finale, la frase di Menotti ai giocatori prima di incontrare l’Olanda: «Non vinciamo per quei figli di puttana, vinciamo per alleviare il dolore del nostro popolo». Storie terribili, per non dimenticare. Geraldina Colotti, le Monde Diplomatique
“Il libro di Daniele Biacchessi Una generazione scomparsa, ha come fulcro i mondiali in Argentina del 1978. In tribuna d’onore per assistere alla finale Argentina-Olanda ci sono tutti i membri della Junta militare al potere dal 24 marzo del 1976. Accanto a loro, fuori dai riflettori, c’è il Venerabile della loggia massonica P2 Licio Gelli, imprenditore e amico personale dei militari. A poche centinaia di metri dallo stadio di Buenos Aires, è attivo uno dei centri clandestini di tortura, l’Esma, da cui partono i voli della morte. La vittoria per 3 a O della squadra argentina sembra il simbolo della potenza della dittatura. Ma, intanto, è già cominciata la marcia delle Madres de Plaza de Mayo: le donne con il fazzoletto bianco in testa, che riescono a denunciare al mondo la situazione attraverso la televisione olandese. Il volume, a carattere compilativo e articolato in 16 “atti” più uno finale, ricapitola le principali tappe della loro battaglia in un’Argentina trasformata «in un immenso campo di concentramento, non visibile, coperto da occhi indiscreti». Ricorda i delitti del Plan Condor, i paesi coinvolti nel piano criminale a guida Cia per eliminare gli oppositori alle dittature sudamericane di quel periodo. In Argentina, il velo si comincerà a squarciare davvero solo durante i governi kirchneristi, con l’abolizione delle leggi che proteggevano l’impunità, i processi politici e il ritrovamento di molti bambini rubati dai repressori e dati a famiglie compiacenti perché crescessero secondo i codici dei torturatori. Il capitolo conclusivo parla del processo Esma e di quello al Plan Condor, che si sono svolti a Roma per condannare l’uccisione o la scomparsa di cittadini di origine italiana. L’autore chiede allo scrittore cileno Luis Sepulveda – che per pochi mesi ha fatto parte del Gap, il gruppo scelto per difendere il presidente Salvador Allende – come racconterebbe a un giovane quell’esperienza. «Quei giorni, quegli anni – risponde Sepulveda – li ricordo come intensamente felici. Perché essere di posti a dare tutto per una giusta causa, anche se sei molto giovane, è qualcosa che ti offre la migliore ragione per vivere”. Gianluca Modolo, “Il mundial di Videla”, La Repubblica
“Quella notte del 25 giugno 1978, all’Estadio Monumental di Buenos Aires, Argentina-Olanda finisce 3 a 1. Quella notte la coppa del mondo di calcio passa nelle mani insanguinate di Videla e della sua giunta militare. Quella notte anche gli aguzzini dell’Esma abbracciano le loro vittime. Quella notte l’intero Paese è in festa: dai cieli dell’Argentina non cadono più corpi lanciati dagli aerei verso l’oceano. Ma solo per quella notte. Dalla presa del potere nel ‘ 76 alle torture e i rapimenti, dai desaparecidos alle proteste delle madri di Plaza de Mayo fino all’ombra della P2, con questo libro ( che ora diventerà anche un film, grazie al crowdfunding) Daniele Biacchessi rimette insieme i tasselli dell’Olocausto argentino.”Flaviano De Luca, “Una generazione da sterminare senza pietà, Il Manifesto
“Uno sterminio di migliaia di civili lucidamente pianificato a tavolino da militari criminali. L’orrore infinito delle vittime negli anni della dittatura argentina, dal 1976 al 1983. Un paese trasformato in enorme campo di concentramento dove studenti, professori, peronisti, sindacalisti vengono eliminati – senza prove e senza processo – per le idee che professano e diffondono. Una pagina di storia che ricorda i genocidi nazisti e altri crimini contro l’umanità ripercorsa con dichiarazioni, dati, confessioni e uno stile essenziale nel libro Una generazione scomparsa. I mondiali in Argentina del 1978, scritto da Daniele Biacchessi (Jaca Book, pp. 130, euro 14) che diventerà nei prossimi mesi anche un film, coi disegni in ldp (live digital painting) di Giulio Peranzoni, finanziato col crowdfunding. Aiutato dalla sentenza del processo italiano contro gli aguzzini di tre connazionali, Biacchessi mette in fila i casi di tante persone «illegalmente sequestrate, clandestinamente detenute, torturate e poi uccise», dalla notte delle matite spezzate (contro gli studenti delle scuole superiori) alla squadra di rugby di La Plata, atti precisi e puntuali, sulla base del rapporto «Nunca Mas», scritto dalla Comision Nacional sobre la Desaparicion de Personas, insediata dal governo Alfonsin nel 1984. Attraverso testimonianze viene fuori l’infamia degli ufficiali dell’Escuela de Mecanica de la Armada, l’Esma, una delle principali centrali di torture, quella incaricata dei voli della morte, la maniera per assassinare gli oppositori senza lasciare tracce. «Sono andato in cantina, dove c’erano quelli che avrebbero volato. Giù non restava nessuno. Fu loro detto che sarebbero stato trasferiti al Sud e che per questa ragione sarebbero stati vaccinati. Furono così vaccinati cioè fu loro somministrata una dose per intontirli, un sedativo. E così li si addormentava. Dopo sono stati messi su un camion della Marina, un camion verde con un telone – ricorda Alfredo Scilingo, capitano di corvetta, nel libro di Horacio Verbitsky, Il volo – Una volta che avevano perso i sensi venivano spogliati e quando il comandante, a seconda di dove si trovava l’aereo, dava l’ordine, si apriva lo sportello e venivano gettati di sotto nudi, a uno a uno», cadendo da tremila metri, il corpo e le ossa si rompevano contro quella superficie, i poveri resti venivano fagocitati dalle acque nere dell’oceano. Si tratta di fatti acclarati eppure leggere di sequestri di bambini, atti di tortura, prigionieri incappucciati e tenuti in catene, necessità fisiologiche alla presenza di carcerieri, uccisioni insensate fa ancora oggi venire i brividi e fa capire come si ipotizzino oltre cinquantamila desaparecidos, sparizioni. E poi il «Piano Condor», l’operazione militare segreta contro oppositori residenti all’estero, ideato dalla Cia per sostenere le dittature «amiche» nell’America del sud. Il campionato di calcio del 1978 diventa il mondiale della vergogna, con la giunta militare che vuole offrire lo spettacolo di un paese ordinato e tranquillo, con la nazionale albiceleste che batterà in finale l’Olanda per 3-1 e il capitano Passarella col trofeo in tribuna mentre Mario Kempes si rifiuterà di stringere la mano, lorda di sangue innocente, del generale Videla.A poche centinaia di metri dallo Estadio Monumental, anche gli ufficiali e i soldati dell’Esma festeggiano, esultando e abbracciando le loro vittime agonizzanti. Anche le Madri di Plaza de Mayo, il gruppo di donne che staziona davanti alla residenza presidenziale per chiedere notizie dei propri figli scomparsi, saranno vittime di agguati e uccisioni con membra senza vita ritrovati nelle insenature atlantiche. C’è poi l’ultimo colpo di coda dei militari, la guerra delle Falkland/Malvinas, perduta in pochi giorni, nel 1982, contro la Gran Bretagna. La generazione scomparsa non avrà giustizia nemmeno postuma perché le commissioni d’inchiesta insediate finiscono per mandare liberi (con l’indulto o con pene lievi) l’accolita di spregevoli assassini. Solo il presidente Pertini avrà il coraggio di mandare messaggi durissimi agli ipocriti vertici argentini «io ho protestato e protesto in nome dei diritti civili e umani e in difesa della memoria di inermi creature vittime di morte orrenda. È tutta l’umanità che deve sentirsi ferita e offesa». Massimo Grilli, Corriere dello sport
“E’ un libro importante, questo di Daniele Bianchessi, che ne ha tratto anche un film, sotto la regia di Giulio Peranzoni (il DVD è allegato al volume). E’ la ricostruzione di quanto avvenuto in Argentina negli anni dal 1976 al 1983, la dittatura dei Colonnelli, la tragedia dei Desaparecidos. Pochi tentarono di opporsi, tra cui una squadra di rugby, il Plata Rugby Club, della cui rosa scomparvero in sedici. Nel 1978 l’Argentina organizzò e vinse il Mondiale di calcio (3-1 in finale sull’Olanda, in tribuna anche Licio Gelli, il Venerabile della P2) un evento diventato strumento di propaganda per il regime. A pochi metri dallo stadio della finale, a Buenos Aires, sorgeva l’Esculea de Mecanica de la Armada, L’Esma, uno dei centro di tortura più famigerati. Qui, per una sera, le uniche grida che si sentirono furono quelle determinate dalle prodezze di Kempes e compagni. Pochi giorni dopo, il Mondo conoscerà il coraggio delle Madri di Plaza de Mayo. Qualcosa, lentamente, stava cominciando a cambiare.” Monica Zornetta, Avvenire
“Quando Mario Kempes, senza più i baffi, segnò il suo secondo gol contro l’Olanda, lo stadio El Monumental di Buenos Aies esplose in un boato fragoroso e irreale. In quella finalissima della Copa Mundial de Futbòl, gli oltre settantamila spettatori sugli spalti svanirono all’improvviso sotto la pioggia impetuosa di papelitos e allo sventolio gioioso delle bandiere albicelesti. Il pallone, praticamente incollato ai piedi del Matador fin dal limite dell’area di rigore, riuscì a passare sotto il corpo del portiere olandese – quel Jan Jongbloed che dopo l’esordio in nazionale, nel 1962, ne era rimasto fuori una dozzina d’anni – per essere riconquistata pochi istanti dopo dallo stesso Kempes e da lui infilata, senza troppi convenevoli, nella porta vuota. Quel pomeriggio del 25 giugno 1978 ad applaudire la doppietta del cordobese e il fatale assolo finale del bahiense Daniel Bertoni contro un’Olanda povera di gol e orfana di Cruijf, c’erano, nella tribuna d’onore, i generali golpisti che quel mondiale lo avevano voluto e in un certo senso diretto: Jorge Rafael Videla, Emilio Eduardo Massera, Orlando Ramon Agosti. Accanto ai loro, vestiti in abiti borghesi, e vicino allo stuolo di alti ufficiali che da due anni comandavano col pugno di ferro il Paese, si stagliava una figura occhialuta che pochi avevano visto prima: era quella di un italiano sui sessant’anni, amico di taluni vecchi presidenti argentini, che da un po’, grazie alla sua abilità di “tessitore occulto” avvezzo ai doppi giochi e alle dittature, teneva in tasca anche un passaporto di quello Stato. Il suo nome era Licio Gelli. Mentre l’arbitro, il piemontese Sergio Gonella, fischiava la fine della gara e le piazze e le strade di Baires si riempivano di argentini trionfanti e di orgoglio nazionale, a poche centinaia di metri dal Monumental, nelle oscure e fredde stanze della Escuela Superior de Mecánica de la Armada – la scuola di formazione degli ufficiali della Marina, divenuta, con l’insediamento della Giunta, il più grande lager clandestino d’Argentina – anche le guardie incaricate di seviziare, torturare e umiliare i prigionieri, esultavano insieme con i loro capi: «Abbiamo vinto! Abbiamo vinto!».Comincia da qui, dalla storica finalissima dei mondiali voluti dal regime di Videla & C. per occultare al mondo i propri orrori e le proprie barbarie, “Una generazione scomparsa”, il film diretto dal giornalista Daniele Biacchessi e dall’illustratore Giulio Peranzoni – già autori nel 2016 dell’opera “Il sogno di Fausto e Iaio” – con la nuova tecnica Ldp-live digital painting. E’ un importante progetto della memoria, realizzato grazie al crowdfunding e anticipato da un libro uscito a maggio per Jaca Book, dove Biacchessi ripercorre in undici “atti” gli eventi che hanno preceduto il colpo di Stato del 24 marzo 1976 fino ai processi ai militari genocidi, cominciati nella metà degli anni Ottanta. Dall’istituzione del “Processo di riorganizzazione nazionale” al ruolo sotterraneo di Gelli, della P2 e degli Stati Uniti; dai rapporti d’affari del governo e di molte industrie italiane con i repressori, fino alle loro vittime che contano, ancora oggi, 30 mila Desaparecidos. E ancora, dal coraggio delle Madri e delle Nonne di Plaza de Mayo ai racconti di alcuni sopravvissuti all’inferno dell’Esma; dal crollo della dittatura (nel 1983) alle libere elezioni che hanno portato alla Casa Rosada Raul Alfonsìn e all’istituzione di una Commissione nazionale per fare luce sulla scomparsa delle persone, presieduta dallo scrittore Ernesto Sabato.
“L’importante libro storico di Daniele Biacchessi denuncia con una fitta e sempre ben documentata trattazione che in Argentina fino al 1983 si susseguono anni contrassegnati da numerosi governi militari e pochissimi esecutivi eletti con voto popolare e democratico. “L’Argentina subisce un colpo di Stato ogni dieci anni” scrive Biacchessi. “Nel 1955 una Junta militare elimina Peròn, chiude il Parlamento, la corte suprema di giustizia e impone lo stato d’assedio. Il capo dell’esercito scioglie tutte le istituzioni democratiche e ogni attività politica e sindacale, allaccia rapporti sempre più stretti con le alte autorità ecclesiastiche e con l’organizzazione clericale Opus Dei, che ottiene un importante ruolo governativo”. Nel frattempo, accanto ai montoneros, si organizza l’esercito rivoluzionario del popolo, un gruppo d’ispirazione trotzskista che mette in atto una resistenza urbana contro le forze armate e la polizia federale, e combatte contro la Junta militare al potere in Argentina dal 1966. Ma nel Paese intanto crescono le attività dell’Alleanza Anticomunista Argentina, una formazione paramilitare della destra eversiva con il sostegno delle forze armate, responsabile di omicidi e attentati contro militanti di sinistra, sindacalisti e peronisti di sinistra. Vengono impiegate le forze armate per la lotta contro i montoneros e i gruppi rivoluzionari resistenti, mentre gli squadroni della morte scorazzano per il paese con il privilegio di impunità totale. In Argentina vengono aboliti tutti i diritti civili, politici e sindacali. I golpisti non trovano alcuna resistenza e opposizione. Il vero obiettivo dei dittatori argentini è eliminare i loro nemici: militanti di sinistra, montoneros, peronisti, radicali, trotskisti. La persecuzione politica è clandestina, senza camionette e blindati. Nel centro di Buenos Aires tutto sembra continuare nella più assoluta normalità. Fino al 1983, l’Argentina di Videla si trasforma in un immenso campo di concentramento, non visibile, coperto da occhi indiscreti, ma che opprime un intero popolo nel terribile Olocausto argentino. L’Operazione Condor nasce dopo il colpo di Stato in Cile dell’11 settembre 1973. Progetta delitti e arresti illegali contro oppositori residenti all’estero. “Il segretario di Stato americano Henry Kissinger è certamente a conoscenza dell’Operazione Condor, tramite i suoi rapporti accertati con Contreras, con la C.I.A. e altri apparati internazionali coinvolti”. I killer dell’Operazione Condor si servono anche di uomini della destra eversiva italiana. A sostegno delle madri di Plaza de Mayo si contano innumerevoli concerti e canzoni come “Madri dei Desaparecidos” del gruppo irlandese U2 e di Sting, l’ex leader dei Police. Dopo l’arresto dei loro genitori, dopo la nascita in carcere, centinaia di bambini ancora in fasce vengono affidati a famiglie di militari e a membri dell’alta borghesia, legati alla dittatura. I genitori naturali vengono invece torturati e poi uccisi, gettati dagli aerei nei voli della morte e sepolti in fosse comuni: desaparecidos. Questi fatti, che scuotono le coscienze del mondo civile, si accompagnano alla miseria programmata imposta dalla politica economica del governo dittatoriale, in cui va ricercata la spiegazione di questi gravissimi crimini contro l’umanità, che coinvolgono il sistema delle multinazionali americane e internazionali, volto a strozzare l’Argentina. “La dittatura, privatizzando le banche ha messo i risparmi e il credito nazionale nelle mani delle banche straniere e indennizzando la Itt e la Siemens, ha premiato le imprese che hanno truffato lo Stato, aumentando i profitti della Shell e della Esso” come scrive il giornalista, scrittore e intellettuale Rodolfo Walsh, in una lettera al governo militare, in cui denuncia i crimini della dittatura.. “I lavori portati a termine per i campionati mondiali del 1978 offrono agli osservatori internazionali un falso prototipo di efficienza, ordine e tranquillità dell’Argentina sotto il regime militare” denuncia Biacchessi nella trattazione storica. “E in Italia? in Italia il problema del regime argentino e della repressione quasi non esiste. La stampa italiana si limita a occuparsi del fatto sportivo e non approfondisce l’analisi della situazione politica e sociale del Paese. Le manifestazione delle madri di Plaza de Mayo vengono ignorate dai nostri mezzi di informazione. La dittatura Argentina cercò di utilizzare il mondiale del 1978 per coprire i crimini terribili che stava commettendo”. Licio Gelli ha intessuto una grande rete di rapporti in Argentina con personaggi di alto livello della politica, dell’economia, della finanza così vasta da consentirgli di acquisire privilegi impensabili per un qualsiasi cittadino straniero. Lo stesso colpo di Stato dei generali con il loro programma chiamato “Processo di Riorganizzazione Nazionale” risulta troppo simile al Piano di Rinascita della P2 e governo e diplomazia italiana scelgono il silenzio sul dramma dei diritti umani per non perdere la possibilità di fare affari con l’Argentina, attraverso cooperazioni e scambi commerciali. Il presidente della Repubblica Sandro Pertini esprime una totale indignazione, inviando un telegramma durissimo al governo argentino, denunciando l’agghiacciante cinismo del comunicato col quale si annuncia la morte di cittadini argentini e stranieri scomparsi in Argentina nei tragici anni trascorsi sotto la dittatura militare, collocando i responsabili fuori dall’umanità civile: “Esprimo lo sdegno e la protesta mia e del popolo italiano in nome degli elementari diritti umani, così crudelmente scherniti e calpestati”, scrive il nostro Presidente Partigiano.”. Laura Tussi, Peacelink
FAUSTO E IAIO LA SPERANZA MUORE A 18 ANNI
La tomba di Fausto Tinelli è al cimitero di Trento, dove lui nacque 56 anni fa. Cinquantasei anni, ma lui non li ha vissuti. È stato ucciso a 18 anni, a Milano, insieme al suo grande amico Lorenzo Iannucci, detto Iaio . Una storia che i trentini poco conoscono. Il 18 marzo 1978, due giorni dopo il rapimento di Aldo Moro, vennero uccisi lui e Iaio a Milano, in via Mancinelli, da otto colpi di pistola sparati da un commando di tre killer professionisti, rimasti finora ignoti. Una storia intricata, da cui emergono – ed è incredibile per due ragazzi di 18 anni – ombre e verità scomode, che vedono implicati malavita, neofascisti, servizi segreti e forse anche le Brigate rosse. I giovani, questo pare ormai assodato, furono uccisi perché stavano conducendo indagini sullo spaccio di eroina nel loro quartiere ed erano frequentatori del centro sociale Leoncavallo. Ma si ipotizza anche che stessero raccogliendo prove sulla presenza di un covo delle Brigate rosse in via Montenevoso, dove Fausto abitava. A diciannove anni dalla prima edizione, torna la versione aggiornata di un libro, Fausto e Iaio, diventato ormai un punto di riferimento per il giornalismo d’inchiesta nel nostro Paese. Lo ha scritto Daniele Biacchessi, caporedattore di Radio 24 la radio del Sole 24 ore. Biacchessi racconta la storia di ragazzi uccisi solo per le loro idee, in una città plumbea e violenta in quegli anni. E narra le indagini ufficiali e quelle parallele, fino a formulare alcune ipotesi investigative ancora attuali, dopo le ultime inchieste su Mafia Capitale e Massimo Carminati , all’epoca degli omicidi legato alla banda della Magliana, e a conoscenza di molte cose. Quello di Fausto e Iaio, per Biacchessi, fu un omicidio organizzato da neofascisti e dalla banda della Magliana. «Questa è la verità che non si potrà archiviare. E che dice molto sugli intrecci fra criminalità e servizi segreti che ancora affliggono il nostro Paese», sostiene Biacchessi.
Daniele Biacchessi, Fausto e Iaio. La speranza muore a diciotto anni, Baldini e Castoldi, 194 pagine, 12 euro
Questa è la storia di due ragazzi del quartiere Casoretto di Milano, Fausto Tinelli e Lorenzo Iaio Iannucci. La storia di due ragazzi che volevano soltanto vivere.E qualcuno ha interrotto le loro speranze e il loro cammino. Come racconta l’Autore Daniele Biacchessi, in modalità narrative e giornalistiche molto dettagliate, puntuali ed eloquenti, ricostruendo date, luoghi e soprattutto nomi e cognomi di personalità, persone e personaggi coinvolti nella vicenda, il vero movente dell’omicidio di Fausto e Iaio resta ancora celato, forse perché nasconde un segreto indicibile, un mistero non chiarito, che però in questo libro d’inchiesta già s’intravede. Fausto e Iaio sono due giovani che vivono il clima fervente e passionale della contestazione, ma al contempo teso e lugubre degli anni di piombo. Frequentano il centro sociale Leoncavallo, a quei tempi, fucina di ideali, passioni e lotte giovanili. Si vestono con jeans scampanati, camicie a quadretti, giubbotti con le frange e portano i capelli lunghi. I ragazzi del Leoncavallo e del Casoretto leggono Sartre e Marcuse, Ginsberg e Ferlinghetti, Baudelaire e i poeti francesi. Al quartiere popolare Casoretto di Milano vivevano soprattutto operai delle grandi industrie di Sesto San Giovanni: gente che anni prima aveva attraversato l’Italia da sud a nord per un pezzo di pane. Quella sera in via Mancinelli, Fausto e Iaio incrociano altri due giovani dall’accento romano che si avvicinano con fare sbrigativo e li bloccano. I quattro si trovano faccia a faccia. Il senso di Fausto e Iaio si spegne per sempre sotto i colpi di otto proiettili, sparati da un killer professionista…
Iaio sembra un’indio dai capelli neri; non fa parte di un’organizzazione politica e partitica, è un “cane sciolto”. Si avvicina all’area dell’Autonomia, ma rifiuta le etichette. Con Fausto Tinelli, il ragazzo dagli occhi gentili, si conoscono da bambini, mentre giocavano, con i calzoni corti, alla parrocchia di Santa Maria Bianca nel cuore del Casoretto. Fausto politicamente è un libertario, ma simpatizza per Lotta Continua. Non è un militante, non accetta le gerarchie. Per queste è simile all’amico Iaio.
La notizia dell’omicidio di via Mancinelli fa in breve tempo il giro della città.Nel quartiere giungono militanti dei gruppi della sinistra extraparlamentare, giovani del Leoncavallo, ragazzi dell’oratorio, pensionati, operai, studenti, disoccupati, donne e bambini. L’omicidio è rivendicato dalla destra eversiva.
Così inizia il processo di controinformazione: un gruppo di giornalisti d’inchiesta che non cercano lo scoop ad ogni costo, ma la verità dei fatti, quelli scomodi, spesso insabbiati dalle autorità politiche e dai servizi segreti. Tra questi il giornalista Mauro Brutto, ricordato dal caro amico Giovanni Pesce, partigiano, capo dei GAP a Torino e a Milano, durante la Resistenza, nel libro “Un uomo di quartiere” edito da Mazzotta nel 1988. Mauro Brutto stava indagando sul connubio tra trafficanti di eroina, fascisti milanesi e romani, apparati dello Stato e si stava inoltre occupando delle infiltrazioni nelle brigate rosse da parte dei servizi segreti italiani. Così Brutto viene barbaramente assassinato.
Il delitto di Fausto e Iaio è come un puzzle composto da minuscoli pezzi di verità: alcuni hanno forme complicate, altri invece si incastrano perfettamente tra di loro, formando un primo quadro d’insieme, dove le ipotesi si concretizzano.
Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci detto Iaio avevano 18 anni.Il 18 marzo 1978, due giorni dopo il rapimento di Aldo Moro, vengono uccisi a Milano da un commando di killer professionisti, rimasti attualmente ancora ignoti. Daniele Biacchessi racconta la storia di ragazzi uccisi solo per le loro idee, in una città lugubre e violenta come la Milano di quei tempi. Biacchessi narra le indagini ufficiali e indaga le fonti parallele, fino a formulare ipotesi investigative sempre attuali, soprattutto dopo le ultime e recenti inchieste su Mafia Capitale e sul primo responsabile Massimo Carminati. Dopo molti anni dal duplice omicidio, esce la versione aggiornata di questo libro, che costituisce una pietra d’angolo di verità, un punto di riferimento per la controinformazione e il giornalismo d’inchiesta nel nostro martoriato Paese. L’omicidio di Fausto e Iaio fu organizzato da neofascisti e da uomini della banda della Magliana: questa è l’autentica verità che non si potrà mai archiviare. La verità molto eloquente rispetto agli intrecci tra criminalità e servizi segreti che ancora affliggono il nostro Paese.
Perché di tanti omicidi politici degli anni Settanta, oggi si ricordano soprattutto quelli di Fausto e Iaio, Peppino Impastato e Valerio Verbano? Per Fausto e Iaio, Peppino e Valerio il dolore si è trasmutato da personale a generazionale, in un processo riconosciuto da una comunità più ampia rispetto alla ristretta cerchia di persone e si è sviluppato attraverso una narrazione collettiva estesa che ha prodotto libri d’inchiesta, romanzi, documentari cinematografici e televisivi, spettacoli teatrali e film di grande successo, come “Cento passi” di Marco Tullio Giordana, e ancora corti cinematografici, percorsi didattici e persino canzoni, tra cui ricordiamo la bellissima “Perché Fausto e Iaio?” dei Gang. Solo così quella storia si è potuta trasformare in epica, ossia in grande Storia, in una narrazione corale su un pezzo di memoria italiana che si ricongiunge all’oggi come un ponte tra generazioni, nel grande “mosaico di pace” che compone l’epica narrativa della memoria storica.
Da anni, ormai, abbiamo l’impressione di essere circondati da un?enorme quantità di ricorrenze memoriali, al punto che taluni storici e intellettuali, sacerdoti della buona memoria, ne hanno scritto con preoccupazione, denunciando una sorta di bulimia delle giornate memoriali, nell’Italia del XXI secolo. A leggere il nuovo libro di Daniele Biacchessi I carnefici (Sperling & Kupfer) pare proprio che non sia così. Se è vero che esistono ricorrenze sulle quali ormai la critica è concorde (si pensi alla frequente retorica messa in campo spesso, il 27 gennaio, per la Giornata della Memoria sulla Shoah, sancita da una legge), ci sono ancora oggi fatti storici che hanno riguardato il nostro Paese e migliaia di vittime civili innocenti, che sono caduti nell’oblio, e sui quali nessun programma di storia getta una luce, per ricordare e conoscere. Fatti sui quali sarebbe bene soffermarsi perché consentono di comprendere non solo la barbarie del passato, ma anche aspetti dell’animo umano, e della nostra capacità di reagire all?orrore o di cadere nella sua ripetizione. Bardine di San Terenzo, Vinca, Monte Sole, Boves, Meina, Napoli, Caiazzo, Sant’Anna di Stazzema, la Certosa di Farneta, per citare solo alcuni nomi di località (anche in modo geograficamente disordinato), non sono solo luoghi turistici tranquilli, dove trascorrere giornate serene. Come ci ricorda Biacchessi, sono tra i tanti piccoli e grandi centri abitati dove tra l’estate e l’autunno del 1944 si è scatenato l’inferno della guerra totale contro la popolazione inerme, ordita dai tedeschi occupanti e dai fascisti della Repubblica sociale, loro zelanti collaboratori o suggeritori. Gli specialisti, da alcuni anni, conoscono questa storia, che conta quasi diecimila civili sterminati, ma la maggioranza degli italiani, dei professori, dei giovani, se non abitanti dei luoghi coinvolti nelle stragi, non sanno ancora di che cosa si parla. E l’oblio di quei fatti di sangue orribili ha certo a che fare con la memoria storica divisa degli italiani, con un ripetuto voler nominare i protagonisti di questa storia d’Italia con i nomi di «vincitori» e «vinti»; o, come suggerisce Biacchessi, con la latitanza di una giustizia che non ha punito o non ha voluto punire, pur sapendo, i criminali responsabili, tra le truppe tedesche e i fascisti italiani. Lo spunto di questo lunga e puntuale ricostruzione storica è l’incontro tra un testimone delle stragi perpetrate sull’Appennino tosco-emiliano (nonno Giuseppe) e uno dei suoi nipoti, Carlo, che abita a Milano e «torna a Monte Sole in vacanza con la famiglia». Insieme, mentre tutti vanno a dormire, trascorrono l’intera notte. Nonno Giuseppe racconta, mostrando documenti e fotografie, il giovane Carlo con il suo tablet naviga in Internet, anche su suggerimento del nonno, per verificare quanto è riportato dalla Rete, di quella tragica storia.Per informarsi, occorre sapere che cosa cercare. Biacchessi scrive per ostacolare l’oblio dei fatti, anche perché nessuna giustizia è stata fatta per quelle stragi. Così, quello del nonno Giuseppe, «è un lascito morale ed etico, un testamento composto da libri, documentazione giudiziaria, ricordi personali e di una comunità», perché «nulla vada mai disperso e dimenticato. Perché la memoria possa diventare cosa viva».A leggere questo saggio, tutti noi dovremmo diventare passatori di memoria, come il nonno Giuseppe di Biacchessi, per le nuove generazioni, per i nostri figli e nipoti. Perché quella storia non si ripeta mai più.
“Sono un sopravvissuto. Uno che ha visto l’orrore. Uno che non vuole dimenticare”: così esordisce il libro “I carnefici”, edito da Sperling & Kupfer. È l’ultima delle molte opere d’impegno civile del noto giornalista d’inchiesta Daniele Biacchessi, voce libera, fuori dal coro, per la verità e la giustizia nel nostro dilaniato Paese. Daniele Biacchessi, con il suo impegno culturale e civile, da anni tiene testa al revisionismo, al rovescismo, al negazionismo più subdoli che spopolano, purtroppo, soprattutto nei mercati editoriali contemporanei. Il racconto del libro si dipana nella narrazione di storie nella Storia da parte di nonno Giuseppe, superstite della strage sull’acrocoro di Monte Sole, il 29 settembre 1944. Il nonno racconta il susseguirsi impietoso degli eventi al nipote Carlo – figura di riferimento autobiografica – e mostra un tesoro fatto di fotografie ingiallite, mappe militari consunte, cartine geografiche e carte processuali. I partigiani sono in Italia una esigua minoranza: la maggior parte degli italiani osserva gli avvenimenti dalla finestra, riempiendo le piazze per applaudire Benito Mussolini ai suoi comizi. In Italia i nazisti attuano lo stato di eccezione in connivenza con i fascisti, ossia il terrorismo contro i civili inermi. E tutto questo avviene perché le istituzioni e gli equilibri degli organi democratici non possono più funzionare, quando lo stato di eccezione si confonde con la regola e il confine fra democrazia e totalitarismo è completamente cancellato. Il teologo Giuseppe Dossetti, che nel 1943 si unì alla Resistenza, denuncia che le stragi nazifasciste contro i civili inermi e non belligeranti sono l’eccidio totale. “Non è una furia di vendetta, un raptus di follia omicida; è la negazione radicale dell’umanità”. Le stragi compiute dalle divisioni militari nazifasciste non sono casi isolati, e nemmeno l’aspetto terribile di un certo periodo della storia moderna, ma un punto di arresto, un’era oscura, in cui il progresso tecnologico della guerra, la pianificazione politica, i sistemi burocratici e l’assoluta scomparsa di principi etici e morali si sono combinati per rendere le stragi di massa una possibilità, un orrore sempre presente e attuale nella storia umana. I personaggi chiave di questa feroce mattanza di innocenti furono Albert Kesserling, Max Simon, Walter Reder. “Ma non sono i soli e gli unici responsabili”. Oggi dobbiamo superare la tragica contabilità dei morti e far emergere, nella comunità civile, il significato di ferite fisiche e psichiche che hanno condizionato la vita quotidiana di centinaia di migliaia di persone, quasi mai entrate nella memoria ufficiale. Sono elementi difficili da cogliere che emergono da spezzoni di testimonianze di sopravvissuti. Le vittime non sono soltanto i morti, i feriti, i torturati, ma anche i loro congiunti e le intere comunità colpite. Perché dopo una strage, nulla è più come prima. Ma ricordare e commemorare sono il primo passo dell’impegno per una lucida coscienza storica. Ricordare deve essere l’atto, non occasionale, ma costante, di esprimere la memoria tramite l’impegno individuale e collettivo. È necessario formare una memoria comunitaria e collettiva. Per gran parte delle stragi nazifasciste dal 1943 al 1945 esiste oggi una verità storica. Ma verità e giustizia sono due concetti che nel nostro Paese, purtroppo, non sono mai andati d’accordo. La risposta della giustizia è stata condizionata dalla volontà politica di insabbiare le inchieste e dalla ragion di stato. Il nemico di ieri diventa ora amico degli americani nella lotta al comunismo. La Germania, sconfitta e lacerata, è divisa in due dal muro di Berlino. Il nemico dell’Occidente non è più il nazismo, ma l’Unione Sovietica. Lo storico tedesco Lutz Klinkhammer ha ricostruito l’olocausto nazifascista nel nostro Paese, giungendo alla conclusione che la ragion di stato è usata come pretesto in modo da nascondere i fascicoli di indagine nel famigerato “armadio della vergogna”, come definito da Franco Giustolisi nel suo celebre libro a cui, in sua memoria, è dedicato “I carnefici”. Dunque gli studiosi e gli intellettuali hanno il dovere morale di condividere il materiale di documentazione, perché solo così gli eccidi compiuti dai nazifascisti, durante la Seconda Guerra Mondiale, potranno diventare tema di educazione alla pace per le nuove generazioni. Dal racconto del nonno delle storie nella Storia, il nipote comprenderà, negli anni, che democrazia e pace sono frutto di pratiche quotidiane e di relazioni tra persone e comunità, in un costante impegno civile di cittadinanza attiva dal basso, in collaborazione con le istituzioni democratiche. A Sant’Anna di Stazzema e a Monte Sole sorgono istituti per la pace, dove giungono ragazzi da ogni parte del mondo, anche palestinesi e israeliani, che studiano forme e sistemi di prevenzione dei conflitti e di convivenza pacifica tra i popoli, affinché la guerra sia espulsa per sempre dall’immaginario collettivo e dalla Storia. Perché mai nulla vada disperso e dimenticato. Perché la memoria possa diventare finalmente un fattore vivo e propulsivo di democrazia e pace. Per non dimenticare.
L’armadio della vergogna ha nascosto i colpevoli ma non ha cancellato le stragi e i crimini nazisti.La verità è scomoda, spesso crudele. Quella penosa di Sant’Anna di Stazzema, di Vinca, di Marzabotto è rimasta nascosta per 34 anni nell’armadio della vergogna. Un mobile di legno marrone con le ante rivolte al muro e assicurate da un lucchetto, in un locale adibito ad archivio al piano terra di un palazzo pubblico a Roma. Era stato sigillato nel gennaio 1960 e riaperto solo nel maggio 1994. All’interno, 695 faldoni raccolti dalla Procura militare e un registro con 2274 notizie di reato: il “Ruolo generale dei procedimenti contro criminali di guerra tedeschi”.
Dal 1945, le inchieste dei giudici militari avevano prodotto incartamenti voluminosi per le stragi compiute dai nazisti ai danni di italiani inermi, ma conveniva insabbiare, tacitare, ignorare, perché la Germania federale serviva come alleato “atlantico” contro il comunismo, perché era passato troppo tempo, perché c’era da nascondere anche i crimini di guerra italiani. Tutto portava a dover dimenticare.
Ma i delitti contro l’umanità non vanno in prescrizione! Sono stati commessi settant’anni fa contro donne, vecchi, bambini, mamme incinte ed anche neonati.
È un piccolo libro prezioso e doloroso “I carnefici” (di Daniele Biacchessi, edizioni Sperling & Kupfer, 192 pagine 12,90 euro), che ricorda gli eccidi di semplici vite nel 1943-45 in Italia. Nonno Giuseppe – allora dodicenne sopravvissuto all’eccidio di Marzabotto – raccontare quelle vicende ai nipoti, come ha già fatto ai suoi allievi del liceo di Bologna. È necessario che sappiano, per assolvere al dovere della memoria. Ricostruisce due anni di terrore contro i civili italiani e i raid “scientifici” dietro la linea Gotica, tra Toscana ed Emilia. Kesselring aveva impartito ordini draconiani per mettere in sicurezza le retrovie del fronte, dove intendeva bloccare l’avanzata degli angloamericani a nord di Roma. E le truppe tedesche eseguivano alla lettera quelle disposizioni, con efficienza e disciplina, da veterani del terrore. Tra loro le Waffen SS, reparti combattenti dell’Ordine nero, in particolare la 16a divisione corazzata, che si distinse nella marcia della morte dalla costa tirrenica all’Appennino emiliano sopra Bologna.
Dapprima si sentiva il suono di un organetto.
Alcuni sopravvissuti ricordano un nazista con una piccola fisarmonica, a Monte Sole. E a Cerpiano, mentre i panzergrenadier lanciavano bombe a mano nell’oratorio dove avevano rinchiuso gli ostaggi, uno di loro suonava un armonium, in una casa saccheggiata. A Sant’Anna, la musica copriva il ruggito dei lanciafiamme e l’agonia delle donne. Anche a Vinca un soldato strimpellava mentre i commilitoni rastrellavano la popolazione casa per casa. È l’eccidio totaleha scritto il teologo Giuseppe Dossetti.
Non furia di vendetta, ma la negazione radicale dell’umanità.
E non si trattava di casi isolati, le stragi di massa erano una pratica burocratica da sbrigare metodicamente, con teutonica regolarità.
Duemila assassinati nell’estate del 1944, un quarto dei 9180 civili di ogni età e sesso massacrati dalle 40 divisioni germaniche che operarono in Italia. Li consideravano subumani, inferiori alla razza ariana eletta, herrenrasse. Solo i tedeschi erano uomini.
Non si dica che ubbidivano ad ordini superiori: perchè a Sant’Anna, quando le SS hanno lasciato ad uno di loro il compito di uccidere i bambini raccolti in piazza, quel soldato non ha eseguito il delitto, ha sparato una raffica in aria e ha fatto segno ai piccoli di fuggire. Ha un nome, si chiamava Peter Bonzelet (si era arruolato nelle SS nel 1943, a 17 anni, quindi a Stazzema era diciottenne, è morto a Magonza nel 1990).
Quel giovane non è mai stato premiato e le quaranta condanne all’ergastolo comminate a criminali nazisti non sono mai state eseguite, compresi quella che avevano interessato i responsabili principali della mattanza: Max Simon, Walter Reder detto il Monco, perché amputato di un braccio e a Roma Kurt Maeltzer ed Herbert Kappler, il boia delle Fosse Ardeatine.
Il feldmaresciallo Albert Kesselring, al comando di tutte le forze tedesche in Italia, venne condannato a morte da una Corte Marziale britannica. La sentenza commutata in ergastolo su intervento del governo inglese, non ha impedito la sua liberazione nel 1952, per un sospetto tumore. È morto per un attacco cardiaco otto anni dopo, senza aver mai rinnegato il nazismo.
“Sono un sopravvissuto. Uno che ha visto l’orrore. Uno che non vuole dimenticare.” E’ l’incipit del reading teatrale di Daniele Biacchessi che si è tenuto domenica 7 giugno al Teatro Patologico, in via Cassia, e tratto dal suo ultimo libro “I Carnefici”. La frase è l’inizio del racconto di quando, all’inizio dell’autunno 1944, sui monti tra la Toscana e l’Emilia una divisione nazista sterminò centinaia di civili.
Immaginate un nonno che racconta al nipote l’orrore compiuto dai nazisti. Il nonno è quello di Biacchessi, il nipote è Biacchessi stesso. Il libro e la pièce sono autobiografici. I nomi sono inventati ma l’orrore è vero.
Nonno Giovanni diventa nonno Giuseppe e Daniele diventa Carlo, ma la strage resta quella. Reale. Accaduta. Una strage di persone innocenti come fu quella di Monte Sole, più nota come strage di Marzabotto, dal più grande dei comuni colpiti, dove tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 settecentosettanta tra uomini, donne, vecchi e bambini furono trucidati dai reparti della “XVI SS Panzergrenadier Division” solo perché italiani, razza inferiore.
Questo dicevano di noi. Con questa ideologia erano state plasmate le menti dei soldati tedeschi, giovani senza valori e con Hitler come unico dio. A loro era stato inculcato il mito della Teoria nazista della Razza, e in virtù di quella uccidevano il passato, il presente ed il futuro dei popoli che secondo loro andavano annientati.
Quello di Monte Sole fu il più feroce massacro di civili operato dai nazisti in Italia e in tutta l’Europa occidentale. L’evento non riguardò una sola località o un solo giorno, ma fu dilazionato oltre che nel tempo anche nello spazio, tanto da coinvolgere più di centoquindici luoghi distinti sotto Monte Sole, tra i fiumi Setta e Reno.
Biacchessi, impegnato da anni a portare in libreria e a teatro le pagine più drammatiche, oscure e controverse della storia italiana, ha rievocato quei giorni in un monologo vivo e straziante, capace di toccare le corde più profonde dell’animo umano. Lui in piedi in mezzo all’auditorio, un unico fascio di luce ad illuminarlo mentre parla, e come sottofondo Music For Airports, il capolavoro ambient di Brian Eno. Discreete music, di quella che accompagna ma non disturba.
“Giovanni e Nori. Una storia di Amore e di Resistenza” è il libro di cui l’Autore, il caro amico Daniele Biacchessi, va molto fiero, perché lo considera il più bel testo che abbia mai scritto. E insieme a Tiziana Pesce, figlia dei protagonisti della storia narrata, il comandante partigiano Giovanni Pesce e la sua staffetta partigiana Onorina Brambilla, presenta questa opera dettagliatissima e di ampio respiro storicistico e storiografico, ovunque venga richiesta testimonianza. Un libro intenso ed avvincente che ripercorre gli anni della Storia dilaniata dalle dittature, attraverso le leggendarie imprese di Giovanni, durante la Guerra Civile Spagnola e, in seguito, durante la Resistenza al nazismo e al fascismo nel nostro Paese. Due storie, quelle di Giovanni e della sua staffetta Nori, che si dipanano parallelamente in un periodo tra i più oscuri della Storia mondiale. Nori subì anche la deportazione nel campo di concentramento e di smistamento di Bolzano e la sua Testimonianza citata nel libro, viene tratta dall’Archivio Audiovisivo delle Città di Nova Milanese e Bolzano, contenuto nel sito istituzionale “Lager e Deportazione”, nell’ambito del Progetto “Per non dimenticare”. Daniele Biacchessi, con questo libro, tramite la narrazione e il racconto, inserisce la storia dei due protagonisti nella Storia mondiale – “una storia nella Storia”- in sequenze molto intense, ricche di date, eventi, riferimenti storiografici documentati e nomi e cognomi dei protagonisti delle vicende narrate.
Giovanni, spinto dalla povertà, dalla precarietà esistenziale, si trasferisce da Visone, nel Piemonte, in Francia, per lavorare nelle miniere fin da bambino. Nel contempo, Nori trascorre la sua esistenza nella Milano fascista, assediata dalle truppe militari, ed entrambi prendono consapevolezza della propria appartenenza di classe e maturano un forte sentire di cambiamento rivoluzionario, una profonda coscienza comunista, un sentimento di condivisione di alti ideali di pace, libertà e democrazia, uniti dal filo rosso dell’Antifascismo che fa incontrare e innamorare i due giovani. Giovanni intraprende un percorso di rivoluzione nelle Brigate Internazionali nella Spagna assediata dalle truppe fasciste di Franco. Tornando in Italia, viene condannato al confino di Ventotene, dove conosce importanti intellettuali, da Curiel a Pertini, per citarne alcuni. Dopo la caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, i detenuti di Ventotene si organizzano e cominciano a tornare nei luoghi di origine. Giovanni inizia la clandestinità a Torino, dove assume il comando delle azioni dei GAP (Gruppi Armati Patriottici).
Nori e Giovanni si conoscono a Milano.
Sono uniti da alti ideali antifascisti di libertà, democrazia e pace che li accompagneranno per tutta la vita, percorrendo insieme anche le tappe storiche del dopoguerra e vivendo la cosiddetta “Resistenza tradita”. Gli ideali resistenziali sono elusi dalla realtà politica di fatto: la vittoria della Democrazia Cristiana, il terrorismo, gli anni di piombo, gli apparati burocratici statali intrisi di retaggi fascisti. Giovanni e Nori sono stati idealmente sempre uniti, anche prima di conoscersi personalmente, dal filo rosso di nobili principi condivisi che non si è mai spezzato, ma si è tenacemente consolidato negli anni, diventando così un simbolo della lotta per la Pace, perseguita sia sotto la devastazione nazifascista, sia in seguito, in difesa dei diritti sanciti della Costituzione, nata dalla Resistenza. Finita la guerra, la loro Resistenza è continuata con la coerenza e con l’ottimismo della volontà, tipici delle persone che hanno pagato con il proprio sacrificio per le scelte compiute, sopportando prove durissime, con cui hanno affermato la speranza in un mondo di pace e di impegno contro tutte le guerre e le violenze, contro tutte le dittature, i totalitarismi e a favore dell’emancipazione e dell’attuazione dei diritti di tutti gli esseri umani.
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ORAZIONE CIVILE PER LA RESISTENZA
“Orazione civile per la Resistenza” (Promo Music – Corvino Meda Editore) di Daniele Biacchessi propone un agile percorso nella memoria di un’illustre porzione di tempo del Paese, che ha tolto molto ai suoi abitanti – con una violenza e uno stravolgimento rozzo della sostanza della politica inauditi, il fascismo – e che allo stesso tempo ha fatto emergere uno straordinario cuore civile e una volontà decisa e decisiva di “risorgimento” incomparabili. Volontà di tornare ad avvertire il gusto della libertà, il desiderio di farne casa, vene, presente, “bene comune”, verrebbe da dire, connettendoci a sacrosante ragioni della contemporaneità. Scorrono in queste pagine nomi e belle vicende di lotta e sacrificio, che chiunque può trovare stampati nei libri o sui muri delle città, ma che ad ascoltarli davvero, fuor di rito o narrazione ferma, possono premere nelle coscienze a dire: nessuno può tenerti nell’angolo di uno sbiadito passaggio, passeggio nel tempo. Questo tempo, questo luogo sono tuoi e di tutti quelli come te. Partecipare è esistere.
Daniele, allora, porta in giro per l’Italia il suo racconto con un tenace piglio da fresco cantastorie della memoria che attira e tira verso promettentissime prospettive di rigenerazione. Scrive all’inizio del volume: “Dedico questo libro agli studenti che nei teatri e negli auditorium sono venuti in camerino a cercare da me spiegazioni, percorsi bibliografici e informatici… A quanti in silenzio hanno ascoltato le mie narrazioni”. Gli studenti, i ragazzi.
A loro principalmente l’autore rivolge la sua orazione, a loro che spesso avvertono una forte distanza da quel “capitolo della storia” utile per lo più a raggiungere un voto, possibilmente positivo, ad una interrogazione, o ad un esame. A condizione che un sensibilissimo insegnante abbia avuto la responsabile accortezza di approfondire quel “punto” del programma che nella maggior parte dei casi si traduce nei testi in una informativa: la guerra di liberazione, i partigiani, la Costituzione. E il tema decisivo dell’educazione viene sottolineato anche dal Presidente Nazionale dell’ANPI, Carlo Smuraglia, in un passaggio dell’interessante intervista che apre questo lavoro di Biacchessi: “C’è un gap da colmare, in questo campo, perché la scuola non ha svolto, oppure lo ha fatto in maniera insufficiente, uno dei suoi doveri fondamentali, ovvero quello di creare un effettivo senso di cittadinanza, una cultura della democrazia, basata anche sulla conoscenza reale, non deformata della nostra storia più recente”.
Basata sulla conoscenza reale, ecco un altro grande tema, una necessaria ossessione, verrebbe da dire, che attraversa l’Orazione. Biacchessi vuole mettere ordine nei fatti, illuminare il bene e il male, scardinare dunque tutto l’impianto mistificatorio di certo revisionismo: “Ci dicono spesso che bisogna voltare pagina, ma almeno bisogna leggerla. E allora leggiamola fino in fondo, senza perdere neppure una parola”, così ammonisce l’autore alla fine della sua introduzione.
E ad aiutarci in questo cammino nella comprensione e nell’azione, non mancano le testimonianze di illustri “resistenti” e, lasciatecelo dire, veri e propri padri e madri della patria. Biacchessi ne raccoglie alcune. Per tutte (Bocca, Foa, Vassalli, Traversa, Bocchetta, Maris) citiamo un passaggio di quella di Tina Anselmi: “Il valore più importante della Resistenza resta la partecipazione. Battersi perché questa libertà permanesse nel tempo, per le generazioni a venire, a futura memoria. Ognuno di noi scopriva che aveva qualcosa da dare e da portare lungo il cammino della liberazione. Perché non si dovesse mai tornare indietro verso lo scempio della vita umana. Volevamo la libertà per poterla vivere fino in fondo, per consolidarla, per consegnarla come garanzia ai giovani. Ai ragazzi dobbiamo raccontare la storia della Resistenza. E partiamo dalle lettere dei condannati a morte. Io dico sempre che davanti alla morte c’è la verità e la verità è che noi facevamo la guerra per ottenere la pace. Cito sempre quella scritta da Giacomo Ulivi: non pensate a me come un eroe, ci vuole meno a morire per un’idea che non vivere ogni giorno per quella idea. Questa frase vale ancora oggi”.
Pagine, insomma, quelle che compongono Orazione civile per la Resistenza, vergate di date e doti che cantano la memoria per segnare un profilo bello e civile del futuro. Pagine che sanno di urgenza e naturale tensione a concepirci tutti liberi ed eguali. Il sogno della Costituzione, nel segno della Resistenza. Di una storia italiana, di un’Italia, imprescindibili.
Dopo un lungo tour primaverile che ha lambito Centro e Nord Italia (da Roma al Piemonte fino a Monte Sole), approda a Bologna l’Orazione civile per la Resistenza scritta da Daniele Biacchessi (edizione Corvino Meda – Promo Music). L’appuntamento è venerdì 27 aprile (ore 18) alla Feltrinelli di porta Ravegnana. Con l’autore dialogheranno William Michelini dell’Anpi e Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione Vittime 2 Agosto.
Solo presentazione del libro e non il più tradizionale reading alla Biacchessi, come in alcune tappe è avvenuto, per questo lungo weekend resistenziale, ponte festivo (25 aprile-1 maggio) tra date di ricorrenze che paiono antiche e che invece sembrano necessitare, ogni anno che passa, sempre di più, un restyling comunicativo per riaffermare una memoria storica lapalissiana, quella degli eccidi e del violento orrore delle stragi nazifasciste compiute in Italia dal ’43 al ’45, sempre in corso di martellante revisionismo.
“E’ memoria viva, quotidiana, un ponte tra generazioni diverse che vivono o hanno vissuti tempi diversi”, spiega il giornalista di Radio 24 il Sole 24 ore, “E’ un impegno civile, quotidiano, fatto di piccole cose, di gesti, di atti pubblici, soprattutto di parole. Io racconto una storia a te e tu la racconterai ad altri figli, ad altri amici. E fino a quando queste storie avranno gambe per poter camminare, queste storie non moriranno mai. Quando qualcuno si stancherà di raccontarle, queste storie moriranno due volte, con le persone e con le ingiustizie”.
Storia, e orazione, intessute prima di tutto dai luoghi delle stragi (da Boves in Piemonte all’Hotel Meina sul Lago Maggiore, da Marzabotto a Sant’Anna di Stazzema fino alle Fosse Ardeatine), poi di date e di cifre di morte. Numeri disegnati col sangue di partigiani e semplici civili, donne, vecchi e bambini, condannati a morte da un esercito invasore che in un triennio esercitò un’inaudita violenza cancellando dalla faccia della terra l’essenza stessa del senso dell’esistenza umana.
Orazione civile è un pamphlet incalzante, virtuoso e doveroso, soprattutto nel suo volontario interpellare tutta quella lunga lista di saggi che hanno fatto del revisionismo un atto dovuto e parificante rispetto alla lotta resistenziale. “Nel suo libro Il sangue dei vinti, Pansa tace sul come si arriva agli omicidi commessi da una esigua minoranza di ex partigiani nell’immediato dopoguerra. Egli non racconta le violenze delle squadracce fasciste del 1921, la marcia su Roma, i numerosi delitti, i lunghi anni del regime, il carcere, l’esilio, il confino e le condanne a morte degli oppositori, l’emanazione delle leggi razziali contro gli ebrei italiani nel 1938, la fame, la sete, la povertà di un intero popolo, il collaborazionismo del fascismo con il nazismo, l’entrata in guerra, le campagne fallimentari in Russia, Grecia, Albania, Etiopia, Africa Orientale, i bombardamenti e la distruzione delle città, le torture subite dai partigiani da parte delle tante polizie segrete e compagnie di ventura della Repubblica Sociale Italiana, le 2.274 stragi nazifasciste contro civili i cui fascicoli sono rimasti sepolti e occultati per quasi cinquant’anni nel cosiddetto “Armadio della vergogna”, poi ritrovati soltanto nel 1994 nella sede del Tribunale militare di Roma, a Palazzo Cesi, via degli Acquasparta. Pansa non menziona le trattative segrete dei nazisti con gli alleati sul finire della Seconda guerra mondiale, l’arruolamento di criminali nazisti nei servizi segreti americani nell’immediato dopoguerra in funzione anticomunista (Theodor Saevecke, Karl Hass, Karl-Theodor Schütz), neppure l’amnistia del guardasigilli Palmiro Togliatti del 22 luglio 1946 che azzera i crimini compiuti dai repubblichini. Perché nulla di tutto questo si trova nei libri dei nuovi revisionisti? Perché si punta il dito unicamente sugli omicidi degli ex partigiani?”
Ville tristi. Così la gente di Milano, Roma, Firenze, Trieste, e molte altre città italiane, chiamava quei palazzi in cui la polizia nazifascista, in particolare dopo l’8 settembre 1943 (ma a Trieste un luogo del genere fu operativo fin dal ’42), imprigionava e torturava partigiani, oppositori, detenuti di ogni estrazione politica e sociale. A Milano, la Villa Triste è ancora oggi in via Paolo Uccello. In quel cortile, in quei corridoi, in quelle cantine, Daniele Biacchessi ha portato il suo teatro civile, la sua voce, per raccontare un pezzo di un’Italia che non c’è più, ma che ancora vive nella coscienza di questo Paese e che non può essere dimenticata. Un’Italia che, con le sue storie, è oggi raccontata nell’ultimo libro di Daniele Biacchessi, Orazione Civile per la Resistenza, Corvino Meda Editore, Bologna, 2012.
“Tutto è iniziato con mio nonno, i suoi racconti, intorno al camino”, mi dice Biacchessi, con voce commossa e partecipe. E mentre parla, quasi non mi guarda negli occhi, perché davanti ai suoi, di occhi, ci sono altri referenti, altri destinatari: tutti coloro che, innocenti, sacrificarono se stessi, o vennero immolati, per l’Italia di oggi, in quegli anni in cui il futuro di questo Paese era incerto e ignoto, e bisognava scegliere da che parte stare.
“Tutto è iniziato con mio nonno – mi spiega Biacchessi, milanese, classe 1957, giornalista, attore, autore – perché la mia famiglia è originaria della zona di Marzabotto. E allora, da bambino, insieme ai miei amichetti, ci sedevamo in circolo ai piedi del nonno, intorno al camino, e lui ci raccontava di quello che era stato Marzabotto per questo Paese. Noi bambini non capivamo tutto, ma ci rendevamo ben conto che quella storia che ci stava narrando non aveva avuto un lieto fine, se non attraverso il riscatto di una Nazione tutta, di un popolo tutto: fu quello – allora non me ne rendevo conto – la prima orazione civile che ascoltai”.
Da quei primi racconti a questo libro c’è un cerchio che si chiude, una storia individuale ma anche collettiva che trova il suo svolgimento. Cosa l’ha spinta a prendere la penna in mano e a sintetizzare gli anni più difficili della storia di questo Paese?
“In molti, negli ultimi 20 anni, hanno provato a riscrivere quella storia: chi lo ha fatto in buona fede, chi invece con un preciso intento revisionista, quasi a voler ribaltare le verità storiche emerse da quanto accadde, in particolare, dopo l’8 settembre 1943. Ebbene, mi sembrava importante ricordare che la Resistenza fu vera ‘guerra di Liberazione’, combattuta da oltre 250mila persone, e che i morti meritano certo lo stesso rispetto, ma non sono tutti uguali. Moltissimi, allora, morirono per un’Italia libera e democratica, quella che altri non volevano”.
Stile asciutto, antiretorico, giornalistico, il suo, attraverso il quale ripercorre tutte le pagine del secondo conflitto mondiale, gli eccidi e le stragi nazifasciste, gli atti eroici, la Liberazione, le sue contraddizioni. Anche da qui, da questo stile particolare, la scelta di un”Orazione’?
“Si, esatto. È un libro che si fa teatro, impegno civile, e in cui del resto confluiscono stile ed esperienze personali; basti pensare alle interviste a Giorgio Bocca, Tina Anselmi, Vittorio Foa, Giuliano Vassalli, padri nobili della nostra Resistenza, raccolte prima al microfono di Radio24, l’emittente per cui lavoro, e poi adattate appositamente per il testo. Sobrietà, essenzialità, per me, coincidono con verità. Questa storia, queste storie, non saprei raccontarle in nessun altro modo”.
Pagine dolorose, pagine gloriose, pagine vergognose. Come quelle contenute appunto nell'”armadio della vergogna” rivenuto nel 1994 a Palazzo Cesi a Roma, che occultava migliaia di documenti relativi proprio alle stragi nazifasciste in Italia…
“Uno dei capitoli più oscuri e infamanti della nostra storia. È stato come uccidere due volte migliaia di innocenti, negare loro giustizia e sepoltura. Come poté accadere? Prevalse forse la ragion di Stato, la necessità di far ripartire la macchina tedesca, evitando di consegnarla integralmente al blocco comunista, e quindi qualcuno non ritenne opportuno che la Germania pagasse per intero il suo debito con la Storia, con la nostra storia. Ma l’infamia rimane, e ancora oggi si fa fatica a parlarne”.
È sul piano della conoscenza e della cultura che si può dispiegare un vero antifascismo”, dichiara il presidente dell’Anpi, l’Associazione Nazionale Partigiani, Carlo Smuraglia nell’intervista che apre il libro. I giovani di oggi sono consapevoli del loro ruolo?
“Si, ne sono certo. Me ne rendo conto quando li incontro nelle scuole, nei raduni, a teatro. Bisogna saper raccontare, trovare il linguaggio, la chiave giusta per entrare in sintonia con loro, ma sono questi ragazzi, i testimoni di seconda generazione, pian piano, che chi ha vissuto direttamente quegli anni, quelle sofferenze, ci sta lasciando. Basti pensare alla crescita del numero dei giovani iscritti all’Anpi in questi ultimi anni: è come se, a fronte della crisi dei partiti e delle ideologie, si cercare nella storia condivisa di questo Paese la radice del nostro stare insieme. Ma ci sono luoghi simbolicamente ancora più forti…”.
Quali?
“Uno su tutti: la nostra Costituzione. Molti vorrebbero cambiarla, revisionarla, ammodernarla. Io dico che dobbiamo fare tutti di più, affinché venga realmente applicata in tutte le sue potenzialità. È quello il ponte che lega il nostro passato al nostro presente e futuro; è quella l’eredità più bella e ricca che ci è stata lasciata da quegli uomini e quelle donne a cui ho voluto dedicare la mia ‘Orazione civile'”.
Occhi sbarrati e religioso silenzio ieri mattina all’istituto tecnico commerciale Bordoni mentre Daniele Biacchessi, scrittore, drammaturgo e giornalista di Radio24 raccontava la sua Orazione civile per la Resistenza. Sullo sfondo la lapide che ricorda gli 800 morti di Marzabotto. Ma non sono le targhe a tenere viva l’attenzione dei ragazzi, che non si perdono una parola dell’attore-narratore. Sono le storie, le parole stesse: «I nazisti accompagnati dai fascisti arrivarono alla chiesa, dove si erano rifugiati i paesani. Spararono al parroco. Diedero fuoco alla chiesa chiudendo dentro le persone. Gli altri li portarono al cimitero, si vedono ancora i buchi nelle croci a pochi centimetri dal terreno: sparavano basso per colpire i bambini che si nascondevano dietro le gambe dei genitori», racconta Biacchessi nel silenzio più totale. Racconta come il caso di Monte Sole, le stragi nella zona della brigata partigiana Stella Rossa finita nel mirino dei tedeschi, fu archiviato, «Come il furto di un motorino». «Un’iniziativa come questa allora sarebbe finita male – racconta ancora per far capire l’attualità del 25 Aprile – i militari fuori, io fucilato. Invece, grazie a ragazzi come voi, che decisero di reagire mentre tutti erano indifferenti e seguivano le regole del regime, oggi possiamo parlare». Lunghi applausi: «Abbiamo costruito un ponte di memoria. Queste storie potrete raccontarle agli amici, ai vostri figli. Quando smetterete moriranno due volte, e con loro le persone di cui parlano».
Chi conosce Daniele Biacchessi, giornalista, scrittore, vicecaporedattore di Radio 24, più volte premiato per la sua attività di reporter, sa che è anche un appassionato autore, regista e interprete di opere di teatro civile. Il suo ultimo libro, “Orazione civile per la Resistenza” (Promo Music), è una storia corale della guerra di liberazione, ripercorsa attraverso interviste, narrazioni di episodi e di luoghi della memoria. Ma Biacchessi è anche un curioso, un cercatore di verità.
Da buon cronista, si era sempre chiesto chi fosse il fascista con le mani dietro la nuca , trascinato per le strade di Milano da alcuni partigiani armati, ritratto nella fotografia sulla copertina del saggio “Il sangue dei vinti” di Giampaolo Pansa, che a sua volta aveva tratto l’immagine dal libro dell’ex esponente della Repubblica Sociale Giorgio Pisanò, “Storia della guerra civile”. Nella didascalia del libro di Pansa, in seconda di copertina, si parla genericamente di “fascista ucciso il 28 aprile 1945”.
Biacchessi non si è accontentato. Così è andato negli archivi dell’Istituto storico della Resistenza a Sesto San Giovanni e si è messo alla ricerca di questa immagine.
Scartabella che scartabella, eureka!, l’ha trovata. Ed ha scoperto che si trattava di Carlo Barzaghi, l’autista di Franco Colombo, il comandante della legione autonoma mobile Ettore Muti di Milano. Carlo Barzaghi è conosciuto come il boia del Verzeè (del Verziere), scrive Biacchessi, “responsabile di efferati crimini di guerra: la compilazione di numerosi elenchi di ebrei e oppositori poi deportati nei campi di sterminio, la fucilazione di quindici prigionieri politici (10 agosto 1944, Milano, piazzale Loreto) detenuti nel carcere di San Vittore su ordine di Walter Rauff e Theo Saevecke, funzionari della Sicherheitpolizei stanziati all’albergo Regina di Milano”. Barzaghi non è quindi un fascista qualsiasi, un innocente ucciso nei giorni dell’aprile 1945. E’ un esponente di spicco della Repubblica di Salò e si è macchiato di vari reati.
Eppure c’è chi, anche oggi, alla vigilia della festa della Liberazione, affigge nella capitale manifesti anonimi con un verso tratta dalla canzone “La locomotiva” di Francesco Guccini: “Gli eroi sono tutti giovani e belli”, dedicandoli “Ai ragazzi di Salò”. Guccini non l’ha presa bene: “Hanno tradito il senso della mia canzone”.
A costoro andrebbe ricordata la frase di Italo Calvino: “Dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buonafede, più idealista, c’erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l’Olocausto; dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c’era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, ché di queste non ce ne sono”.
A Festa Democratica stasera alle 21 il pubblico reggiano vedrà in scena per la prima volta il nuovo spettacolo di Daniele Biacchessi “Orazione civile per la Resistenza”, tratto dal libro omonimo uscito ad aprile di quest’anno. Il vice caporedattore di Radio 24, da anni impegnato nel recupero della memoria storica di uno dei periodi fondamentali della democrazia italiana, propone uno spettacolo di parole e musica per ricordare a tutti cosa fu la Resistenza in Italia.
Daniele, perché la necessità di raccontare questi fatti, in un libro e poi in uno spettacolo?
L’orazione civile per la Resistenza come libro inizia dal fatto che mio padre è stato un partigiano, mio nonno, la mia famiglia tutta proviene dalla zona di Montesole e Marzabotto e si riuniva davanti al camino tutti i sabati sera, quando andava in scena la “regola del gnocco fritto”. Mio nonno si piazzava lì e raccontava la stessa storia… e noi chiedevamo, com’è possibile di tutte le storie che finiscono bene, sempre quella dei bambini che finiscono fucilati ci raccontate? Quindi in realtà l’orazione nasce da tutta una serie di racconti che ho sorbito quando ero bambino. Dal mito della Resistenza sono passato alla consapevolezza che se tu la riesci ad attualizzare diventa veramente importante, perché la Resistenza diventa il primo grande momento di lotta popolare contro l’occupazione straniera, come il Risorgimento.
La Resistenza provoca una conseguenza sociale importante, oltre la Liberazione. Un Paese si dà delle regole, scritte nella nostra Costituzione, il luogo per definizione più importante, dove sono scritti tutti i valori. Persone che si danno regole dello stare insieme, del legiferare, del fare politica, dell’impegno civile. Ma la Costituzione non è nata in un Parlamento, ma in tutti i luoghi in cui gli antifascisti sono nati. Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, Villa Triste, Villa Schneider, Biella, Casa dello Studente di Genova. Per questo motivo, quando sento come negli ultimi anni è successo, l’atto d’accusa di una certa classe politica che punta il dito: “Quei pericolosi sovversivi comunisti!”, ne rido e mi chiedo a mia volta, davvero erano loro? O erano comunisti, socialisti, democristiani, militari, tutti…tranne che fascisti?
La vera grande svolta è stata di tipo militare, dell’esercito distrutto dall’inedia del re, la verità è che anche gli uomini in divisa combattevano contro nazisti e fascisti. Lì trovavi persone come Nuto Revelli, uno dei più grandi scrittori del Novecento, c’erano scrittori come Beppe Fenoglio, Cesare Pavese. Lo spettacolo è quindi tratto dall’omonimo libro edito dalla Corvino Meda Editore – Promo Music nella collana Paperback. Le storie di Resistenza narrate da Daniele Biacchessi vengono arricchite da quelle cantate dai Gang nel cd “La rossa primavera”, brani tratti dal repertorio del gruppo e della Resistenza partigiana riadattata in chiave rock. Il sassofono jazz di Michele Fusiello completa le atmosfere dell’evento. La Resistenza fu guerra di liberazione dalla dittatura nazifascista, guerra per la costituzione di una democrazia repubblicana e lo fu attraverso atti militari, politici e anche attraverso quelli civili.
Perché è importante raccontare la Resistenza oggi alle nuove generazioni?
Di fronte ad un continuo tentativo di revisionismo, che ha preso forza con i governi del centrodestra, noi controbattiamo con la forza dei fatti: nomi, date, luoghi. Fissiamo dei punti fermi, non con pure teorie e analisi storiche ma con la forza delle vicende umane di coloro che liberarono l’Italia dall’invasione nazifascista. Ripercorro così le tappe principali della Resistenza attraverso gli episodi più significativi. Il capitolo dedicato alle stragi, fra cui quelle delle Fosse Ardeatine, di Marzabotto, di Piazzale Loreto, ha il chiaro obiettivo di scuotere ancora oggi le coscienze. Tra l’8 settembre del ’43 e l’aprile del 1945 la violenza dei tedeschi contro i civili italiani fece registrare oltre 600 stragi. Il bilancio fu di circa 15.000 vittime. Una lunga scia di sangue che accompagnò le truppe tedesche nella lentissima ritirata da Sud a Nord. La mancata giustizia e la giustizia tardiva in alcuni episodi, dovuta all’insabbiamento dei documenti come ne caso dell’ “Armadio della vergogna” scoperto solo sessant’anni dopo, sono una delle fratture che ha reso la nostra democrazia fragile e per questo così bisognosa della forza della verità. Il ritorno degli integralismi, delle tentazioni di regime, dell’oblio delle regole collettive democratiche sono minacce ancora presenti e attuali. E hanno bisogno di anticorpi. Allora dobbiamo ricordare, sottoscrivere e menzionare, le parole di Piero Calamandrei: “Ora e sempre Resistenza. Ora e sempre i valori della Resistenza. E ciò deve essere per tutti un memento e un impegno”.
Vengono i giovani a vederla?
Certo, attratti dalle nostre storie, tutte vere e molteplici. Nuto Revelli veniva dall’esperienza tragica e dalla disfatta dell’Armir. Dove Mussolini schiera contro i sovietici 250 militari tutti alpini. In Piemonte si ritrovano Giorgio Bocca e persone veramente molto diverse. La Resistenza diventa il collante dello stare insieme. Il lavoro comincia nel 2000, da interviste che ho fatto per Radio 24 a Bocca, Tina Anselmi, Gianfranco Maris, deportato nel campo di concentramento di Fossoli, il quale raccontava tutto quello che vedeva… Io in questi anni vado in giro come cantastorie, ne ho raccolte 1837 e molti giovani vengono a vedermi. Anche perché si sono mischiate molte cose, le nuove Resistenze, se no queste storie apparterrebbero solo al passato. Io ho costituito l’associazione “Ponti di memoria” insieme a tanti artisti italiani. Anche nel libro Orazione civile per la Resistenza c’è una dedica ai ragazzi. Vengo assediato dalle loro domande. Oggi c’è ancora molto da raccontare e da ascoltare. Io sono un giornalista, uno scrittore, ma sono soprattutto un narratore. Peccato che Giampaolo Pansa nel suo “Sangue dei vinti” si scordi di raccontare tutto quello che è accaduto prima. Ho raccontato l’esilio, l’assassinio di Giacomo Matteotti, ho raccontato le città bombardate, distrutte, i cani che mangiavano i cadaveri. Ho raccontato il fatto che la maggior parte di questi assassini hanno 93 anni e non possono più essere processati. Stasera a Reggio ci saranno migliaia di persone e io me le porterò dietro per tutta la vita.
Come si combatte il revisionismo che dilaga oggi?
I vinti non vogliono fare i vinti. Le loro idee sono state sconfitte dalla storia e non ci vogliono stare. Perciò si combatte con la verità. Noi siamo storici, ascoltatori, narratori che dobbiamo raccontare la verità. Non c’è stata una guerra civile, ma una lotta di liberazione. La verità sta nella storia e la storia la fanno gli uomini. Perciò, quello che io non posso sopportare, più del revisionismo, è il Rovescismo. Penso alle stragi dell’Italicus, di Bologna, Piazza della Loggia, da parte di uomini degli apparati dello Stato. Sono loro i nipotini del fascismo. Gli uomini di Ordine Nuovo sono certamente i nipoti del fascismo. Perciò questa operazione dei Ponti della Memoria deve vedere tutti in prima fila e soprattutto la società civile. Io vedo dei cambiamenti, dei miglioramenti. Per esempio da parte dei giovani c’è una ripresa dei valori della Resistenza, Don Gallo. L’Italia non ha fatto i conti con il passato. La Germania sì. Se vai al dipartimento di Stato americano trovi tutto sui golpisti in Cile e Argentina, perché in Usa c’è una legge che dà possibilità di desecretare tutta la documentazione di archivio. Ma se lo Stato qui in Italia ti chiude gli archivi, come fai? Visto che stanno revisionando la Storia, perché non revisionano anche la Storia contemporanea? Eh, ma non possono dire che sono state caldaie quelle scoppiate a Ustica o Bologna, perché sono state bombe!!
Che ruolo deve avere un giornalista narratore come lei?
Quello di raccontare il difficile passaggio tra fascismo e democrazia. Questo deve raccontare un narratore all’Italia.
Orazione Civile per la Resistenza è un libro dedicato alle nuove generazioni e composto da molte “voci della memoria”, ossia racconti di Resistenza e testimonianze dirette, indirette, inedite, inserite, in chiave storico-didattica nel testo, dall’autore Daniele Biacchessi e raccolte nel corso della propria esperienza professionale e umana, durante il personale percorso di impegno civile e di narrazione teatrale. Biacchessi dedica l’Orazione Civile per la Resistenza ai giovani che ha incontrato al termine dei suoi spettacoli di teatro civile. A tutti i giovani che gli hanno fatto perdere treni per soddisfare domande, dubbi e che hanno implicitamente o anche involontariamente, suggerito idee, richiesto spiegazioni, percorsi bibliografici e informatici e che hanno ascoltato in silenzio le narrazioni. Il libro è dedicato a tutti coloro che hanno raccontato di persona e per via telematica centinaia di storie partigiane. L’Orazione è dedicata ai familiari delle vittime delle stragi nazifasciste del nostro paese, ai magistrati e ai giudici che ancora cercano una giustizia penale per quei tragici eventi lontani nel tempo. E ancora, il libro è dedicato a tutti i cittadini che si indignano per tutte le ingiustizie sociali e che insegnano il senso di una memoria compiuta. Perché nulla vada mai dimenticato. Perché la Resistenza non sia solo un evento storico circoscritto ad un passato da non dimenticare. La Resistenza deve essere un atteggiamento critico, morale, etico permanente, di impegno costante, non solo “memoria del passato”, ma linfa ed esercizio del presente. Resistenza è la capacità di non essere indifferenti di fronte a tutte le ingiustizie. Resistenza è la volontà di indignarsi e prendere posizione, ieri contro il fascismo e oggi contro le mafie, il terrorismo, il razzismo, la corruzione, contro tutte le cosiddette guerre umanitarie, contro il degrado politico, sociale, morale ed istituzionale. Resistenza è la facoltà di essere responsabili delle proprie azioni ed opinioni per allacciare e lanciare ponti di dialogo, intessere reti di relazione e aprire varchi di speranza per un avvenire migliore, dove l’idea di pace, in cui credevano i nostri partigiani, continui ad essere la forma mentis di ogni persona, perché è la nonviolenza il cammino che dobbiamo imparare a percorrere. Infatti i nostri Partigiani hanno voluto scrivere la parola “fine” a tutte le guerre: questo era il loro sogno. Non volevano divenire esempio e giustificazione per nuove stragi e violenze. I Partigiani hanno donato al mondo la Costituzione e la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948. Non hanno sostituito una dittatura con un’altra, come al contrario vogliono i vari insorti e ribelli oppositori nelle guerre contemporanee, manovrati dai vertici del potere internazionale. Infatti Biacchessi, tra le autorevoli interviste inserite nel libro (Giorgio Bocca, Carlo Smuraglia, Vittorio Foa, Giuliano Vassalli) riporta la frase di Tina Anselmi “davanti alla morte c’è la verità e la verità è che noi facevamo la guerra per ottenere la pace”.
Un giorno ci verranno a dire che quella di Marzabotto era una scampagnata». In un paese in cui i revisionisti sono sempre in agguato Daniele Biacchessi prende spunto da suo nonno. Intorno al fuoco nelle campagne bolognesi o sul palco del teatro Nebiolo di Tavazzano, dove è salito venerdì sera, l’attore con il Dna del reporter ha solo una meta: raccontare senza sconti la realtà . Perchè ogni storia sopravvive al logoramento del tempo solo se qualcuno continua a narrarla. Il teatro di via IV Novembre ha aperto venerdì sera con Daniele Biacchessi il cartellone della sua C’è¨ solo la mezza stagione, per gli appuntamenti del Centro di documentazione per un teatro civile. E c’erano proprio autori e storie del teatro di narrazione al centro della sua ventiduesima fatica letteraria, ovvero Teatro Civile – Nei luoghi della narrazione e dell’inchiesta, pubblicato per Edizioni Ambiente, presentato dall’autore insieme al musicista e amico Gaetano Liguori. Ad aprire l’incontro che inaugura la stagione di Tavazzano, una delle storie che Biacchessi narra nel suo libro con il piglio e la professionalità del giornalista (oggi vice caporedattore per Radio 24 de «Il Sole 24 ore») e l’emozione dell’attore. Quella del Dc9 dell’Itavia in volo dall’aeroporto Guglielmo Marconi di Bologno e diretto a Palermo, sprofondato nel mar Tirreno tra Ustica e Ponza il 27 giugno 1980. Ustica come il Vajont, i drammi silenziosi del petrolchimico di Marghera e dell’Ilva di Taranto, l’amianto, le discariche abusive, ma anche le guerre e chi le racconta; sono solo alcuni dei passi del percorso di Biacchessi. «Quando saliamo sul palco non sappiamo esattamente cosa stiamo facendo – ha detto seduto al tavolo dei relatori con Gaetano Liguori che l’ha accompagnato al piano : cerchiamo solo di far rivivere le persone che non ci sono più e portare un po’ di giustizia in questo mondo».
Un’indole che arriva da lontano, dalle giornate passate nel cascinale nei pressi di Marzabotto dove ha vissuto per dodici anni, tra lo gnocco fritto e le sere passate intorno al fuoco. «Mio nonno ogni sera ci raccontava la stessa storia – ha spiegato il giornalista – : poteva cambiare un dettaglio o due, ma il succo era lo stesso ed era la storia della strage nazista di Marzabotto, dello sferragliare delle camionette, dei colpi dei fucili, dell’incredulità davanti alle centinaia di corpi davanti alla chiesetta di Casaglia». Anche lui faceva teatro civile: «Era come avere ogni sera un palco a disposizione per raccontare storie talmente vecchie da essere attualità».
Da Marco Paolini ad Ascanio Celestini, da Marco Baliani a Renato Sarti al direttore del Nebiolo Giulio Cavalli, fino a Cisco dei Modena City Ramblers, Biacchessi ha dedicato a tutti questi attori e autori una parte del proprio lavoro, intervistandoli e portando nelle pagine del suo libro le loro storie. Come quella di Liguori, a Tavazzano ad accompagnarlo sul palco. Pianista jazz di talento che ha sempre scelto di schierarsi dalla parte dell’impegno e che preferisce passare una serata sul palco del Nebiolo che una vita in cima alle classifiche.
Strano paese, l’Italia: dove la storia recente è costellata di tragedie e misteri in cui spesso politica e magistratura non hanno saputo, voluto o potuto fare chiarezza. A fronte di questa inerzia delle istituzioni, nel tempo sono nate altre forme di risposta. La denuncia delle canzoni d’autore, la testarda ricerca del giornalismo (raramente quello “classico”, più frequentemente quello alternativo della cosiddetta “controinformazione”), la ferma azione civile dei comitati delle vittime.
Nel suo ultimo libro Daniele Biacchessi indaga un’altra forma espressiva che fonde arte, comunicazione e denuncia: il cosiddetto Teatro Civile (da cui l’autore deriva il titolo del proprio lavoro, Edizione VerdeNero, 16 euro). Un tipo di rappresentazione teatrale, di cui lo stesso Biacchessi è protagonista attivo, che ha avuto uno sviluppo costante negli ultimi anni, con riscontri crescenti in termini di critica e pubblico. Difficile determinare una data di origine del Teatro civile: probabilmente ha ragione Daniele nell’identificare questa data nel 1993 e la sua consacrazione definitiva nel 9 ottobre 1997 (rispettivamente: nascita del progetto Vajont, 9 ottobre ’63 di Marco Paolini, e sua trasmissione su Rai2).
Quelli di cui ci parla Biacchessi sono spettacoli poveri a livello scenico, ma in cui l’ispirazione si fonde con un doveroso omaggio alle vittime e con un’altrettanta doverosa esigenza, da parte del pubblico, di una narrazione che risarcisca, in certa misura, le vittime stesse, contribuendo alla formazione di un’identità collettiva, di una memoria comune in cui riconoscersi. Da sottolineare è il livello di contaminazioni fra generi che il teatro civile ha dimostrato di saper realizzare. Pensiamo ai percorsi speculari dei già citati Biacchessi e Paolini: il primo “nato” giornalista e oggi appassionata anima di questa forma narrativa; il secondo da sempre “narratore puro”, ma che ha presentato tempo fa alcuni suoi monologhi nei prologhi di Report, non a caso la trasmissione televisiva che più si avvicina alla narrazione teatrale di denuncia. Ma significativa, in questo senso, è anche la collaborazione instaurata fra molti attori e musicisti come Fusiello, Gang, Mercanti di Liquore, Yo Yo Mundi, Rovelli, Lega e molti altri.
Il libro di Daniele è il giusto omaggio a un movimento artistico che fonde nomi “storici” e nuovi (Paolini, Fo, Rossi, Sarti, Paiusco, Celestini, Cavalli, Pesce, Biagiarelli, Tommasi e altri ancora) e a una memoria che spazia dal già citato Vajont ai morti sul lavoro, passando attraverso la tragedia ecologica di Seveso, le vittime del Petrolchimico di Marghera, le fiamme della Thyssenkrupp, le stragi italiane, il rogo della Moby Prince, gli eccidi nazifascisti, il tributo di sangue di giornalisti come Cutuli, Alpi e Ciriello, il delitto Moro e via dicendo.
Il teatro civile è molte cose, anche a seconda dell’inclinazione del protagonista e narratore. Può essere informazione alternativa, testimonianza militante, presidio di una memoria sempre a rischio (in un Paese che ha ben poca considerazione della propria storia). E’ anche, e soprattutto, racconto. Nella consapevolezza che una storia continua ad avere un senso e una vita propria fino a quando trova voci che la raccontano e orecchie disposte ad ascoltarla, fino a quando esisteranno narratori che ci stimolano alla consapevolezza, che risvegliano quella capacità – che spesso ci sembra sopita – di provare indignazione di fronte alle ingiustizie. Proprio per questo il nuovo libro di Biacchessi è una testimonianza preziosa.
La memoria recuperata attraverso la potenza “sovversiva” della parola è la forza ammaliatrice del Teatro civile, un fenomeno tessuto d’impegno e talento che in Italia si è imposto come una delle forme più vitali del teatro contemporaneo e che ha ormai conquistato una folla fedele di spettatori. Dalle stragi naziste di Sant’Anna di Stazzena e di Marzabotto al disastro doloso della diga del Vajont; dall’eccidio di Piazza Fontana al caso Moro, fino alla strage di Ustica e non solo, tutti eventi della storia del nostro Paese portati in scena da mattatori magnetici come Marco Paolini, Ascanio Celestini, Giulio Cavalli, Giorgio Diritti e molti altri. Teatro civile, (Verdenero, edizioni Ambiente), l’ultimo libro di Daniele Biacchessi, giornalista, scrittore e autore teatrale torna ora nei luoghi della narrazione e delle inchieste, ripercorre i tanti spettacoli che, negli anni, hanno raccontato in Italia le storie vere ignorate, dimenticate o “aggiustate” e ne evoca ed esalta la linfa rigeneratrice. Ed emerge come, attraverso la drammaturgia e l’utilizzo del corpo e della voce, si possano far rivivere fatti ed emozioni risvegliando il desiderio di conoscere e ricordare. Efficacissime le testimonianze vecchie e nuove dei protagonisti che quegli spettacoli hanno portato sulla scena (in palcoscenico, ma anche solo sulla strada o su una semplice pedana). Dimostrano che, mentre dovrebbero essere i referenti istituzionali a farsi carico di salvaguardare la memoria nazionale, sono stati spesso proprio i narratori a portarne il peso e a creare un ponte tra passato e presente. Una sfida riuscita, vinta fuori dai teatri tradizionali e dai meccanismi produttivi e di mercato, con spettacoli agìti per e fra il pubblico e con testi mai definitivi e invece sempre aperti a nuovi contributi. Teatro civile restituisce la voglia di non dimenticare ciò che è stato e di partecipare a ciò che è. Un libro che mette in mostra la faccia positiva dell’indignazione, quella che affiora quando fatti coperti dall’oblio tornano a smuovere le coscienze.
Che cosa è per lei il Teatro civile?
“Molti anni fa dalle mie parti, la zona di Monte Sole, vicino a Marzabotto, ogni sera il nonno si metteva vicino al camino, caricava la pipa, beveva un goccio di grappa. Poi si girava e diceva a noi bambini: “allora…”. E iniziava un racconto: il vento che si infilava nella porta, lo scalpiccio dei soldati nazisti lungo i sentieri di Monte Sole, gli spari, le urla, il silenzio. Ogni sera lo stesso racconto, ma c’era sempre un particolare che lo rendeva diverso. Questo è il teatro civile, raccontare storie per non dimenticare. E, ormai, in Italia, il Teatro civile rappresenta la vera grande novità nell’ambito della drammaturgia nazionale, decretata da consensi di pubblico davvero straordinari. Pensiamo al Vajont di Marco Paolini, visto da almeno tre milioni di persone, o a Radio Clandestina di Ascanio Celestini che ha raccolto un milione di spettatori. Il vero teatro contemporaneo che il pubblico apprezza è proprio il “teatro civile”, che ha un significato doppio, perché tutto il teatro in sé è “civile”. Ed è politico nel momento in cui metti in scena episodi come quello di Marzabotto o Sant’Anna di Stazzema. Quello che fa la differenza è la tecnica della narrazione, che si discosta dal teatro politico e impegnato degli anni Settanta, che era più di stampo brechtiano. Allora, il teatro doveva far passare un’idea e fare di tutto per convincere il pubblico che è quella giusta. Ora si parte da un altro presupposto: attraverso le storie si dipana la Storia con la S maiuscola, quella del nostro Paese”.
Libri, teatro, cinema, ma anche fiction, musica. Possono tutti raccontare la memoria di un Paese?
“Questo è un Paese che non ha memoria, perché ricordare significa anche mettersi davanti ad uno specchio e mettersi in discussione. Ed è anche un Paese anormale quello che consegna a noi cantastorie il compito di raccontare la storia collettiva di una nazione, comprese le pagine più buie: gli anni degli eccidi e della strategia della tensione, il senso di impunità, i depistaggi compiuti dagli uomini delle istituzioni, gli scempi e i disastri ambientali, i morti sul lavoro. Lo doveva fare la politica, ma le commissioni stragi e antimafia hanno concluso poco o nulla. Era compito degli storici che hanno invece pensato bene di riscrivere la storia parificando i partigiani ai repubblichini di Salò. Era anche compito della società civile che ha perso il senso dell’indignazione. E allora? E allora libri, dischi, teatro, letture possono servire a smuovere le coscienze rattrappite. Una rivoluzione culturale che metta in primo piano la difesa di quello che Pietro Calamandrei definiva “il patto giurato tra uomini liberi”, la Costituzione”.
Lei ha ascoltato molti interpreti, visitato i luoghi della narrazione. Dica quello che, per tutti, meglio rappresenta il suo libro-manifesto.
“Non c’ è un luogo ma ci sono i luoghi. Per me contano la stazione di Bologna, la chiesa di Sant’Anna di Stazzema, Seveso, via Mancinelli a Milano dove vennero uccisi Fausto e Iaio. Per Marco Paolini certamente Vajont, Ustica, i treni, i sentieri del ritorno dalla Russia di Mario Rigoni Stern. Per Ascanio Celestini il museo di via Tasso a Roma, le fabbriche, i manicomi, i call center. Per Giulio Cavalli l’aeroporto di Linate, le periferie di Milano infiltrate dalla ‘ndrangheta. Ed è così per tutti. Perché i luoghi contano e perché nulla vada mai dimenticato”.
“Si può chiedere giustizia anche sopra un palco di un teatro: un microfono, un sassofono, un pianoforte, le immagini in movimento, i documenti sonori d’archivio. Si può chiedere giustizia sopra una pedana nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna e davanti al Museo di Sant’Anna di Stazzema. Perché i luoghi contano, perché nulla vada mai dimenticato”. Così c’è scritto nell’home page del sito di Daniele Biacchessi, giornalista, scrittore, autore, regista e interprete di teatro civile. Uno incipit che da solo racconta l’uomo e, soprattutto, il cronista che, sin dagli esordi, ai tempi di Radio popolare, ha deciso di raccontate sempre tutto, senza sotterfugi e senza paura. Mettendo davanti a qualunque cosa la notizia, quella vera, quella che fa male alle persone oneste e toglie il sonno ai poteri forti, a certi protagonisti della politica, ai banditi di tutte le mafie. Per lui, che ha trascorso una vita dietro ai microfoni di tante radio non è stato faticoso accarezzare, graffiare, raccontare, a chi ha voglia di sentire e di capire, i contenuti ( le denunce) dei suoi libri di inchiesta. Ed è proprio nei panni del reporter – attore che narra “il Paese della vergogna” che Biacchessi presenterà, accompagnato dal gruppo sardo Cantinacustica, al pubblico del festival letterario di Cagliari, Café Noir (piazza San Sepolcro, alle 22.00 del 18 settembre), il suo incisivo e drammatico Daniele Biacchessi in reading “Teatro Civile, nei luoghi della narrazione e dell’inchiesta”.
Prima giornalista e scrittore, poi cantastorie, Biacchessi cosa racconta nei suoi spettacoli?
“Racconto storie di donne e di uomini. Lo faccio pensando ai personaggi che ho coinvolto nel mio libro Teatro Civile: Marco Paolini, Paolo Rossi, Ascanio Celestini, Marco Baliani, Giulio Cavalli, Renato Sarti … Non racconto solo uomini, ma anche le storie irrisolte, i drammi che hanno sconvolto la vita di tanti: la tragedia del Vajont, i drammi del Petrolchimico di Marghera e dell’Ilva di Taranto, lo scempio delle discariche abusive e dei disastri ecologici … spiego i perché delle vecchie e nuove guerre “italiane”. Fino alle pagine più oscure della nostra storia: le stragi di Piazza Fontana a Milano e alla stazione di Bologna, la morte dell’anarchico Pinelli, il caso Moro, Ustica, Moby Prince, Linate, gli omicidi di mafia e le cosche al Nord”.
Biacchessi lei è un giornalista, uno scrittore o un attore?
“Sul palco mi interessa la narrazione. Racconto quella parte di storia spesso dimenticata che solo pochi giornalisti e pochi storici hanno avuto il coraggio civile di affrontare. Racconto storie emblematiche, in particolare le storie dei giornalisti d’inchiesta uccisi dalle mafie. Nel mio libro, Teatro Civile, racconto le storie di oltre 40 cronisti assassinati in Sicilia, Calabria, Puglia e Campania”.
Giornalisti che hanno fatto a storia del giornalismo …
“Una delle storie più emblematiche è quella di Peppino Impastato, la sua vicenda ha avuto una vasta eco, anche perché sulla sua storia il regista Marco Tullio Giordana ha costruito un film (I cento passi), ma solo pochissimi sanno che ci sono voluti 22 anni per giungere a una sentenza che alla fine dei conti ha detto quello che tutti ormai sapevano. E cioè che Peppino è stato ucciso perché aveva svelato che le gare d’appalto per l’ampliamento dell’aeroporto di Palermo, Punta Raisi, erano state truccate per avvantaggiare, con l’aiuto delle forze dell’ordine e delle istituzioni, le famiglie mafiose più in vista della Sicilia. Per mettere fine alle sue inchieste la mafia lo fece eliminare dal personaggio che gli era più vicino, cioè da suo zio, Gaetano Badalamenti. Peppino non è stato solo un eroe antimafia, ma anche, soprattutto, un giornalista”.
Anche fare il cantastorie può essere pericoloso, qual è il tuo obiettivo?
“Io lavoro sul concetto della memoria ritrovata. Se un popolo non riesce a capire il suo passato non riesce a capire i cambiamenti e nemmeno che cosa sta accadendo in questi giorni, in queste ore, in questo momento. Il nostro non è un Paese normale, altrimenti non sarebbe costretto ad assegnare a personaggi come Marco Paolini (o come me) il compito di raccontare la parte meno facile e meno condivisa della storia di questo Paese. Fare memoria vuol dire anche tentare di non far dimenticare: il primo pezzo che io reciterò a Cagliari sarà un pezzo sulla Resistenza che non ho mai scritto e che volevo scrivere da tanti anni, allora mi sono letto tutti i libri elaborati in Italia dal 1946 ad oggi sulla lotta partigiana e la lotta per la liberazione”.
Biacchessi, lei vuol raccontarci storie che i mass media non vogliono più raccontare. Non è meglio fare zapping e cambiare canale una volta per tutte?
“Non c’è bisogno di fare chissà quali analisi politiche per capire dove sta andando il mondo: non solo in Italia, ma anche in Europa, stiamo assistendo all’avanzata delle destre più oltranziste. Per esempio, in Ungheria c’è un partito che si ispira apertamente al nazismo. In Italia ci sono seicentomila individui che fanno più o meno capo a organizzazioni razziste e ultranazionaliste della destra extraparlamentare. Quest’involuzione non si può capire se non si analizza il passato. Queste cose accadono per colpa di molti storici e molti giornalisti. E di quei politici che, di fronte alle tante pagine oscure di questo Paese, avevano il compito, attraverso le commissioni parlamentari di inchiesta, di dirci che cosa era accaduto. Non solo non si è fatta chiarezza ma, attualità di questa estate, sulla ricerca così drammatica, su una storia chiara come la storia di Ustica, un esponente del governo, Carlo Giovanardi, ha potuto dire che non ci sono verità nascoste. E ancora, sulla strage di Bologna è stata ancora volta evocata una fantomatica pista palestinese, quando una quantità enorme di sentenze e atti passati in giudicato hanno stabilito in modo chiaro chi sono i veri esecutori della strage”.
Biacchessi, fascismo, nazismo, tutte cose seppellite dalla storia. Non è meglio dimenticare?
“Dimenticare mai. Per questo ho deciso di trasferire in teatro ciò che ho conosciuto, letto e ho anche trovato in termini di testimonianza. Perché penso che alla fine dei conti, soprattutto per le nuove generazioni, ma non solo, il teatro come l’arte in generale, può dare la possibilità di far nascere una nuova coscienza civile, un nuovo impegno civile nel nostro Paese. Il mio libro Teatro Civile non è altro che un manifesto, il primo manifesto di quello che i nuovi cantastorie fanno. E cioè di andare sul palco, di prendere una cinepresa, oppure la chitarra elettrica, e attraverso la propria arte cercare di cambiare non lo stato delle cose o di convincere qualcuno, semplicemente di fare memoria. Dimostrare, quindi, che ancora oggi c’è l’interesse per questi frammenti di storia. Lo spazio esiste, basta ricordare che quando Paolini ha raccontato in tivù la storia della tragedia del Vajont due milioni e mezzo di italiani sono rimasti incollati al video per quasi due ore. Questo dimostra lo straordinario interesse che gli italiani hanno per questa forma d’arte e per la verità”.
Daniele Biacchessi, giornalista e scrittore, parla delle sue ultime fatiche, dal disco con i Gang al libro di prossima uscita “Teatro civile, nei luoghi dell’inchiesta e della narrazione”. Il suo stile comunicativo usa moduli differenti, spaziando tra musica e teatro. Quanto ai contenuti, resta coerente con l’idea che linguaggi diversi possano rendere più efficace la ricostruzione e la denuncia delle tante malefatte italiane. In nome di una verità che dovrebbe coincidere con la giustizia.
Una lunga e appassionata esperienza giornalistica la sua, dalla radio alla carta stampata, che è sfociata nel teatro civile. Come e quando si è concretizzata questa svolta?
Questa è la storia: ho cominciato a fare teatro civile intorno al 2004. Quando ho iniziato cioè a trasferire nel teatro molte cose che avevo scritto nei libri, insieme ad altre storie italiane dimenticate. Questa scelta è avvenuta nel momento in cui mi sono accorto che i libri, pur essendo certamente importanti, restano poco tempo, anche quando vengono scritti dagli autori più fortunati. Le condizioni attuali del mercato le conosciamo bene: in Italia ci sono davvero pochi lettori rispetto a nazioni come Germania, Inghilterra, Francia, Stati Uniti o Paesi scandinavi. Era importante, dunque, anche per la natura delle storie che io racconto, soprattutto incentrate sulla memoria italiana, trasferire tutto questo alle nuove generazioni in un modo più diretto. Attraverso il racconto, il monologo e la tecnica della narrazione del teatro c’è la possibilità di coinvolgere, nello stesso momento, moltissime persone che magari non si sono mai affacciate in una libreria.
Dove sono apparsi negli anni diversi volumi da lei pubblicati, sia sul versante del genere inchieste che su quello propriamente teatrale.
Nel 2007 usciva per Chiarelettere Il Paese della vergogna, libro fortunato che ha venduto davvero molte copie e che racchiude in forma di racconto molte delle storie che avevo messo in scena sui palchi italiani. La storia e la memoria ha fatto più di 400 repliche, partendo dai girotondi dei bambini nel 12 luglio 1944 a Sant’Anna di Stazzema, e dalla strage di Sarzana avvenuta subito dopo. Insieme a tutte le altre vicende simili, quella di Sant’Anna veniva idealmente rinchiusa nel cosiddetto “Armadio della vergogna”, rinvenuto cinquant’anni dopo: contiene tutti i nomi dei colpevoli e i fascicoli relativi, tutti archiviati per ragioni di Stato, perché la Germania del dopoguerra doveva essere uno dei pilastri della nuova Europa. E anche il governo italiano e il procuratore generale Santacroce non hanno fatto altro che adeguarsi a quella linea generale. Dalle storie del passato di stragi e Resistenza, andavo poi a raccontare altri fatti bui, come quelli avvenuti alla Stazione di Bologna o a Piazza Fontana, con altri bambini che facevano altri girotondi…
Da quegli episodi della nostra storia è poi passato alle vicende di mafia.
Esatto. Il libro conteneva il testo di queste storie più Storie di Italia, un altro spettacolo fatto per Don Luigi Ciotti e Libera nel 2006, anch’esso messo in scena per centinaia di repliche, soprattutto nelle scuole italiane. Si trattava di vicende esemplari di lotta alla mafia, come quelle di Libero Grassi, Giorgio Ambrosoli, Falcone e Borsellino. Una di queste, cioè quella di Peppino Impastato, lo speaker di Radio Aut, divenne nel 2006 lo spettacolo Quel giorno a Cinisi, portato in tour così come Fausto e Iaio, i due ragazzi del Centro sociale Leoncavallo uccisi nel 1978 a Milano, altro caso che ancora oggi non ha avuto una verità.
E nel 2007 Il Paese della vergogna si sposa con la musica. Prima dal vivo e successivamente con un’uscita discografica.
Succede che il teatro civile, diventato libro, diventa nuovamente teatro civile. Subito dopo l’uscita del volume, ho iniziato infatti a collaborare con i Gang, storico gruppo marchigiano tra i più importanti del rock italiano. Con Marino e Sandro Severini, abbiamo portato sul palco molti dei miei scritti presi sia da La storia e la memoria che da Storie d’Italia, realizzando un grande affresco drammatico di oltre sessant’anni di storia italiana. Così è nato Il Paese della vergogna. Decine e decine di rappresentazioni lungo lo Stivale, raccogliendo successo e applausi ovunque. Le migliori canzoni dei Gang collegate in qualche modo ai miei testi e viceversa: questa la formula che dopo due anni di tour si è trasformata nel disco Il Paese della vergogna, che abbiamo registrato e rilasciato nel 2009. Inizialmente si è trattato di un’autoproduzione, poi distribuita da Latlantide, che oggi è in giro sia nei canali tradizionali che alternativi: nei negozi di musica o anche sul sito della stessa Latlantide.
Un lungo filo che continua presto con un nuovo libro, in uscita a settembre. Di cosa si tratta?
Le mie uscite editoriali sono state numerose e si è trattato sinora soprattutto di libri di inchiesta, su gravi episodi, scandali e misteri italiani. Dalla morte di Massimo D’Antona, quindi le nuove Brigate rosse, alle stragi impunite come quella della stazione di Bologna, passando per l’esecuzione di Enzo Baldoni e le tematiche ambientali, come avvenuto con L’ambiente negato. Più di recente, con il testo Passione reporter, mi sono invece soffermato su quei giornalisti che hanno dato la vita in nome della loro professione: Ilaria Alpi e Milan Hrovatin, il fotografo freelance Raffaele Ciriello, Antonio Russo, collaboratore di Radio Radicale ammazzato a Tbilisi. Ma si tratta anche per questo mio ultimo libro, Teatro civile, nei luoghi dell’inchiesta e della narrazione, di un lavoro di inchiesta, in qualche modo. Ho cioè indagato anche in questo ambito, tornando nei luoghi dove sono ambientate le storie che noi raccontiamo, attraverso la voce di tutti i narratori, tutti i cantastorie italiani che lavorano prevalentemente sul teatro. Stiamo parlando dei vari Marco Paolini, Ascanio Celestini, Ulderico Pesce, Giulio Cavalli, ma anche della schiera di musicisti impegnati in questo tipo di scelta artistica: Modena City Ramblers, Yo yo mundi, Marco Rovelli, Alessio Lega e molti altri. Con l’aggiunta di grandi vecchi nomi del teatro italiano, Dario Fo, Franca Rame o quelli più comici come Paolo Rossi, e cineasti straordinari quali Giorgio Diritti e Massimo Martelli, che sulle storie specifiche (rispettivamente Marzabotto e la strage di Bologna) hanno saputo realizzare delle pellicole fantastiche, momenti di vera arte alta, al servizio della memoria.
Un solco “multimediale” che ha nel teatro civile forse la sua via maestra?
Teatro civile, nei luoghi dell’inchiesta e della narrazione, in uscita per edizioni Ambiente,è il primo in Italia su questo importante fenomeno che rappresenta la vera grande novità nell’ambito della drammaturgia nazionale, decretata da consensi di pubblico davvero straordinari. Pensiamo al Vajont di Marco Paolini, visto da almeno tre milioni di persone, o a Radio Clandestina di Ascanio Celestini che ha fatto due milioni e mezzo di spettatori. Complessivamente tutti gli spettacoli che facciamo in giro per l’Italia sono visti da migliaia e migliaia di persone, il vero teatro contemporaneo apprezzato dal pubblico è quello chiamato “teatro civile”, che ha un significato doppio, perché tutto il teatro in sé è civile, è politico, nel momento in cui metti in scena episodi come quello di Marzabotto o Sant’Anna di Stazzema. Quello che fa la differenza è la tecnica della narrazione, che si discosta potentemente dal teatro politico e impegnato degli anni Settanta, che era più di stampo brechtiano. Allora, il teatro doveva far passare un’idea e fare di tutto per convincere il pubblico che è quella giusta. Ora si parte da un altro presupposto: attraverso le storie si dipana la Storia con la S maiuscola, quella del nostro Paese. E quindi anche storie internazionali, dalla guerra in Iraq, in Afghanistan o in Somalia, cha hanno coinvolto colleghi andati lì a fare il loro mestiere, cercando di portare al meglio la loro consapevolezza all’opinione pubblica.
La contraddizione tra la verità e la giustizia in Italia mi sembra essere identificato da lei come il male del nostro Paese. Come si è evoluta nell’arco di sessant’anni?
Purtroppo tutte le storie che racconto sono finite male. Non solo con la morte delle persone, ma anche con la morte della giustizia. La sentenza della Corte di Cassazione che ha praticamente decretato l’assoluzione di tutti i responsabili di Piazza Fontana è il fatto più emblematico. Lo scopo del teatro civile non è solo quello di fare memoria, ma anche di suscitare emozione, e attraverso l’emozione una certa consapevolezza, poi rabbia ed infine, si spera, indignazione. Da rivolgere possibilmente ai governanti attuali, che a trent’anni di distanza non sembrano voler minimamente far luce sulla tragedia di Ustica. La sensazione è che il passato possa tornare da un momento all’altro. E i 600mila che nel nostro Paese abbracciano l’ideologia nazista non sono un buon segno.
GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO RECENSIONE
GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO INTERVISTA
IL QUOTIDIANO DELLA BASILICATA
Forse farebbero bene a leggerlo quei giornalisti che un mese fa scesero in piazza a Roma per difendere una “libertà di stampa” che secondo loro sarebbe oggi minacciata in Italia: si intitola “Passione Reporter” il bel libro di Daniele Biacchessi (Chiarelettere editore) e racconta le storie di Miran Hrovatin, Raffaele Ciriello, Ilaria Alpi, Maria Grazia Cutuli, Antonio Russo, Enzo Baldoni, storie di un giornalismo “irregolare”, storie di uomini e donne che per un’informazione vera hanno dato la vita, giornalisti per passione, non per mestiere. Farebbero bene a leggerlo, quelli che strillano contro una censura che non c’è, ed a fare un esame di coscienza collettivo: perché ormai da tempo in questa nostra Italia, dilaniata da giornalisti con l’elmetto, la verità dei fatti è stata piegata all’interesse di fazione. Ilaria Alpi, Miran Hrovatin, Raffaele Ciriello, Maria Grazia Cutuli, Antonio Russo, Enzo Baldoni erano testimoni diretti, prima ancora che vittime, della profonda ingiustizia della guerra e l’hanno raccontata con tutto il suo carico di orrori, connivenze e tragiche responsabilità. E Daniele Biacchessi (vicecaporedattore di Radio 24-Il Sole 24 ore, autore di altri libri inchiesta sull’Italia della vergogna, sull’omicidio Biagi e quello di D’Antona, sull’assassinio di Tobagi per citarne solo alcuni) con questo suo “Passione reporter” racconta – lui che il giornalismo d’inchiesta lo pratica tuttora – le vicende di quei giornalisti che per far conoscere la verità hanno osato fino a sacrificare la vita. Vicende che ciascuno di noi dovrebbe imparare a conoscere in tutti i risvolti umani e professionali, non foss’altro come uno strumento per capire meglio ciò che al mattino si legge sfogliando un quotidiano, ascoltando un notiziario alla radio o guardando un telegiornale.
Ilaria Alpi e Miran Hrovatin della Rai furono trucidati perché probabilmente avevano scoperto qualcosa di inquietante: traffici internazionali di rifiuti tossici e di armi, nascosti dietro la cooperazione internazionale ai paesi in via di sviluppo. Il 13 marzo 2002, moriva a Ramallah il fotoreporter italiano Raffaele Ciriello. Ad ucciderlo, come documentano le immagini che lui stesso ebbe la sfortuna di realizzare in punto di morte, fu una raffica di mitra partita da un blindato israeliano che gli si era improvvisamente parato contro, mentre Raffaele stava svolgendo il suo lavoro: filmare e fotografare, come faceva da più di dieci anni. Perché lo uccisero? Raffaele Ciriello aveva ripreso con una minuscola telecamera palmare gli atti di repressione dell’esercito israeliano contro la resistenza palestinese. Una sorte analoga toccò, sulle impervie strade che portano a Kabul, a Maria Grazia Cutuli: fu un omicidio politico, non un agguato a scopo di rapina come sembrava in un primo momento. Fu una azione deliberata contro la stampa internazionale. Un sanguinoso “avvertimento”. Maria Grazia era una cronista di razza, che non si fermava davanti ai fatti ma amava scavare, approfondire, capire, cogliere tutti i risvolti di una storia (chi scrive l’ha conosciuta quando ancora si batteva per entrare nella professione attraverso i contratti a termine con il settimanale “Epoca”). Perché fare il giornalista non è solo mestiere da “status symbol ” come troppo spesso accade, ma significa raccontare la verità delle cose anche – e soprattutto – quando dispiacciono a chi gestisce il potere. Talvolta anche a rischio della vita. Come è accaduto ad Anna Politkovskaja assassinata nell’ascensore del suo palazzo a Mosca e, prima di lei, a Antonio Russo di Radio Radicale, “reo” di aver denunciato la dura repressione delle forze militari russe nei confronti della popolazione cecena e per questo assassinato. Come pure Enzo Baldoni rapito e ucciso nei pressi di Bagdad. ” Se oggi – ha scritto Ferruccio de Bortoli nella prefazione a “Professione reporter” siamo più liberi e cittadini più consapevoli del nostro ruolo nella società, lo dobbiamo anche al sacrificio di questi colleghi che hanno cercato di capire”. E ciò vale per tutti. Anche – soprattutto – per quei giornalisti che in piazza chiedono più libertà e in redazione non la esercitano.
Raccontare è il lavoro principale del giornalista, perché non si perda la memoria. È stato apprezzato e sentito l’intervento di Daniele Biacchessi giovedì scorso al Censer rodigino, nel primo appuntamento serale inserito nella Fiera delle Parole 2009. Parlando al pubblico del suo libro “Passione reporter”, ha voluto sottolineare come l’informazione non si possa in alcun modo sostituire alla giustizia, ma serva per tenere vivo il ricordo, con particolare attenzione ai giornalisti uccisi mentre svolgevano la loro professione. «Ilaria Alpi, Miran Hrovatin, Raffaele Ciriello, Maria Grazia Cutuli, Antonio Russo, Enzo Baldoni – ha detto – non sono reporter che lavorano dal fronte. Raccontano storie che stanno dietro gli orrori della guerra, anche se la frontiera che separa il conflitto dalla vita di tutti i giorni e sempre più sottile. Ma informazione e investigazione si misurano con ostacoli, divieti, tentativi di manipolazione messi in campo dagli apparati militari, dalle agenzie di spionaggio, dal potere politico. In Afghanistan, Maria Grazia Cutuli del Corriere della Sera e i suoi tre colleghi della stampa internazionale, vengono uccisi per dare un messaggio agli Stati in guerra contro i taleban. Da Tiblisi, Antonio Russo denuncia la dura repressione nei confronti della popolazione cecena. In Iraq, Enzo Baldoni, pubblicitario e giornalista, viene rapito e ucciso insieme al suo interprete trasportando un uomo in gravi condizioni all’ospedale di Baghdad».
Le storie narrate da Biacchessi sono divenuto in chiusura i capitoli di una forma di teatro civile, affiancato da due musicisti del gruppo Gang: Marino Severini, voce e chitarra e Sandro Severini, chitarra elettrica.
Applausi anche per Ettore Mo, giornalista della vecchia scuola dell’impareggiabile Indro Montanelli. Forte la sua critica all’approssimazione, alla fretta a scapito della qualità. «È necessario verificare ogni notizia, andare sul posto e parlare con le persone: solo così si può praticare il vero giornalismo, senza dare fiducia, per fretta o superficialità, a quanto compare nelle agenzie o viene divulgato con mezzi alternativi».
Il libro “Passione Reporter. Il giornalismo come vocazione” racconta il “giornalismo di frontiera” di uomini e donne che hanno sacrificato la loro vita per affermare la libertà d’informazione (www.chiarelettere.it, marzo 2009).
L’autore di questo saggio limpido e asciutto è Daniele Biacchessi: giornalista, scrittore, autore, regista e interprete di teatro narrativo civile (è vicecaporedattore di Radio24-Il Sole24Ore, dove ha condotto “Giallo e Nero”, trasmissione dedicata ai misteri d’Italia).
Comunque in questi casi non c’è molto da dire ed meglio leggere direttamente l’opera di Daniele Biacchessi. E ai reporter di professione e non, consiglio di memorizzare bene queste parole del defunto attivista Antonio Russo: “Dobbiamo ricordarci che l’informazione è un veicolo diretto all’utente, non un soliloquio da parte del giornalista. Bisogna tenere sempre presente che chi è dall’altra parte deve poter comprendere una realtà in cui non è presente”. Infatti un vero cronista va direttamente e pericolosamente sui fatti e se ha paura non deve fare l’inviato di guerra. “Se oggi siamo più liberi e cittadini più consapevoli del nostro ruolo nella società, lo dobbiamo anche al sacrificio di questi colleghi che hanno cercato di capire” (Ferruccio de Bortoli, prefazione).
E ora vi lascerò meditare in silenzio sui nomi e sulle brevi storie degli sfortunati reporter che con le loro azioni e la loro vita hanno dimostrato il vero amore per la libertà e la verità:
Ilaria Alpi nasce a Roma nel 1961 e viene assassinata a Mogadiscio in Somalia nel 1994 insieme al cineoperatore Miran Hrovatin. Qual è la causa probabile di questa esecuzione a bruciapelo? Di certo c’è solamente il fatto che stavano seguendo una pista di traffici illeciti di armi e di rifiuti pericolosi tra Italia e Somalia (il sito www.ilariaalpi.it è una finestra sul giornalismo d’inchiesta).
Raffaele Ciriello nasce a Venosa (PO) nel 1959 e muore a Ramallah, nei territori palestinesi della Cisgiordania nel 2002. È stato ucciso da una scarica di mitragliatrice di un carro armato israeliano. Purtroppo era un freelance che non portava elmetto, giubbotto antiproiettile e la scritta “Press”. E si era preso l’enorme rischio di sporgersi da un angolo dal quale pochi secondi prima i palestinesi avevano sparato, come dimostrano le immagini da lui girate (Ugo Tramballi, Il Sole24Ore).
Maria Grazi Cutuli nasce a Catania nel 1962 e viene assassinata a Kabul in Afghanistan nel 2001. L’omicidio è derivato dall’odio fondamentalista talebano. Comunque il convoglio di otto auto non prosegue il cammino in fila indiana come suggeriscono le regole di sicurezza nelle zone di guerra e non ci sono guardie del corpo per contrastare l’azione degli otto assalitori assassini.
Antonio Russo nasce a Francavilla al Mare nel 1960 e muore a Tbilisi in Georgia nel 2000. È morto per le lesioni inferte da killer professionisti (probabilmente russi), poiché aveva raccolto molta documentazione relativa all’impiego di armi vietate dalle Convenzioni di Ginevra da parte delle forze armate russe (pallottole espansive in alluminio, “mine ragno” semoventi, bombe Vacum).
Enzo Baldoni nasce a Città di Castello e muore a Najaf in Iraq nel 2004. Il giornalista freelance viene sequestrato e assassinato da un gruppo di terroristi mentre sta compiendo una missione umanitaria per la Croce Rossa italiana. Era anche un volontario che non amava le emozioni forti: si riteneva una persona curiosa che voleva capire cosa spingesse persone normali a imbracciare un mitra per difendersi. Il suo corpo non è ancora stato ritrovato e ha lasciato nei familiari un cumulo di rabbia inespressa che si trasforma di volta in volta in pianto sdegnato, in lancinanti ricordi o in silenzio gelido e paralizzante.
L’appuntamento con la morte “è purtroppo il prezzo che talvolta deve pagare chi abbia deciso, per propria scelta, di dedicarsi alla dolorosa realtà della guerra” (Errore Mo, inviato di guerra, p. 120).
Concludo con le parole di un grande spirito libero del giornalismo d’inchiesta: “Una coincidenza è una coincidenza. Due coincidenze sono due coincidenze. Tre coincidenze sono un indizio” (Marco Nozza, Il pistarolo, 2006). E le coincidenze e gli indizi dovrebbero essere sempre raccontati all’unico editore del vero giornalista: il cittadino.
Davanti alla morte e alla violenza, quando sono così intime, vorrei soltanto silenzio. È la solitudine che ho cercato, ogni volta che mi è accaduto di perdere qualcuno. Accadde quando mia madre morì e avevo 15 anni, si è ripetuto tutte le altre volte, anche quando per mestiere mi è toccato scrivere la cronaca della morte di Maria Grazia Cutuli e di Julio Fuentes, di Raffaele Ciriello, di Ilaria Alpi, di Antonio Russo. Il libro di Daniele Biacchessi, Passione Reporter, racconta oggi le vicende di questi miei compagni di strada e di vita assassinati. Morti ma non scomparsi.
Tornando a casa dai servizi ho scoperto quanto la loro assenza mi facesse compagnia. Vengono a visitarmi sempre, anche adesso che ho voluto cambiare città. Ci sono giornate in cui sono molto occupato a parlare con loro. A un certo punto si è intromesso pure uno psicoanalista, ma ha dovuto fare presto i bagagli. Non c’era posto anche per lui.
In alcuni momenti interrompo di leggere o scrivere per continuare la conversazione. Ho scoperto che il telecomando non mi dà fastidio: riesco a dialogare senza interruzioni mentre scorrono le immagini e il sonoro svanisce nella stanza. Parliamo di tutto, al passato e al presente, non sono conversazioni tristi ma movimentate, in particolare con Maria Grazia che non smette di prendermi in giro e fumare le mie sigarette. Con Julio è quasi sempre un monologo, come un tempo del resto. La sua concezione del giornalismo è rigorosa, la stessa di quando, nel pieno della notte a Sarajevo, voleva convincermi a partire subito per verificare la notizia di un massacro, sfidando milizie e posti di blocco. Ogni tanto mi salva Raffaele, con la sua ironia e le battute chirurgiche. E penso alla sua bambina, a sua moglie, che non vedo mai. Donata, la sorella di Maria Grazia, mi telefona, ci siamo rivisti qualche volta, e naturalmente siamo sempre in tre. Mi ricorda tutte le volte che discutevo con Maria Grazia, anche per il finestrino dell’auto abbassato.
L’anno scorso ho conosciuto la madre di Antonio Russo: nella giuria del Premio che gli hanno dedicato ci sono quasi tutti gli inviati di guerra. Per la morte di Antonio, scrive Biacchessi, non c’è stata giustizia. Il suo assassinio, ai confini tra Georgia e Cecenia nell’ottobre 2000, fu un omicidio a sangue freddo, quasi perfetto, sui cui calò presto il silenzio della magistratura e della politica. «Per Raffaele – testimonia nel libro la madre Teresa Ciriello – le autorità ebraiche non hanno fatto nulla: fu mitragliato da un tank israeliano mentre imbracciava l’obiettivo, filmando la sua morte, ma loro non hanno neppure ammesso di avere sparato».
Ferruccio de Bortoli, nella prefazione, si chiede se si poteva fare qualche cosa per salvarli. Più il tempo passa e più le mie certezze svaniscono e mi domando perché, per caso, io sono ancora materialmente vivo. Ma ha scandalosamente ragione quando scrive che l’unica cosa che conta, adesso, è tenere viva la memoria dei fatti. Contrastando magari gente come un certo avvocato, presidente di una commissione d’inchiesta, secondo il quale Ilaria Alpi e Miran Hrovatin trascorsero in Somalia «una settimana di vacanza conclusa tragicamente», il 20 marzo 1994. Sono persone così che a volte da noi occupano cariche istituzionali e scranni in Parlamento.
Ora mi chiedo soltanto chi tornerà a visitarmi domani. Sono contento che scenda la sera. Un altro giorno è andato e posso leggere il libro di Daniele. È stato bravo a raccontare queste storie con testimoni e documenti, descrivendo alla perfezione l’erosione quotidiana di una passione caparbia, tenace e a volte inspiegabile, come un grande amore. Perché per amore sono morti i miei compagni, non per un mestiere. E questo libro è la cronaca di un amore.
Ritorna in libreria Daniele Biacchessi, giornalista di Radio24 Il Sole-24 Ore. Questa volta lo fa con un libro dedicato ai giornalisti italiani morti per raccontare i conflitti dimenticati. «Passione reporter», in uscita per Chiarelettere il 19 marzo, sarà presentato in anteprima nazionale a Ginestra (Pz) il 21 marzo, presso la Sala consiliare, con inizio alle 20. La presentazione avverrà sotto forma di spettacolo di teatro civile. Biacchessi, infatti, oltre ad essere vicecaporedattore di Radio24, è anche un apprezzato scrittore e autore teatrale, intento a portare in scena le storie del giornalismo d’inchiesta. La presentazione di «Passione reporter» (il libro contiene la prefazione del direttore del Sole-24 Ore Ferruccio De Bortoli) è a cura del Comune di Ginestra, nell’ambito del “Premio Raffaele Ciriello”, e dell’associazione di promozione sociale LucaniaMente. Uno dei protagonisti di «Passione reporter» è proprio Raffaele Ciriello, originario del borgo vulturino, ucciso a Ramallah nel marzo del 2002. Il volume contiene un’intervista del giornalista lucano Gennaro Grimolizzi al padre di Raffaele, Giuseppe Ciriello. Oltre che sul fotoreporter, Biacchessi si sofferma sulle storie di Ilaria Alpi, Mariagrazia Cutuli, Antonio Russo ed Enzo Baldoni.
«La presentazione del libro di Biacchessi – afferma Fabrizio Caputo, sindaco di Ginestra – ci riempie d’orgoglio. Il giornalista di Radio24 ha voluto che la prima presentazione avvenisse nel mio comune essendo a conoscenza del lavoro per mantenere vivo il ricordo di Raffaele Ciriello. Inoltre, occorre ricordare che un nostro corregionale, Gennaro Grimolizzi, ha dato un contributo al volume, con un’intervista a Giuseppe Ciriello. Ci impegneremo sempre a fondo per ricordare al meglio il sacrificio di Raffaele con iniziative culturali di portata nazionale ed internazionale».
«Il mio libro – commenta Daniele Biacchessi – raccoglie storie di giornalisti italiani che, in luoghi diversi del mondo hanno raccontato tanti e diversi conflitti armati. È un tributo a quei professionisti che si sono battuti per un’informazione senza filtri, che sono morti per un’informazione non inquinata dal potere, che hanno considerato il giornalismo come un’autentica vocazione». Come per gli altri lavori editoriali (si pensi a «Il Paese della vergogna», sempre edito da Chiarelettere, 10mila copie vendute), anche «Passione reporter», dopo Ginestra, sarà portato in tour in tutta Italia sotto forma di spettacolo di teatro civile. «Farò un reading – evidenzia l’autore – che sfocerà in una traduzione teatrale delle oltre duecento pagine del libro».
«L’associazione LucaniaMente – dice il presidente Gaetano Chiarito – è lieta di inaugurare le sue attività nel ricordo di Raffaele Ciriello, un lucano che ha fatto dell’impegno civile la propria missione di vita».
«Laura è una giovane cronista, intraprendente che vuole sapere, capire. Viene inviata nel giorno in cui la Commissione d’inchiesta si chiude con quel finale imbarazzante. Entra nella bouvette, varca la soglia del palazzo del potere e un vecchio cronista le dice “guarda che tutte le volte che vogliono insabbiare qualcosa si inventano una commissione d’inchiesta”».
È questo l’escamotage narrativo con cui si apre il nuovo libro di Daniele Biacchessi, la cui uscita è prevista nel marzo 2009. Lo ha rivelato lo stesso autore ai redattori del Periscopio, nel corso di una lunga intervista sul giornalismo e sui giornalisti, quelli morti per raccontare e quello che hanno paura di farlo.
Perché ha deciso di scrivere questo libro?
Mancava un libro che raccontasse di quei giornalisti che sono stati uccisi per il prezzo della verità. È il prezzo che hanno pagato giornalisti come Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, Maria Grazia Cutuli, Raffaele Ciriello, Antonio Russo e Enzo Baldoni, per aver avuto il coraggio di raccontare. Per tutte queste morti non c’è stata una giustizia. Ad esempio, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin non sono stati uccisi perché andavano in vacanza per conto della Rai, come ha affermato l’allora presidente della Commissione di inchiesta, Carlo Taormina. Sono stati ammazzati perché avevano scoperto un traffico di sostanze tossico-nocive e di armi che passavano attraverso la cooperazione internazionale e arrivavano in Somalia su navi partite dai porti italiani. Traffici che contavano su coperture internazionali e anche di parti dello Stato italiano. Questa cosa l’avevano intercettata a Bosaso. La loro è stata una vera e propria esecuzione. Vengono uccisi a Mogascio, assassinati a distanza ravvicinata da un gruppo di killer che aspettano proprio loro, perché erano andati a Bosaso e avevano intercettato queste navi. Ilaria aveva fatto un’intervista al sultano di Bosaso, che nel libro io riporto integralmente. E proprio dall’intervista si capisce che lei aveva intercettato qualcosa, aveva capito quali erano i traffici che passavano dal nostro paese, in particolare dal porto di La Spezia.
Dal poco che si è saputo..
<Non è vero, non si è saputo poco, è venuto fuori molto, tutto. Tutto sta scritto nelle indagini, nelle inchieste, solo che non si ha il coraggio di andare fino in fondo, di affermare quello che ormai tutti sanno. Di queste vicende, così come di tutte le altre storie italiane si sa tutto. Si sa tutto di Piazza Fontana, si sa tutto di Ustica, si sa tutto di Ilaria Alpi. Si tratta di trasferire una verità storica, una verità che è stata accertata e che è emersa chiaramente da centinaia e centinaia di testimonianze in una verità giudiziaria. È questo il punto. Quello di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin non è un mistero. È una storia ampliamente conosciuta solo che non si è avuto il coraggio politico di andare fino in fondo. Le commissioni d’inchiesta sono tutte inutili, vengono realizzate appositamente per affossare le inchieste. È accaduto per il terrorismo, le stragi, la mafia, il terremoto in Irpinia, in Umbria, possiamo andare avanti per ore… Viene accatastata una quantità enorme di materiale, che poi passerà alla storia. Ma non si riesce mai a arrivare alla conclusione, perché tutti cercano o vogliono cercare un finale condiviso, che non ci può essere>.
Quindi di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin si sa tutto.. e degli altri?
<Sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin si sa tutto, ci sono centinaia e centinaia di testimonianze che messe in fila fanno un atto d’accusa. Trasferire tutto questo in sede penale per trovare dei colpevoli o degli ispiratori o dei mandanti: questo è il problema vero di questo paese. Vale sia per le vicende come quella di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, come per quelle più semplici come la morte di Raffaele Ciriello. È una storia semplice. Un fotografo si trova a Ramallah in mezzo agli scontri fra israeliani e Palestinesi. Esce da un angolo di una strada nel centro di Ramallah, con la sua piccola telecamera digitale riprende un carro armato israeliano che è piazzato lì vicino, in mezzo agli scontri. Il giorno prima c’era stata un’operazione israeliana in un campo profughi a nord di Ramallah. Gli israeliani erano entrati con i carri armati, nonostante tuttora lo neghino, avevano sparato anche sui cronisti che erano nel City Inn, l’albergo di Ramallah. E questo lui lo racconta a noi di Radio24. Nel libro c’è l’intervista, l’ultima intervista che Ciriello rilascia prima di morire. Anche in quella occasione, quando i magistrati di Milano, chiedono al governo italiano una prova di verità. Ma l’unica cosa che il governo riesce a ottenere è che Israele dica che i giornalisti erano autorizzati a girare per le strade di Ramallah, cosa per altro non vera. Quindi se Ciriello era stato colpito era esclusivamente colpa sua. Dopo una serie di pressioni hanno cambiato leggermente versione, dicendo che il soldato che stava dentro il carro armato lo aveva scambiato per un palestinese con un RPG. Una storia che non sta in piedi.
Non parliamo poi di Enzo Baldoni, il cui corpo non è mai stato consegnato alla famiglia, non c’è mai stata la possibilità di fare un esame autoptico. Oppure di Antonio Russo, che muore in Georgia al confine con la Cecenia, dopo aver fatto una quantità enorme di denuncie sulle torture che il popolo ceceno è costretto a subire. Anche per Antonio Russo non c’è mai stata un’inchiesta se non quella aperta in Georgia.. Questo è quello che emerge. Un enorme distacco fra una verità storica, fra quello che tu sai, leggi e ascolti e quello che invece poi emerge o non emerge nelle aule processuali. Sono vicende che non arrivano mai o quasi mai nelle aule di Tribunale. Oppure arrivano per assolvere i responsabili>.
Parlando di Ilaria Alpi, accennava alla responsabilità di parti dello stato italiano..
<Il ruolo dei servizi segreti in Somalia è un ruolo chiave. Così come in tutte le storie italiane. C’è una costante. I servizi segreti non sono mai deviati. Sono servizi segreti. Si muovono con operazioni coperte, quasi mai assicurano la verità, né assicurano alla giustizia i responsabili. Ma questo è sempre avvenuto. È avvenuto a piazza Fontana quando fecero scappare Guido Giannettini (n.d.r. agente del Sid scappato all’estero dopo la strage), è avvenuto per la strage di Brescia nel ’74, è avvenuto per Peppino Impastato, quando i Carabinieri dissero che era morto per un attentato di tipo terroristico. Non c’è mai da parte delle istituzioni una ricerca della verità. Questo accade per tante storie e accade anche per la morte dei giornalisti di cui ho scritto. I giornalisti non hanno scorte, sono degli osservatori, dovrebbero osservare e scrivere quel che vedono. Lo Stato dovrebbe difendere i propri cittadini, sia in Italia, sia all’estero. I giornalisti vengono lasciati soli>.
Si può interpretare come una limitazione alla liberta di informare?
<Non credo che il punto sia la libertà di informare. La questione è capire cosa intendiamo per giornalismo. Ci sono gli scherani, gli embedded, quelli che pensano che il giornalismo significhi salire su una jeep dell’esercito e mettersi un elmetto. E poi ci sono persone che vanno in giro a cercare la notizia, che è quello che si dovrebbe fare. Quelli rischiano di più. E non solo andando in guerra. Walter Tobagi è stato ucciso in Via Solari a Milano. E Carlo Casalegno nel centro di Torino. E Guido Passalacqua, di Repubblica è stato ferito in casa sua a Milano. E Emilio Rossi,direttore del Tg1 è stato uscito davanti a Saxa Rubra,davanti alla vecchia sede della Rai. Bisogna capire bene cosa intendiamo per giornalismo. Se è il mestiere di quelli che passano le carte dei potenti di turno, che lustrano le scarpe o sono i cani da guardia di un partito piuttosto che di un gruppo di potere, allora in questo caso il giornalismo non esiste più.
Io ho 50 anni, appartengo a una generazione i cui maestri sono Corrado Staiano, Marco Nozza, Mauro Brutto, grande giornalista dell’Unità che lavorava in cronaca. Questi sono i grandi giornalisti degli anni 70. Tutti grandi giornalisti che hanno fatto le grandi inchieste in Italia. Io sono nato leggendo i loro libri, i loro articoli, assorbendo le tecniche di investigazione. I loro articoli facevano la differenza, perché loro si muovevano per cercare una verità, per cercare una giustizia. Ci sono verità che sono verità ufficiali, facilmente smontabili. Se giornalisti che si occupavano di Piazza Fontana avessero soltanto passato le carte di quello che veniva raccontato, il povero Valpreda, che era innocente, sarebbe rimasto in carcere a vita. Poi si è scoperto che le storie erano diverse, non erano stati gli anarchici. Quella pista era stata messa lì dall’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno. Bisogna cercare di trovare una verità sulle carte, sulle testimonianze, che è quello che non si fa, perché costa fatica. Un giornalista, oggi, per fare bene il suo mestiere dovrebbe riprendere le tecniche investigative di un tempo. Unire l’investigazione classica ad una grande capacità analitica. Il giornalista, non sostituendosi alla magistratura, accerta però una verità e scrive quello che vede, quello che sente, ascolta, va in giro, sente, intervista, consuma le suole delle scarpe>.
Sembra essere molto scettico sul giornalismo di oggi..
<Si assolutamente si. Le redazioni sono tutte in mano agli uffici marketing, a altri tipi di stimoli. Infatti, se vuoi fare un’inchiesta scrivi libri. Poi bisogna capire cos’è un’inchiesta. La grande capacità di mettere in fila i fatti, non è una cosa semplice. Si tratta di un fiuto che hai o non hai, non lo puoi imparare, studiare su un libro di testo. La curiosità.
Poi c’è la tecnica, che è quella di saper leggere i documenti giudiziari, che è una cosa molto difficile. Sono documenti noiosissimi, cose terribili e tu devi essere capace di asciugare il linguaggio per arrivare all’essenza della notizia, capire dove sta la notizia. E poi andarla a verificare. Questo è l’altro compito dei giornalisti. Ci sono giornalisti che non fanno né l’uno né l’altro, giornalisti che fanno solo la prima cosa e si accontentano di fare copia e incolla di verbali giudiziari, e ci sono pochissimi giornalisti che vanno a prendere questi verbali e queste sentenze e poi fanno a verificare. Perché ogni testimonianza ha un nome e un cognome>.
Mi saprebbe fare un esempio di giornalisti che ancora oggi lavorano così?
<Me ne viene in mente solo uno. Giovanni Bianconi del Corriere della Sera. Lo dico con affetto nei suoi confronti ma con tristezza in generale. Perché in generale mancano delle cose essenziali per un giornalista, per il giornalismo. Ti faccio un esempio. Marco Biagi è stato ucciso alle 20 e 04. Non alle 20 e 07. O tra le 20 e le 20 e 30. O intorno alle 20. La precisione è essenziale, perché ti permette in seguito di giudicare una testimonianza, di capire se una cosa è potuta o non è potuta avvenire. Questa precisione millimetrica, questa meticolosità e quindi anche questa passione ti permette di essere preciso e quindi di essere credibile nei confronti dei tuoi lettori>.
È così importante la precisione per un giornalista?
<La precisione fa la differenza in un giornalista. Ad esempio, quando arrivai a Capaci il 23 Maggio del 1992. Tutti i giornalisti erano lì dove c’era l’autostrada. Io invece mi sono guardato attorno. Sulla destra c’era il mare, sulla sinistra c’era una collina. Sono andato sulla collina. Perché ad esempio cosa ti può dire un investigatore dopo che vedi una buca di nove metri, profonda tre? È chiaro che si tratta di un’autobomba. Però dall’alto di una collina cominci a capire che qualcuno forse l’ha piazzata lì, che forse qualcuno ha schiacciato un pulsante, che forse qualcuno aveva messo dell’esplosivo in un canale di scolo e l’ha fatto esplodere al momento opportuno. E infatti le cose sono andate così. Quindi la tua corrispondenza, il tuo servizio, il tuo articolo è qualcosa di più rispetto agli altri. Ma tutto questo implica passione, metterci dentro dell’impegno, della curiosità. E una metodologia, che uno si crea, si costruisce facendo le inchieste. Una metodologia che ad esempio ti porta a capire ad esempio che dall’alto puoi cogliere elementi più importanti..>
I giornalisti quindi devono indagare, sviluppare una metodologia, porsi delle domande e cercare delle verità. Ma qual è il ruolo della magistratura? Ad esempio, per il caso Alpi si arriverà prima o poi a una sentenza o ormai è un’impresa disperata?
<No, non è un’impresa disperata. Se c’è la volontà politica di andare avanti, si fa. Gli investigatori, in primis, si muovono su input politici. Se ci sono questi input politici, se c’è una volontà di fare chiarezza, ma per tanti motivi, anche solo per fare piazza pulita, per voltare pagina nei confronti di un certo tipo di dirigenza dei servizi di sicurezza, allora si indaga. Senza volontà politica è difficile che un magistrato possa andare avanti fino in fondo.
Mi spiego, nel 1989 è caduto il muro di Berlino e qui stiamo parlando ancora di sentenze passate in giudicato che assolvono gli imputati per Piazza Fontana. questa è l’Italia con cui dobbiamo fare i conti. Ustica, perché? Perché vengono assolti i generali che erano stati ritenuti responsabili di grandissimi depistagli? Perché nessun governo è andato dagli americani e dai francesi a chiedere quali erano i velivoli che ronzavano attorno al Dc-9 di Ustica. Perché? Perché non c’è la volontà politica.Per il caso Alpi, non mi pare di intravedere spiragli. Anche i genitori di Ilaria sanno che gli spiragli sono dovuti soprattutto a questa volontà politica. Se c’è una volontà politica si fanno le cose, sennò non si fanno. Gli investigatori perché devono indagare su delle vicende cosí scottanti per poi magari essere trasferiti al commissariato di matera, come è successo a Pasquale Iuliano per la strage di Piazza Fontana. Nel ’69, il 12 dicembre ha detto che erano stati esponenti di Ordine Nuovo del Veneto. La volontà politica voleva che fossero gli anarchici, quindi il povero Iuliano venne mandato a dirigere un commissariato di Matera. Non la Questura, uno dei commissariati. Ed è morto recentemente, continuando a fare il suo mestiere al Commissariato di Matera>.
ARCOIRIS: INTERVISTA DI PIETRO RICCA
Ancora poche ore e potrete buttare dalla finestra anche il 2007. Per non confondersi, la storia più recente ci ha insegnato che non si sa mai, forse vale prima la pena di fare un ripassino per non dimenticare “Il Paese della vergogna” (chiarelettere, pp. 125, €9,50). Da Piazza Fontana a Giorgio Ambrosoli, dalla morte “anarchica” di Fausto e Iaio a Piazza della Loggia, Daniele Biacchessi racconta misteri, omicidi e stragi in un’Italia che sembra ormai vivere in una perenne ri(e)mozione forzata. Con la voce e la potenza di uno scrittore che è l’unico erede della narrativa civile di Pier Paolo Pasolini.
Chi conosce Daniele Biacchessi, la sua instancabile attività teatrale, il suo impegno e si trova a maneggiare il suo libro “Il Paese della Vergogna” non ha molti dubbi sul suo contenuto. Sul fronte di copertina campeggia a metà la scritta “PER NON DIMENTICARE”, seguita dall’elenco delle stragi che hanno turbato e turbano la storia della nostra Repubblica fin dal suo nascere. Si va dalle infami stragi del’44 sull’Appennino tosco-emiliano, che fecero man bassa di vite di civili, partigiani e non, a Portella della Ginestra, alle stragi nere degli anni di piombo, per arrivare all’uccisione di Peppino Impastato, Libero Grassi e alle stragi mafiose. Sono storie accomunate dal sacrificio della ricerca della verità da parte delle vittime, lasciate sole dalle istituzioni, e dall’incredibile ritardo, quando non assenza, della giustizia; l’autore ce le racconta, sempre fedele ai fatti, nello stesso modo in cui lo fa nei suoi pezzi di teatro narrativo civile, con lo slancio empatico e civile di chi sa che il dolore per questi lutti non può essere superato in solitudine, ma in un percorso collettivo di memoria e di condanna.
Vorremmo qui riportare brevemente un evento del libro illuminante quanto sconvolgente. È il 1944 e l’Italia è divisa in due, la linea gotica divide in chiaroscuro il paese liberato da quello oppresso; tra il ’44 e il ’45 vengono uccisi migliaia di civili, di cui molti sono bambini sotto i quindici anni: è il commiato in grande stile di vent’anni di dittatura. Passano cinquant’anni e si rinviene un armadio con le ante rivolte al muro, a significare che non doveva essere aperto, in uno scantinato della sede degli Uffici di Vertice della Magistratura Militare a Roma. L’armadio custodiva settecento fascicoli sulle stragi con dichiarazioni dei parenti delle vittime, di testimoni, e con l’indicazione dei responsabili delle stragi; era stato secretato in corrispondenza dell’esclusione, voluta dagli USA, dei partiti di sinistra dal governo. Nel 2003 viene costituita una commissione parlamentare sulle stragi a maggioranza berlusconiana. Si analizza tra le altre cose: un carteggio tra il ministro Martino, PL, e il ministro Taviani, DC, in cui risulta chiaramente la volontà di non far partire i processi a carico dei nazifascisti, per non incrinare l’alleanza militare in chiave anti URSS della Germania; la corrispondenza continuativa tra Andreotti e la Procura Generale Militare e tra il ministero della Difesa e la stessa Procura, con analoghi contenuti. La relazione di maggioranza, stilata dal neofascista Raisi, giudica di natura privata il contenuto della prima e non degna di nota la seconda. Ingiustizia politica è fatta. Intanto, i processi a carico degli ufficiali nazisti si riaprono e si concludono, 62 anni dopo che fu commesso il crimine, con le sentenze ergastolane per i venti ufficiali responsabili degli eccidi di Sant’Anna di Stazzema e Marzabotto, 2500 morti in tutto. Ma ancora tanti sono gli impuniti e gli impunibili, perché morti od all’estero, per le altre stragi.
La memoria di eventi come questo non la troverete nell’agenda politica di nessun partito, e neanche nei mass media essi hanno cittadinanza. Per questo, forse, da un sondaggio rivolto agli studenti liceali di Milano, Brescia e Bologna sulle stragi di piazza Fontana, piazza della Loggia e della stazione, è risultato che almeno il 70% ne attribuisse la paternità alle BR o a gruppi di sinistra; e chissà cosa direbbero i giovani siciliani di Portella della Ginestra?
Leggere la nostra realtà storica attraverso libri come questo, ma non solo, e rivendicarla significa onorare il sacrificio di chi è morto per la libertà, contro le mistificazioni storiche di chi vuole mettere da parte un passato che non si può dimenticare.
Daniele Biacchessi è innanzitutto un giornalista, è stato infatti collaboratore di alcune importanti testate nazionali. Da parecchi anni scrive libri su avvenimenti che hanno sconvolto la nostra storia repubblicana, alcuni di questi sono diventati spettacoli di teatro civile.
Come interagiscono la sua attività di giornalista e quella di narratore?
Nei miei libri ho sperimentato il doppio filo narrativo: veridicità dei fatti (lettura dei documenti, oggettività dei fatti, analisi dei verbali e delle sentenze giudiziarie) con il piacere dello scrivere. Racconto storie spesso dimenticate che devono essere narrate. Così dopo numerosi libri pubblicati, scrivere su carta non mi bastava più. Del resto il mercato editoriale si é assai ristretto, i lettori sono pochi, i volumi che entrano in libreria sono moltissimi. Il solco é quello tracciato dalla tradizione dei cantastorie popolari. Giravano l’Italia e raccontavano storie lontane tra loro. Facevano memoria. Questo é diventato il mio compito.
Nel suo nuovo libro, “Il Paese della vergogna”, lei parla di attentati terroristici di stampo fascista e di stragi mafiose. Quale è il filo, se c’è ne uno, che lega questi avvenimenti?
La profonda ingiustizia. Per le stragi nazifasciste del 1943 – 1945 ci sono state sentenze di ergastolo tardive (63 anni dopo é giunta quella per la strage di Sant’Anna di Stazzema). Per gli attentati della cosiddetta “Strategia della tensione” (Piazza Fontana, Questura di Milano, Piazza della Loggia a Brescia, Italicus) gli imputati sono stati tutti assolti. Per gli omicidi e le stragi della mafia si sono trovati gli esecutori ma mai i mandanti politici, gli ispiratori, i beneficiari. Per il terrorismo politico, restano ancora inquietanti interrogativi. La politica non ha saputo dare ai cittadini spiegazioni plausibili, le commissioni di inchiesta non hanno funzionato oppure sono state utilizzate in modo strumentale per colpire oppositori.
Lei ha usato con forza nella presentazione del libro la parola ingiustizia, per quale motivo?
Perché la giustizia é l’unica cosa che si aspettavano davvero i familiari delle vittime. Non solo hanno fatto i conti con risarcimenti tardivi o spesso mancati, ma pure hanno assistito a squallidi balletti nelle aule dei tribunali fatti da “non ricordo”, “non so”, “non c’ero”. E alla fine nessun colpevole.
Ha detto che questo spettacolo è destinato soprattutto alle scuole ed ai più giovani. Perché?
I giovani hanno sete di sapere. Nessuno racconta loro queste storie d’Italia, non vi sono tracce sui libri di testo ministeriali. Neppure le pagine più importanti della lotta di Liberazione e della Resistenza. È evidente che si tratta di un progetto ben preciso: fare in modo che i giovani non conoscano la Storia, per non far comprendere il presente e poter scegliere nel futuro. Io parlo ai loro cuori. Decine di repliche dei miei spettacoli le tengo nelle scuole. Credo molto a questo percorso. I fatti mi danno ragione. Ci sono mattine dove non riesco ad andare via, i ragazzi mi chiedono conto di quello che dico, di ciò che racconto, chiedono percorsi bibliografici, link a siti internet, documenti giudiziari.
Dopo il recente dibattito storiografico sull’opportunità di operare un revisionismo interpretativo dei fatti della lotta di resistenza, l’opinione comune sembra avere accettato, quantomeno implicitamente, l’equiparazione tra fascisti e comunisti, ma anche tra repubblichini e partigiani. Lei che ne pensa? Come giudica che anche parte della sinistra non sembri contrastare questa evoluzione?
Le truppe tedesche del Terzo Reich hanno occupato il nostro paese dopo l’8 settembre 1943. I repubblichini di Salò e le varie formazioni paramilitari fasciste erano servi dei nazisti, dunque complici delle leggi razziali in Italia e dell’Olocausto. Chi portava i soldati della sedicesima divisione Panzergranadier a Sant’Anna di Stazema per uccidere civili in fuga dalla guerra? Chi li ha portati lungo le strade che portano a Montesole – Marzabotto? I fascisti di Mussolini. I partigiani erano dalla parte della democrazia e della Repubblica. I fascisti restavano dalla parte della dittatura. Nessuna equiparazione può esserci sul piano storico.
Lei è dell’Appennino tosco – emiliano tristemente famoso per l’eccidio di massa nazista. A Marzabotto è presente una sezione della nostra associazione Radio Aut, a rappresentare un ponte ideale che unisce antimafia sociale e Resistenza. Nel libro ricostruisce la storia di Peppino Impastato e recentemente è stato anche a Cinisi, dove ogni anno si tiene la manifestazione commemorativa della sua morte, per fare uno spettacolo. Può parlarci dei suoi rapporti con la Sicilia, e può dirci come pensa sia possibile combattere la prepotenza fascista e quella mafiosa?
La storia di Peppino Impastato é emblematica e vale per tutte. Ci sono voluti 22 anni perché la giustizia mettesse la parola fine all’inchiesta sull’uccisione di un giovane militante di Democrazia proletaria che si ribellava alla mafia. 22 anni per sostenere ciò che veniva urlato dalle mille persone che parteciparono al funerale: Peppino ucciso dalla mafia politica, il mandante é Don Tano Badalamenti. Ma così vanno le cose in Italia. I carabinieri scrissero che Peppino era rimasto ucciso mentre preparava un attentato. Una tesi assurda che ha retto per molti anni. La mafia si colpisce sequestrando i beni dei boss, applicando le leggi, costringendo lo stato a mettere la lotta alle cosche al primo posto dell’agenda politica. Epocale é la svolta di Confindustria Sicilia che espelle gli imprenditori che pagano il pizzo, definendoli collusi con la mafia.
Nel suo libro le istituzioni vengono raffigurate come implicate, più o meno direttamente, in quei fatti sanguinosi e criminali. Pensa che oggi le cose siano cambiate?
Una verità storica é emersa dalle carte. In Italia si é combattuta nella seconda metà del Novecento una guerra a bassa intensità, una guerra non ortodossa. Gli apparati dello Stato italiani (nati dalla polizia fascista Ovra), hanno giurato fedeltà agli Stati Uniti e ai suoi piani. In Italia c’era il più grande Partito Comunista dell’Occidente e la più importante organizzazione sindacale europea. Nel ’68, le istanze degli studenti si stavano mischiando con quelle dei lavoratori. E’ questo era pericoloso per la destra moderata. Così sono scoppiate le bombe che hanno ucciso tante vittime innocenti. Lo scenario geopolitico é cambiato. Oggi difficilmente si può ripetere la stagione della cosiddetta “strategia della tensione”. Ma bisogna stare sempre in allerta. Non bisogna mai dimenticare. Così si tolgono spazi alla violenza.
«Sono come i racconti del nonno, che dopo cena si metteva sul divano con la grappa e la pipa e ci narrava di nazisti e americani, di vita e di morte: fino a quando queste storie verranno raccontate alle generazioni future, ci sarà una memoria». L’ha presentato così, Daniele Biacchessi, il suo libro Il Paese della vergogna, che raccoglie quattro delle numerose pieces portate sul palco dal giornalista e scrittore approdato negli ultimi anni al teatro narrativo civile: dalle stragi nazifasciste di Sant’Anna di Stazzema e Marzabotto, la cui verità è rimasta chiusa per cinquant’anni nell'”armadio della vergogna”, agli omicidi di Peppino Impastato e di Carlo Ambrosoli; dalle bombe di Piazza Fontana e Piazza della Loggia alle strage di Bologna. Brutte storie italiane legate da una sorta di fil rouge, la differenza tra verità storica e verità processuale; o meglio, la giustizia negata e quindi l’ingiustizia. «La Corte di Cassazione ha messo la parola fine sulla strage di Sant’Anna di Stazzema, accertando la verità e condannando i responsabili – ha spiegato Biacchessi -. Per capire perché sia successo 63 anni dopo, non basta chiedersi dov’è stata in questi anni la politica e quali siano i limiti della magistratura. È la società civile che deve farsi delle domande, perché questo non è un Paese normale».
L’immagine più struggente del libro che raccoglie i testi di teatro civile di Daniele Biacchessi è quella scritta dal poeta Raja Marazzini) di due fidanzati ventenni “incollati alla Vespa dai baci” sullo sfondo di Piazza della Signoria. I colori sono sfumati dal tramonto che avanza, è quasi tardi, ora d’andare. Ma come puoi separarti a vent’anni, quando sei abbracciato alla persona che ami? “Come fai ad andar via sul serio, che sembra quasi di andar via per sempre”? Fino a quell’ultimo bacio, a quell’augurio “Dolce notte, amore mio”, a quell’ultimo “A domani”. Un domani che non arriverà mai per Dario Capolicchio e per altre quattro persone, assassinate quella sera dalla bomba di Via dei Georgofili. Dario è solo una fra le moltissime morti raccontate in questo libro, e Dario è anche un’eccezione, perché quasi tutti quegli omicidi non hanno un colpevole e sembrano a volte impallidire, farsi immateriali, come se non fossero mai esistiti. E come potrebbe essere altrimenti in Paese che esce dall’aberrazione della dittatura nascondendo nel famigerato armadio della vergogna al ministero della difesa (difesa da chi? viene da chiedersi) i fascicoli sulle stragi di civili compiute da nazisti e, quel che è peggio, dai fascisti italiani? Una nazione che inizia la sua storia democratica battezzando le prime elezioni col sangue di Portella della Ginestra? Perché il racconto allora? Perché la memoria? Il Paese della vergogna esce in un momento in cui la frattura fra il popolo e la classe politica che dovrebbe rappresentarlo sembra impossibile da ricucire. Le storie raccontate da Biacchessi non sono risposta per la crisi presente, però proprio il ricordo di ciò che si è compiuto e di ciò che si è nascosto contiene molti elementi che la possono spiegare, scritti da una distanza rispettosa, con stile piano e senza concessioni alla retorica o all’indignazione spicciola. A futura memoria: perché la memoria di un popolo è il tesoro più prezioso e il più vile dei furti.
O martes, 2 de outubro de 2007, foi arrestado en Siena un dos históricos das Brigate Rosse, en libertade provisional desde hai anos, despois de roubar xunto a outra persoa nunha caixa de aforros da fermosa cidade toscana. Piancone, condeado con varias sentencias por correspondentes crimes, entre outros a implicación no propio secuestro e posterior asesinato de Aldo Moro, estaba en vixianza carcelaria e debía acudir todos os días á cadea en Turín. Chamado o irreductible pola súa negativa a arrepentirse, Cristoforo Biancone volve poñer no primeiro plano na política italiana os anos de chumbo.
Unha ollada rápida aos andeis das novidades en Italia sobre libros de historia ofrece dous temas de rechamante interés. Por un lado, a mafia nas súas variantes locais, a cosa nostra siciliana, a camorra napolitana e a ‘ndranguetta calabresa, todas, pois, saídas da irresoluta questione meridionale; e, por outro lado, a revisión histórica dos anos máis recentes da historia política. Do primeiro, destacan as investigacións feitas por xornalistas que, como Roberto Saviano, deben vivir permanentemente con gardaespaldas porque están ameazados de morte: a sorprendente causa non é a de revelar os nomes dos implicados nestas actividades ilícitas, senón por exhibir con notoriedade e con anuncio publicitario as escuras redes desta práctica habitual. Aos mafiosos parécelles máis importante a discreción, o silencio, que a posible revelación das súas identidades. En calquera caso, este asunto da Mafia ocupa un lugar eminente na preocupación dos italianos que ven, despois dos derradeiros acontecementos (matanza en Duisburgo e escalada de terror en barrios da periferia de Nápoles con cifras insoportables de víctimas: 75 no que vai de ano), como tras tantos anos non é posible nin tan siquera albiscar o principio do fin dos privilexios mafiosos, nídiamente vencellados ao poder político.
O segundo tema require máis precisión. A revisión histórica céntrase de manera fundamental nos anos 80: moitas historias, entre o relato riguroso de acontecementos e reflexións políticas e un giallo (novela negra) narrado con sensacionalismo eficaz. Os libros son numerosos e todos tratan de contar con todo detalle os feitos. Pero segue e seguirá a polémica. Porque aínda hoxe parecen escuras as orixes e as motivacións daquelas xornadas tráxicas de finais dos setenta, co terrorismo como telón de fondo e ao tempo como principal trama da acción. Hai que destacar que abundan os discursos baseados nas lagoas das investigacións, neses puntos sempre confusos, nos que prima a sospeita sobre unha xeneralizada intervención das propias forzas do Estado en todos estes feitos. Un libro neste punto é sobranceiro, o de Daniele Biacchessi, cun título ben significativo: Il paese della vergogna, xa que refire os distintos acontecementos violentos (moitos deles esquecidos) na Italia de postguerra, como fitos dun suposto golpe de estado permanente dos poderes fácticos, sempre atentos a calquera alteración da orde natural das cousas, dominada, como non podía ser doutro xeito, pola Democracia Cristiana.
Dentro deste mesmo apartado de reconstrucción histórica do pasado inmediato, chama a atención a numerosa bibliografía sobre os anos de Craxi, sobre Tangentópoli, sobre os escándalos da logia P2 e o advogado Calvi pendurado dunha ponte sobre o Támesis, coas súas implicacións vaticanas, e a súa consecuencia indesexada en forma do goberno Berlusconi, a quen, por certo, se adican infinidade de retratos, na maioría demoledores. Os libros que tratan de explicar aquela época, sen dúbida básica para comprender o derrumbe do status quo de postguerra, fluctúan entre a crónica desapaixoada daqueles días e modalidades máis satíricas de denuncia descarnada mesmo do presente (un interesante exemplo é o libro de Marco Travaglio, de título completamente demoledor: Ulliwood Party, Figure, Figure e figurine, figuri e figuracce del primo anno di centro-sinistra(-destra). O curioso é que todos eles comparten espacio nos andeis de novidades, lombo con lombo, cunha aceptación moi notable entre os lectores á luz dos datos de ventas en Italia de libros de non ficción.
O fenómeno das Brigate Rosse, renacido nos últimos tempos e causa de incipiente preocupación entre a clase política, nomeadamente entre a esquerda radical que pretende lavar a súa mala conciencia de anos pasados, aparece de novo con todo luxo de detalles entre os lectores. Con edicións cheas de fotos e documentación precisa, os novos libros sobre esta banda terrorista e outros sobre os atentados neofascistas como o da estación de tren de Bologna cumpren a doble misión de recobrar a memoria histórica das víctimas e a de abrir de novo o debate sobre os límites da violencia nun estado chamado democrático. A noticia de hoxe, coa detención de Piancone, como un vulgar “malvivente”, como describen os xornais italians, amosa con total claridade que aquela experiencia traumática aínda doe, aínda está presente sen cicatrizar por completo na vida cotián da sociedade e da política daquel país tan querido.
Siamo a Roma, nel maggio del 1994. Nella sede della Procura generale militare viene ritrovato un armadio con le ante rivolte verso il muro, chiuso a chiave e protetto da un cancello. Dentro sono custoditi i fascicoli che registrano i crimini commessi dai nazisti nel corso della Seconda guerra. mondiale. E c’è un timbro di «Archiviazione provvisoria» la data del 14 luglio 1960. E stato chiamato «l’armadio della vergogna». Questa è solo una delle storie che il giornalista e scrittore Daniele Biacchessi raccoglie nel libro «Il paese della vergogna» (Chiarelettere, pagine 125, euro 9,50). Il volume rievoca sia le stragi dimenticate al tempo della guerra, sia quelle durante la Prima Repubblica: come piazza Fontana, piazza della Loggia, stazione di Bologna. Cronaca e passione civile per non dimenticare.
L’armadio chiuso a chiave, le ante rivolte al muro, ritrovato 13 anni fa nei locali della Procura generale militare di Roma, era zeppo di fascicoli sulle efferatezze nazifasciste, spesso con nomi e cognomi degli autori: dalle Fosse Ardeatine a Marzabotto, a Sant’Anna di Stazzema. Venne definito “l’armadio della vergogna” per le sconcezze che custodiva e a indicare che qualcuno, giocando con la burocratica ufficialità di timbri e codicilli, aveva vergognosamente sbarrato la strada alla Giustizia, alla condanna, alla pena dei colpevoli.
Ecco perché l’ultimo libro di Daniele Biacchessi è intitolato Il Paese della vergogna. In quattro sceneggiature di teatro narrativo civile di cui è autore/attore, il giornalista suggerisce l’immagine di un contenitore che cela autori, moventi e mandanti di omicidi mirati e stragi; un Paese-armadio con le ante schiacciate contro un muro; un’Italia che non ha ancora avuto la forza civile di guardarsi dentro mettendo in azione politica e magistratura. Anzi, le cronache di questi giorni (il Sismi che fino al 2006 avrebbe spiato decine di magistrati: perché? per chi?) confermano che la fabbrica di nuove vergogne è in piena attività.
Biacchessi, 50 anni, giornalista radiofonico da 30 (da otto a «Radio 24») è salito più di 500 volte su un palco raccontando agli italiani le storie di “vergogna” – da Marzabotto a Piazza Fontana, da Portella delle Ginestre al terrorismo di ogni colore, dai giovani militanti di destra e di sinistra uccisi negli anni 70 ai delitti di mafia – ora rielaborate nelle 125 pagine del libro.
Perché un giornalista “pistaiolo”, che teorizza il «lasciarsi coinvolgere dai fatti» su cui scrive, che non aggiunge una parola a quelle che trova nelle carte processuali (le scrive solo meglio), racconta e recita l’Italia dei misteri, della giustizia denegata, della cattiva coscienza del Potere? «Perché tutto questo mi indigna e mi ha sempre indignato – risponde – e perché vorrei spargere questa indignazione tra chi mi ascolta, specialmente tra i giovani, la cui memoria non arriva a fatti così lontani e non reperibili nemmeno sui libri di scuola. Io posso solo raccontare. Altri avrebbero tutti gli strumenti per agire, investigare, condannare. Ma in questo Paese si preferisce nascondere le proprie vergogne anziché capirle per non ripeterle».
Le quattro pièce d’impegno civile contenute nel libro di Biacchessi vorrebbero essere un contributo a scostare le ante del Paese da quel muro che ne impedisce l’apertura «perché – riflette l’autore – una società che non può fare i conti col passato, non comprende il proprio presente e non può progettare il futuro».
Non gli servono effetti speciali. Bastano la sua voce e la volonterosa musica di un paio di amici. Perché è la storia d’Italia, quella più fosca, più scomoda, più vergognosa, ad accapponare la pelle del pubblico. Daniele Biacchessi gira le piazze come un antico cantastorie a svegliare le coscienze dei cittadini. Nel suo repertorio ha Marzabotto, piazza Fontana, il treno Italicus; Peppino Impastato e Giorgio Ambrosoli; le stragi di mafia, l’assassinio di Falcone e Borsellino; le vittime dell’odio rosso-nero negli anni di piombo, quando ci si sparava in strada per niente. Insomma, non il delittaccio che suscita brividi morbosi tra uno spot e l’altro. Bensì le stragi dimenticate per insipienza o, ancora più grave, per interressi e depistaggi. Nel volumetto Il Paese della vergogna (esce da ChiareLettere) sono raccolti i testi più eloquenti di questo giornalista-scrittore che si muove nello stesso solco di Ascanio Celestini o Marco Paolini, o prima ancora Dario Fo o Giorgio Gaber. È un vessillifero del «teatro civile», una forma di «spettacolo» che non vuole arrendersi alla superficialità della civiltà televisiva. E ci riesce. Perché c’è un’Italia che s’accalca nelle piazze ad ascoltarlo, che rimanda la partenza delle ferie per andare il 2 agosto a Bologna, che crede ancora, in silenzio, che percepirsi cittadini di una moderna democrazia non possa ridursi al problema di pagare meno tasse o lanciare pietre nelle vetrine per protestare contro Bush.
«Sento una partecipazione fortissima intorno a me – dice Biacchessi -, le mani che mi stringono, che mi accarezzano in segno di ringraziamento. Se leggo i miei spettacoli nella sala d’attesa della stazione di Bologna, con i familiari delle vittime, o tra i superstiti della strage nazista di Sant’Anna di Stazzema, la commozione è naturale. La cornice aiuta. Ma lo stesso accade nelle piazze di provincia, nei paesini e nelle scuole. Quando racconto agli studenti le stragi impunite del nostro Paese percepisco una commozione fortissima. Mista a uno stupore indignato. Perché di tutto questo nei testi ministeriali non c’è traccia».
Il teatro civile è essenziale. Biacchessi compulsa gli atti processuali, i documenti («consumo le scarpe, perché spesso si giudica la colpevolezza e l’innocenza delle persone sulla base della simpatia, degli umori collettivi, senza conoscere le prove, gli alibi, le testimonianze») e scrive testi brevi, come dispacci d’agenzia. Lascia parlare i fatti, non lo stile. Elenca nomi, destini, gesti banali. Nulla di più. Sul palcoscenico spoglio porta due amici, il sassofonista Michele Fusiello e il pianista jazz Gaetano Liguori. Legge con la sua voce calda, indignata, da Appennino tosco-emiliano. Usa immagini, filmati del tempo. E i suoni veri, d’archivio, terribili nella loro eloquenza. Si sente, per esempio, la voce di Franco Castrezzati, sindacalista della Cisl, che parla il 28 maggio 1974 in piazza della Loggia a Brescia, la sua voce viene interrotta da una deflagrazione e chiede alla folla «State calmi, state calmi». La bomba fece 8 morti. S’ode la voce del mafioso che minaccia l’avvocato Ambrosoli, il liquidatore della banca di Sindona, il monarchico che credeva nello Stato, la voce anonima, registrata, che avverte «…avvocato, non ci siamo capiti…». L’11 luglio ’79 un killer della mafia lo ucciderà con tre colpi di Magnum 357, dopo una serata passata con gli amici a vedere il pugilato.
«Il vero teatro civile è doloroso, bisogna coinvolgere, scavare un buco nero nel cuore. Da giornalista ho scritto 16 libri d’inchiesta. Ma sento l’esigenza di far vivere le parole fuori dalla carta. Finchè c’è qualcuno che racconta e qualcuno che ascolta, la memoria resta viva. Voglio che il pubblico si arrabbi, s’indigni, protesti. Che guardi la storia dalla parte delle vittime». Nelle indagini sulla strage alla stazione di Bologna ci sono stati 136 depistaggi piccoli e grandi accertati e i colpevoli sono fuori («non sono un giustizialista, ma penso che chi mette bombe debba stare in galera»). Lo stesso è accaduto per altri crimini, per non parlare della mafia. Priebke è uscito per tornare a lavorare, facendo slalom in scooter come uno scippatore, la memoria di Impastato è stata profanata a Cinisi, come quella di Biagi a Bologna.
Dobbiamo rassegnarci al destino di Paese della vergogna? «Perdonare va bene, dimenticare no. Rinunciare alla giustizia nemmeno. Perché se annacquiamo l’orrore che abbiamo vissuto, se lo dimentichiamo per indolenza e disinteresse, il passato torna tale e quale, con il suo carico di morte. Sembrava che gli anni Sessanta dei servizi segreti deviati, delle schedature di politici, imprenditori, sindacalisti fossero finiti. E invece ritroviamo le intercettazioni illegali, le cupole di potere… La politica è debole, ricattabile. Non riesce ad affrontare i problemi alla radice. Per le stragi o il terrorismo si sono fatte commissioni d’inchiesta che non hanno concluso nulla. Da noi esistono ancora i segreti di Stato che sopravvivono decenni. Io credo che sia compito dei cittadini insistere, chiedere trasparenza. Tenere viva la memoria serve per costruire un futuro migliore. Sembra un’ovvietà. Ma spesso non è così. Per questo vado sui palchi a chiedere urlando giustizia».
In Italia la verità storica non segue mai lo stesso binario della verità giudiziaria. Le prove delle stragi nazifasciste di Sant’Anna di Stazzema e Marzabotto nascoste nel cosiddetto “Armadio della vergogna”. I colpevoli di stragi come piazza Fontana, stazione di Bologna, treno Italicus, piazza della Loggia, Rapido 904 – e si potrebbe continuare – sono tutti sostanzialmente liberi. E’ l’Italia spiazzante delle verità negate, raccontate attraverso scene esemplari, flash su personaggi diversi tra loro ma uniti da un solo nome: ingiustizia. Sono Fausto e Iaio, i giovani militanti di sinistra uccisi a Milano pochi giorni dopo il sequestro Moro; sono Angelo Casile, Gianni Aricò, Franco Scordo, Luigi Lo Celso, Annalise Borth, i cinque anarchici del Sud che sapevano qualcosa di troppo e per questo morti in uno “strano” incidente stradale; Piero Bruno, ucciso dalla polizia una sera di novembre del 1975, a 18 anni. E poi i delitti di mafia, da Peppino Impastato a Libero Grassi, da Giorgio Ambrosoli a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Un collage di fatti e storie, carichi di emozioni, di verità e passione. E’ uscito in questi giorni per i tipi di Chiarelettere “Il paese della vergogna” di Daniele Biacchessi, con la prefazione di Franco Giustolisi, e che raccoglie, in una versione riveduta e ampliata, alcuni testi di teatri civile scritti e interpretati in centinaia di repliche dall’autore: “La storia e la memoria”, “Fausto e Iaio”, “Storie d’Italia” e “Quel giorno a Cinisi. Storia di Peppino Impastato”.
Arriva in libreria – dal 14 giugno – “Il Paese della vergogna” di Daniele Biacchessi, edito da ChiareLettere, una nuova casa editrice dalle idee già abbastanza “chiare”, che fa della denuncia sociale il suo piatto forte, il motivo editoriale di base.
Il libro di Biacchessi – giornalista e scrittore, autore di importanti libri di inchiesta, oltre che autore, regista e interprete di teatro narrativo civile – parla di stragi nazifasciste, del terrorismo rosso e nero degli anni ’70, di mafia e parte da un dato di fatto oramai certo e indiscutibile: nel nostro Paese la verità storica, quella che è stata scritta e sancita in base a sentenze, non segue mai la verità giudiziaria. Da Sant’Anna di Stazzema (560 morti) a Marzabotto-Montesole (1830 morti) a Portella della Ginestra (11 morti), da piazza Fontana (17 morti) a piazza della Loggia (8 morti), dal treno Italicus (12 morti) alla stazione di Bologna (85 morti). Un lungo elenco di stragi, un catalogo di lutti, in cui, in questa strana Italia, tutto appare “confuso”, non sicuro, non “certo” e non “indiscutibile”, appunto.
Del resto, il perché di questa “vergognosa” situazione, è tutto ben illustrato nella ragionata e articolata prefazione che Franco Giustolisi fa a questo libro, in cui, prendendo spunto da un aneddoto, scrive: “(…) sulla ‘Gazzetta di Reggio’ vidi un titolo, sparato in prima pagina, che mi fece incazzare: “Reggio Emilia deve fare i conti con il suo passato”. Motivo: uno dei libri di Pansa sui suoi ripensamenti storici. Ma quali conti? Per le vendette, per qualche vendetta di chi aveva sparato ai criminali che gli avevano ucciso il padre, il fratello, la moglie? Vent’anni di dittatura e venti mesi, dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 fecero sgorgare tanto sangue innocente: civili, non partigiani, bambini, vecchi, donne. Un fiume di sangue, particolarmente in Toscana ed Emilia Romagna, grazie ai lanzichenecchi di Hitler e del Mussolini di Salò. Fare i conti con il nostro passato? Farli noi che siamo stati le vittime? Si vuole un pari e patta? Eh, già, questo si sarebbe voluto, e ritengo che lo si voglia ancora (…)”.
“Il Paese della vergogna” è un libro sulle ‘verità negate’ del nostro Bel Paese, sulla giustizia utilizzata, ad uso e consumo dei partiti politici, da ambienti ad essi vicini e da una classe dirigente abituata a trovare giustizia e verità più per proprio comodo o per ‘partito preso’ che per verità storica, conclamata dai dati di fatto. Ed ecco, che, come in un teatro dell’assurdo in cui il tutto diventa niente e in cui le verità vengono capovolte, cassate e annullate per far posto a strumentalizzazioni, sospetti, calunnie o bluff; come in un giro di partita a poker, giocata con carte truccate e da bari incalliti, avvezzi a farsi beffa persino dell’evidenza, ogni anno, ogni due, ogni tanto, spuntano fuori altre verità, più vere delle altre, più forti e robuste delle altre, pronte ad essere usate come leve per smontare la “verità” storica.
Con questo libro, Biacchessi offre flash, narra circostanze, dà volti a nomi e personaggi di quelle stragi – da Fausto e Iaio a cinque anarchici del sud, da Piero Bruno a Peppino Impastato, Libero Grasso, Giorgio Ambrosoli, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – ne colora i contorni, ne indica un quadro di insieme, infonde e intreccia emozioni, sollecita la coscienza civile di ognuno di noi, quella che parla di altri ma che si riferisce proprio a noi stessi. Ci sveglia da una letargia pericolosa e profonda, ci scuote e ci invita a meditare. Alla fine del libro, il lettore avvertirà il peso di ciò che avrà letto. Un peso che, proprio per questo, merita verità e giustizia.
Il racconto comincia dall’alba del 2 marzo 2003. Dal portone di una palazzina del quartiere Quadraro a Roma escono un uomo e una donna. Su un motorino raggiungono la stazione Tiburtina e salgono sull’interregionale “2304”, diretti ad Arezzo. Due ore e mezzo più tardi a Terontola il sovrintendente di Polizia Emanuele Petri, con altri due colleghi, sale sul treno per un controllo di routine. Alla richiesta di documenti, l’uomo estrae una pistola e spara al poliziotto che morirà qualche ora dopo in ospedale. Un istante dopo, però, viene a sua volta colpito a morte da un altro agente e la sua compagna di viaggio arrestata. Si chiama Nadia Desdemona Lioce che subito si dichiara prigioniera politica e militante delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente.
Da buon cronista, Daniele Biacchessi apre il suo Una stella a cinque punte (Baldini e Castoldi Dalai Editore) con quella che fu una svolta decisiva nella storia della lotta che le Istituzioni hanno combattuto contro le Brigate Rosse e i loro seguaci. E infatti egli dedica il suo libro ai giuslavoristi Massimo D’Antona e Marco Biagi e al poliziotto Emanuele Petri. Con le parole: “Per non dimenticare”. Tre nomi, tre destini diversi, tre vittime di un terrorismo che lo Stato non riesce ancora a sradicare dalle sue fondamenta. Tuttavia, il sacrificio dell’ultima è servito per identificare, arrestare e processare gli assassini degli altri due.
Anche se le forze dell’ordine stavano seguendo piste che un giorno forse avrebbero portato a scoprire i responsabili delle morti di D’Antona e Biagi, non v’è alcun dubbio che il conflitto a fuoco sul treno “2304” rappresentò una svolta fondamentale su tutte le inchieste sulle nuove Brigate Rosse. Con scrupolo e precisione certosina l’autore ricostruisce nei minimi dettagli come si mosse la macchina della giustizia. I due computer palmari di ultima generazione che Nadia Desdemona Lioce aveva con sé costituirono una fonte inesauribile di informazioni e consentirono di ricostruire la trasformazione dei “Nuclei Comunisti Combattenti” in “Brigate Rosse- Partito Comunista Combattente”. I numeri dei diciotto cellulari dell’organizzazione permisero di rintracciare le schede utilizzate da cabine telefoniche con il vecchio sistema analogico. Il che allora permise di ricostruire la catena della complicità e una mappa aggiornata del nuovo “partito armato”. E che due mesi fa ha forse consentito alla magistratura milanese di portare a termine l’ultima operazione antiterrorismo.
Cinque mesi dopo quel 2 marzo 2003, mille uomini della polizia giudiziaria dettero vita ad un gigantesco blitz in diverse città italiane e gli assassini di D’Antona e Biagi furono quasi tutti assicurati alla giustizia. Cinque o forse dieci, dichiarano gli inquirenti a Daniele Biacchessi, restano ancora liberi.
Raccontare per ricordare, far luce sui fatti ed imparare dal passato.
Questo l’intento del libro edito da Bompiani, “La stella a cinque punte” di Daniele Biacchessi, caposervizio di Radio24 ed esperto di terrorismo.
Il libro è la storia di un’inchiesta con una meticolosa cronologia degli eventi accompagnata da testimonianze dirette dei corpi investigativi che hanno seguito le indagini.
Come afferma l’autore “raccontare oggi le BR è un passato che non passa. Manca nel nostro paese un racconto sui fatti” e proprio questo testo colma una lacuna pericolosa.
Attraverso le pagine si ha come un tuffo nel passato, in quei due giorni che sconvolsero l’intero paese e crearono instabilità all’interno del sistema governativo.
Le BR e l’Italia degli anni di Piombo. Cosa pensa di quel periodo, quanto e cosa è rimasto di quell'”aggressione armata”?
Purtroppo la storia della lotta armata non è solo storia del passato. Gli anni di piombo non si sono ancora chiusi perché la politica, le istituzioni, gli stessi protagonisti di quella stagione non hanno rimosso le cause, le origini della violenza. Ecco perché, anni dopo, le Brigate Rosse sono ancora vive e pronte a colpire.
Quella mattina del 20 maggio 1999 cosa ha rappresentato per l’Italia di quel periodo e che segnale ha impresso negli anni a venire?
E’ il passato che non passa. Le BR avevano colpito nel 1988 il professor Roberto Ruffilli, senatore della Democrazia Cristiana ed esperto di riforme costituzionali. Nel 1989 i responsabili di quell’omicidio vennero tutti assicurati alla giustizia. Nell’ombra qualcuno ha proseguito il progetto di lotta armata con i NCC, Nuclei Comunisti Combattenti. Due attentati. Il primo nel 1992, contro la sede della Confindustria a Roma. Il secondo nel 1994 contro il Nato Defence College, sempre a Roma. Poi il silenzio, fino all’omicidio di Massimo D’Antona. Le Br non rappresentano un pericolo per la democrazia, ma per singole persone, consulenti del mercato del lavoro, esperti, giuslavoristi, riformisti.
Lo stato e i gruppi sovversivi. In cosa pecca l’autorità governativa nella gestione ottimale di queste frange? Questo è il dazio da pagare in nome della libertà e della democrazia?
Lo Stato e i suoi apparati hanno spesso sottovalutato il fenomeno. La risposta è stata tardiva ma solo basata ad affrontare il problema sul piano repressivo: arresti, carceri speciali, leggi premiali. La lotta armata è un fenomeno collettivo, o meglio, una somma di scelte individuali associate ad un progetto di Organizzazione armata. Ma la sola risposta repressiva non basta. Bisogna compiere un passo in pù, una scelta culturale di fondo: il rifiuto della violenza e l’affermazione del primato della politica e della convivenza civile contro le barbarie.
Uccidere per offrire un gesto di superiorità, per stupire, per imporsi. Come spiega l’adozione dell’omicidio da parte di gruppi armati di matrice terrorista?
Per un brigatista l’omicidio è una scelta obbligata. Non c’è divisione tra chi scrive documenti e chi spara. Un militante teorizza e porta le armi. Una donna, appartenente all’organizzazione, un giorno ha scritto questa frase che spiega bene i meccanismi della lotta armata:
“Per me era come svolgere una routine di lavoro… E’ questa l’aberrazione, perché tu hai un’ideologia per cui tu sei da una parte dove ci sono gli amici, dall’altra invece stanno i nemici. E i nemici sono una categoria, delle funzioni, dei simboli da colpire, non degli uomini. E quindi trattare queste persone con la simbologia del nemico fa in modo che tu non hai un rapporto di assoluta astrazione con la morte. Per cui se io fossi andata a fare l’impiegata al catasto, invece di uccidere, per me sarebbe stata la stessa cosa. Uscivo da casa la mattina, andavo a controllare le persone, a preparare le operazioni. Quando non andavo direttamente a compiere omicidi evidentemente. Poi me ne tornavo tranquillamente a casa, facevo la mia vita che era quella di una normale donna di casa.”
Lo Stato e tutto il Paese ricorda ogni anno le vittime cadute per mano “nemica”. Un giusto tributo patriottico legato a rabbia e orgoglio nazionale; tuttavia non si evince impotenza davanti a fenomeni che sfuggono ad un potere debole e ad un sistema giudiziario troppo lassista?
Bisogna ricordare, mai dimenticare. Il 9 maggio è il giorno del ricordo delle vittime del terrorismo, di destra e di sinistra. Penso sia una cosa giusta. Non è un tributo patriottico, ma una cosa sentita. Ma non basta ricordare questi pezzi di storia contemporanea soltanto nel giorno di un anniversario. Per mantenere viva al memoria bisogna coinvolgere tutta la società, in primis il mondo della scuola. Certo, i familiari delle vittime chiedono giustizia e verità e lo Stato troppo spesso non li ha ascoltati. Bisogna però dividere le situazioni. Per la cosiddetta “strategia della tensione”, gran parte delle stragi sono rimaste impunite: Piazza Fontana a Milano, Piazza della Loggia a Brescia, Questura di Milano, treno Italicus. Poche stragi hanno colpevoli; stazione di Bologna, Rapido 904, Peteano di Sagrado. Nessuna sentenza ha mai accertato i mandanti delle stragi. Per la lotta armata di sinistra, i colpevoli sono stati in gran parte arrestati, le pene sono state severe. Sembra una giustizia a due velocità.
L’omicidio di Aldo Moro e le immagini della Tv che hanno dato risalto, come è giusto che sia, all’evento straordinario. C’è il rischio però di offrire troppo spazio/importanza ai colpevoli (parallelismo con i teppisti negli stadi)?
La storia bisogna raccontarla per intero. Ciò vale per vittime e carnefici. Bisogna cioè offrire a tutti la possibilità di spiegare, di raccontare, perché nulla vada mai dimenticato. In televisione vengono intervistati spesso i colpevoli, quasi mai le vittime. E questo offre la sensazione che ci sia una discriminazione. Perché, ad esempio, Claudio Martelli su Canale 5 ha scelto via Fani a Roma, luogo dove è stato rapito Moro e dove i brigatisti hanno ucciso i suoi uomini di scorta, come location per intervistare uno dei capi storici delle BR, Alberto Franceschini? Perché, dopo sentenze definitive, il tg2 ha realizzato in prima serata un servizio di 10 minuti di presentazione di libro sulla strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, senza invitare i familiari delle vittime? Sono cose che devono far pensare.
I servizi segreti e gli organi della polizia nazionale. Azioni di massima riservatezza vanificate poi dall’omicidio che “non t’aspetti!”. Qualche ingranaggio non funziona nella pianificazione del lavoro di “intelligence” o sono episodi imprevedibili, ingovernabili ed infine difficilmente gestibili?
Sono episodi prevedibili, governabili ma difficilmente gestibili. Perché un bravo investigatore legge i documenti, conosce i profili dei brigatisti, può anche individuare anche alcuni loro obiettivi, ma non potrà mai conoscere luogo, giorno e ora nei quali i terroristi compiranno la loro azione. E questo fa la differenza. Poi sappiamo che nel passato uomini dei servizi segreti e degli apparti dello Stato sono stati condannati per gravi depistaggi nelle inchieste sulle stragi. Per questo forse c’è bisogno di una riforma strutturale dell’intelligence che solo la politica, nella sua autonomia parlamentare, può realizzare.
Le BR e la loro evoluzione. Cosa vogliono veramente? Una dittatura del proletariato, porsi come un Anti-Stato o sfidarlo ad oltranza? E secondo lei quale futuro si prevede per il nostro Paese sia nel breve che nel lungo periodo?
Le BR non rappresentano l’avanguardia di un proletariato, neppure una sorta di anti Stato. Sono assai più deboli rispetto al passato, non hanno e neppure cercano contati con il cosiddetto movimento, ma possono ancora colpire persone sole ed indifese, consulenti dello Stato che lo Stato non riesce a difendere.
I giovani che passano davanti alla targa di via Salaria, tra l’altro sede della facoltà di Scienze della Comunicazione, cosa dovrebbero pensare?
Massimo D’Antona è morto per le sue idee di libertà e giustizia sociale
Ed infine Massimo D’Antona è morto invano?
No, Massimo D’Antona non è morto invano. Le sue idee sono ancora vive.
E’ da poco in libreria l’ultimo saggio di Daniele Biacchessi un’inchiesta sui delitti Biagi, D’Antona e sulle nuove BR. MilanoNera ha intervistato l’autore
Perché un libro su Biagi e D’Antona: c’era bisogno di fare chiarezza? Ci sono ancora lati oscuri su questi due delitti?
Quando si scrive di omicidi politici c’é sempre biosgno di fare chiarezza. Dopo gli assassini di Massimo D’Antona e Marco Biagi, i cronisti di nera avevano scritto un numero piùttosto elevato di imprecisioni, dettate dalla fretta e dalla mancanza di una specializazione. Dal 1988 (omicidio di Roberto Ruffilli a Forlì) al 1999 (assassinio di Massimo D’Antona a Roma), passano undici anni. Gli apparati dello Stato smantellano i reparti antiterrorismo perché le emergenze sono altre: corruzione e lotta alla mafia dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio dove perdono la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Il terrorismo politico non rappresenta in quegli anni una fonte di preoccupazione per gli uomini dell’intelligence.
Così nell’ombra si organizzano le nuove leve brigatiste, i Nuclei Comunisti Combattenti di Nadia Desdemona Lioce e Mario Galesi che diventeranno Brigate Rosse-Partito Comunista Combattente con l’omicidio D’Antona.
Ci sono almeno due lati oscuri: la mancata protezione al professor Marco Biagi e la fuga di notizie istituzionale che svela all’esterno la tecnica investigativa degli inquirenti romani sulle schede telefoniche prepagate utilizzate dai brigatisti per rivendicare l’omicidio D’Antona e per comunicare tra loro.
Il tuo lavoro è molto ben documentato: quanto impegno ha richiesto e come ti sei mosso per interrogare le fonti?
Le fonti utilizzate sono Carlo De Stefano, direttore della Polizia di Prevenzione, Franco Gabrielli, attuale direttore del Sisde, già capo del Servizio Centrale Antiterrorismo, Eugenio Spina, dirigente della Polizia di Prevenzione, Vittorio Rizzi, capo della Squadra Mobile di Milano, già alla guida del Gruppo Investigativo Biagi, e di una squadra di agenti specializzati in inchieste sul campo che portano nomi in codice di capi indiani. Le loro testimonianze sono tutte inedite, così come quelle di Olga D’Antona e Marina Biagi. Inoltre mi sono avvalso dei documenti giudiziari, verbali di interrogatorio, sentenze processuali.
Quali sono state le difficoltà principali che hai incontrato per la stesura di questo libro?
Mettere in fila tutti i fatti e far comprendere al grande pubblico la scia informatica, la tecnica utilizzata dai poliziotti per decifrare i volti dei brigatisti.
Le Br-Pcc avevano due clandestini e latitanti, Nadia Desdemona Lioce e Mario Galesi. Gli altri militanti erano persone normali, né clandestini, neppure latitanti. Conducevano una vita alla luce del sole. Quindi persone che uccidevano e poi tornavano alla vita di tutti i giorni. Ma rivendicavano tutto attraverso lunghi elaborati. Quello che ha giustificato politicamente l’omicidio Biagi venne inviato via mail da un computer portatile collegato a un telefono cellulare, al quale era stata montata una Scheda prepagata acquistata con nome di fantasia. Spiegare tutto questo a chi non é esperto informatico é cosa ardua.
Qual è il “messaggio”, quello che vorresti che il lettore ricordasse dopo aver chiuso il tuo saggio?
Mai dimenticare. Perché il passato che non passa può diventare presente e la storia si può ripetere, come dimostra l’ultima ondata di arresti del 12 febbraio di militanti della cosiddetta seconda posizione brigatista.
Le Br costituiscono ancora un pericolo reale per l’Italia?
Il terrorismo politico non rappresenta oggi un emergenza, neppure una minaccia reale per la nostra democrazia.
Rappresenta invece un pericolo per singole persone non difese e non protette dallo Stato.
“Che la storia delle Br non si sia mai interrotta e ancor oggi non sia finita mi è sempre sembrato chiaro. Quest’ultima inchiesta relativa agli arresti del 12 febbraio scorso non c’entra nulla con le precedenti, ma dimostra che il filo rosso non si è mai interrotto”. E’ quanto ha detto Daniele Biacchessi ad Apcom a margine della presentazione del suo libro “Una stella a cinque punte, le inchieste D’Antona e Biagi e le nuove Br”, avvenuta alla libreria Rizzoli di Milano. Il giornalista scrittore, al quarto libro sulle Brigate Rosse sottolinea la continuità della storia terroristica “nei giorni in cui si scopre che nell’arsenale delle ultime Br-Seconda posizione ci fossero armi della colonna Valter Alasia”. “Cosa che per altro avevo già scritto da molti anni”, continua il giornalista.
“La lotta armata non è ancora finita e c’è ancora qualcuno che pensa di far politica con le armi e gli obiettivi sono sempre gli stessi del passato: i riformisti, gli uomini del dialogo, coloro che stanno a metà tra Governo e parti sociali”, continua Biacchessi, sottolineando come lo fossero D’Antona, Biagi, Ruffilli, Tarantelli e nel più lontano passato il giudice Alessandrini e Vittorio Bachelet. “Mi impressiona soprattutto che ci sia già stato un passaggio generazionale tra vecchi e nuovi brigatisti – prosegue – e questo è avvenuto quando noi credevamo che fosse tutto finito. Invece non era finito nulla e oggi quel passaggio è già avvenuto”.
Il giornalista affronta poi il tema dell’attualità della presenza dei terroristi in Italia. “Non penso ci sia un’emergenza e che la democrazia sia a rischio, ma i terroristi possono ancora colpire singole persone non sufficientemente protette dallo Stato, in assenza di una più generale vigilanza democratica”, spiega Biacchessi, che conclude “non so quanti ce ne siano in libertà ma so che la storia può ripetersi”.
Il giudice di Milano Guido Salvini, già protagonista di diversi processi contro il terrorismo, sulla possibilità della presenza terroristica in Italia è più cauto. “Credo che nonostante tutto questi ultimi 20 anni abbiano fatto maturare gli anticorpi nella stragrande maggioranza die giovani. Le 400 vittime del terrorismo e delle stragi sono un ostacolo insuperabile al ritorno del terrore”, spiega il giudice pur evidenziando che “rimane uno spazio di nicchia per i terroristi ma dal quale non riusciranno ad uscire”.
Alla presentazione del volume pubblicato da Baldini Castoldi Dalai c’era anche il capo della Digos di Milano, Bruno Megale, che ha evidenziato come la Polizia sia “molto preparata e che non esiste più il gap di sottovalutazione di 20 anni fa”. “Oggi sappiamo cogliere i segnali di eventuali fenomeni eversivi e siamo in grado di comprendere i messaggi che gli eventuali terroristi mandano nel tessuto sociale”, ha concluso il capo della Digos.
Infine, Biacchessi relativamente alla strage di Bologna spiega ad Apcom il suo disaccordo con le ultime polemiche sulla filone della non colpevolezza di Mambro, Fioravanti e Ciavardini e condannati per la strage. “E’ già stato scritto tutto nelle sentenze dei Tribunali, le piste alternative sono tutte delle panzane, delle bufale”, afferma Biacchessi. “La strage di Bologna insieme a quelle di Peteano è l’unica ad avere una sentenza definitiva e questo può dar fastidio a qualcuno”, conclude Biacchessi, sottolineando che in Italia “c’è stata una giustizia a doppio binario: la lotta armata di sinistra è stata di fatto smantellata dalle istituzioni, cosa che non è accaduta con le stragi di destra”.
WALTER TOBAGI MORTE DI UN GIORNALISTA
GIORNO-RESTO DEL CARLINO-NAZIONE
Non riusciamo a metterci d’accordo su quando cominci la vita di un essere umano, ma dell’essere umano chiamato Walter Tobagi sappiamo con precisione quando, come e perchè la sua vita è finita, il 28 maggio 1980. Aveva trentatrè anni, l’età di Gesù, una moglie e due figli piccoli, e ad ammazzarlo come un cane fu una squadraccia di sciagurati rampolli della buona borghesia milanese, inzuppati di odio ideologico. Adesso il bel libro di Daniele Biacchesi, Walter Tobagi. Morte di un giornalista (Baldini e Castoldi) ci ricorda che il principale esecutore, pentitosi a tempo di record, non ha fatto neppure tre anni di galera, e oggi milita in un associazione che difende il diritto alla vita fin dal concepimento. Un altro suo compare vive “in un luogo non precisato di Cuba”. Immaginiamo non si tratti di Guantanamo e neppure in una di quelle carceri-modello dove Castro ospita i dissidenti. E la polizia cubana, così zelante nell’ammanettare i giornalisti occidentali, sembra non fare caso a questo omicida in trasferta. In compenso il più proletario della banda l’unico che tentò di dissuadere in extremis i compagni, è stato anche l’unico a scontare fino in fondo la sua pena, 21 anni di prigione. Qualche tempo dopo l’uccisione di Tobagi mi capitò di trascorrere una serata in casa della famiglia di uno dei killer. C’erano giornalisti e intellettuali in vista della Milano di allora, e si parlò di varie persone del nostro entourage. Ogni volta che si menzionava un nome sgradito ai padroni di casa, la reazione era sempre la stessa: “Ma quello è un fascista!”. Allora, di colpo mi fu chiaro in che clima fossero cresciuti quelli che Biacchessi chiama “i ragazzi della porta accanto”. Non c’è bisogno di andare a caccia di mandanti occulti, bastano i responsabili morali, genitori che abdicarono al proprio ruolo, una scuola in balia del cretinismo rivoluzionario. Oggi, a 25 anni da quel cupo 28 maggio, consola scoprire che alcuni di quegli ex-ragazzi siano approdati “a una visione cristiana della vita”, la stessa che anima il riformista Tobagi, giornalista senza scarpe chiodate e nemico di ogni fanatismo. Non è mai troppo tardi, non si può negare a nessuno il diritto di sbagliare e poi ravvedersi: a condizione che prima saldi il proprio debito con la giustizia. Il che. in questo caso; non è avvenuto, grazie ad una legislazione premiale che, assicura il giudice Spataro, ha contribuito a debellare il terrorismo. Sarà. Ma viene da chiedersi che razza di Paese sia il nostro, dove si provvedono confortevoli amache agli assassini di un padre di famiglia, mentre vengono trattate come criminali le donne che si fanno impiantare più di tre embrioni, e come nazisti i medici che le assistono.
”Provo una sensazione di angoscia. Questa paura mi accompagna da piu’ di un anno, da quando uccisero Carlo Casalegno e mi tocco’ di scrivere di brigatisti”. A scrivere queste parole e’ Walter Tobagi: a lui, nel 25mo anniversario della morte, Daniele Biachessi dedica il libro ‘Walter Tobagi: Morte di un giornalista (Baldini Castoldi Dalai; pp.181; 13 euro). Inviato di punta del ‘Corriere della Sera’, presidente dell’Associazione Lombarda dei giornalisti, Walter Tobagi e’ ucciso dalle Br il 28 maggio 1980. Quando alle 11.10 di quel giorno esce dal portone della sua abitazione in via Solari, a seguire i suoi spostamenti sono sei ragazzi e, poco dopo, all’altezza di via Salaino, e’ raggiunto mortalmente da sei colpi di pistola. Gli artefici del delitto sono i militanti della ‘Brigata 28 marzo’ che tramarono alle spalle di Tobagi, riformista moderato, esperto di terrorismo e di sindacato. ”Nel mirino – scrisse ancora Tobagi – ora entrano proprio i riformisti, quelli che cercano di comprendere. Mi pare di essere, forse e’ una suggestione, il giornalista che come carattere e come immagine Š pi— vicino al povero Alessandrini. Se toccasse a me, la cosa che mi spiacerebbe di più é di non avere trovato il tempo per scrivere una riflessione che spiegasse agli altri, penso a Luca e a Benedetta, il senso di questa mia vita così affannosa”. Per la prima volta, venticinque anni dopo, Daniele Biacchessi – giornalista, scrittore, e’ caposervizio di ‘Radio24′, l’emittente del ‘Sole 24 Ore’ – ricostruisce ora quell’omicidio, basandosi su atti processuali, sentenze del Tribunale di Milano e della Corte di Cassazione, una vasta bibliografia e testimonianze inedite. Nel libro Biacchessi racconta il dramma umano di un caso emblematico degli anni di piombo, restituendo anche il dramma storico e generazionale di quella stagione. Una storia – sostiene la casa editrice – fatta di giovani accecati dall’ideologia, di padri che non hanno saputo fare i padri, di uno Stato che ha celato troppe cose, e di una classe politica che ancora strumentalizza morti e tragedie.
Nel 1973 Roberto Franceschi aveva vent’anni. Studiava Economia politica all’Università Bocconi di Milano. La sera del 23 gennaio 1973 era in programma un’assemblea del movimento studentesco alla Boccconi. Roberto Franceschi aveva firmato la richiesta per tenere quell’assemblea, che poi, in realtà, costituiva il proseguimento di una già iniziata qualche giorno prima. In quel periodo e in quella stessa università si erano tenuti vari incontri dello stesso tipo, tutti normalmente autorizzati e non c’era mai stato alcun incidente. In quell’occasione, però, l’allora rettore, Giordano Dell’Amore, ordinò che potessero accedere esclusivamente gli iscritti alla Bocconi e dispose un controllo dei tesserini all’ingresso dell’università. Non solo, chiese anche l’intervento della polizia. Così un reparto della celere si schierò fuori della Bocconi. Vietare la partecipazione ad operai e studenti di altre università significava, in pratica, impedire lo svolgimento dell’assemblea che, infatti, quella sera non si tenne. Intorno alle 22,30 gli studenti si allontanarono dall’università e, poco dopo, all’improvviso, un gruppetto di giovani attaccò la polizia, lanciando sassi e qualche bottiglia molotov.
L’azione fu rapidissima, ma mentre i manifestanti stavano scappando, confusi tra gli altri studenti, dalla schiera di poliziotti, comandati dal vicequestore Tommaso Paolella, vennero sparati dei colpi di pistola, almeno quindici. A terra rimasero, colpiti rispettivamente alla schiena e alla nuca, l’operaio Roberto Piacentini e Roberto Franceschi. Il primo si salverà, Roberto Franceschi morirà in ospedale qualche giorno dopo, il 30 gennaio.
Questo è soltanto l’inizio della vicenda narrata in Roberto Franceschi. Processo di polizia (Baldini Castoldi Dalai, pp. 273, € 14, 40). Il libro, curato da Daniele Biacchesi, infatti, oltre che degli avvenimenti di quella sera, si occupa, seguendoli con attenzione e competenza, dei vari processi susseguitisi dalla morte del giovane. Una ricostruzione puntuale, chiara e comprensibile degli innumerevoli processi penali che si concluderanno il 22 aprile 1985 con l’assoluzione di tutti i poliziotti imputati di omicidio preterintenzionale e lesioni e la condanna del vicebrigadiere Agatino Puglisi e del capitano Claudio Savarese per falso ideologico.
Si sa che la pistola che ha ucciso Roberto Franceschi è quella di un agente di polizia, Gianni Gallo, non si sa però chi l’abbia usata. Ci sono testimoni che, dalle finestre e dai balconi delle loro case, hanno visto e riconosciuto vari poliziotti che sparavano, prendendo la mira, contro i manifestanti, ma le loro testimonianze si scontrano contro il muro di gomma messo su dai vari esponenti della polizia. Così, tra imbarazzanti «non ricordo», «non so», tra bossoli ritrovati e poi spariti, va in scena ancora una volta quel medesimo copione che tante volte pezzi dello stato hanno utilizzato – dalla strage di piazza Fontana in poi – per evitare che emerga la verità.
Oltre alle deposizioni cambiate, ritrattate, spesso incredibili, colpiscono, per contrasto, da una parte le dichiarazioni del governo, nella persona dell’allora ministro dell’Interno Mariano Rumor, il quale non esitò ad affermare che «il comportamento degli agenti e dei responsabili delle “forze dell’ordine” è stato all’altezza del loro compito»; dall’altra la lettera che la madre di Roberto, Lydia Franceschi, indirizzò al ministero della Pubblica Istruzione per dimettersi dal suo lavoro di preside, dove, tra l’altro, scriveva: «Oggi dopo la sentenza della Corte d’assise d’appello che ha concluso un lungo e perverso iter giudiziario con l’assoluzione anche dell’ultimo imputato per non aver commesso il fatto, temo di dover aggiungere che la verità appartiene sì a tutti, ma non al nostro Stato democratico; a questo Stato in cui si può ancora agire a livelli istituzionali con omertà e con menzogna per sconfiggere la giustizia. In questo Stato, signor Ministro, non sono più capace di tornare a scuola dai miei ragazzi e continuare a educarli alla dignità di cittadini».
Con la fine dei processi penali prendono il via le cause civili che si concluderanno, il 20 luglio del 1999 con il riconoscimento del risarcimento alla famiglia Franceschi, già disposto in alcune sentenze precedenti. Anche in questo caso il comportamento delle istituzioni è stato, a dir poco sconcertante e ha reso evidente la distanza che troppo spesso le separa dai cittadini: il 30 dicembre 1997 si è arrivato a chiedere, da parte dell’Avvocatura Distrettuale dello stato la restituzione della somma erogata. Tale somma, invece, è servita a costituire la Fondazione Roberto Franceschi che – come si afferma sul suo sito www.fondfranceschi.it – «esplica la propria attività nel campo delle ricerche sociali. Promuove pubblicazioni, incontri e dibattiti, istituisce premi di laurea» ed è alla base della pubblicazione di questo libro. Un libro che non si limita a rievocare un passato lontano, ma mostra in maniera abbagliante come sia difficile coniugare verità e giustizia. Un problema gravissimo che troppe volte, e con troppe morti, si è ripresentato nella storia recente del nostro paese. Come testimonia anche l’ultimo capitolo del volume, curato da Luca Boneschi e dedicato a un’altra incredibile vicenda di sangue: l’assassinio a Roma il 12 maggio 1977 di Giorgiana Masi, 19 anni. E come dimostra, ancora oggi, l’uccisione a Genova il 20 luglio 2001 di Carlo Giuliani, 23 anni.
«La sera del 23 gennaio 1973 era in programma un’assemblea del movimento studentesco presso l’Università Bocconi di Milano. Assemblee di questo tipo erano state fino ad allora autorizzate normalmente e non avevano mai dato adito a nessun incidente e, nel caso specifico, si trattava dell’aggiornamento di una assemblea già iniziata alcuni giorni prima; ma l’allora Rettore dell’Università quella sera ordinò che potessero accedere solo studenti della Bocconi con il libretto universitario di riconoscimento, escludendo lavoratori o studenti di altre scuole o università.
Ciò significava vietare l’assemblea e il Rettore informò la polizia, che intervenne, con un reparto della celere, intenzionata a far rispettare il divieto con la forza. Ne nacque un breve scontro con gli studenti e i lavoratori e, mentre questi si allontanavano, poliziotti e funzionari spararono vari colpi d’arma da fuoco ad altezza d’uomo. Lo studente Roberto Franceschi fu raggiunto al capo, l’operaio Roberto Piacentini alla schiena. Entrambi caddero colpiti alle spalle».
Così il sito internet della Fondazione che porta il nome di Roberto Franceschi (www.fondfranceschi.it) racconta cosa accadde quella tragica sera di tanti anni fa a Milano. Piacentini si salvò, ma per Franceschi, che era uno dei leader del movimento alla Bocconi, non ci fu nulla da fare: i colpi che lo avevano raggiunto avevano leso gravemente organi vitali e il giovane morì in ospedale in seguito alle ferite solo pochi giorni dopo, il 30 di gennaio.
A oltre trent’anni da quella vicenda, unica come ogni tragedia che colpisce un essere umano ma allo stesso tempo terribilmente simile alle tante che hanno segnato la storia italiana di quel periodo, Daniele Biachessi torna sull’omicidio dello studente della Bocconi con un libro Roberto Franceschi. Processo di polizia, Baldini Castoldi Dalai editore (pp. 274, euro 14,40) basato sui documenti giudiziari, sulle memorie delle parti civili e sulle testimonianze dei familiari della vittima. Un libro che intende ricostruire le tappe dell’inchiesta che seguì i fatti della Bocconi, trasmettere ai più giovani un pezzo della memoria dei movimenti degli anni Settanta, ma anche, come scrisse Corrado Stajano già nel 1979 spiegando come «la storia del ragazzo Franceschi non conta solo per ieri, vale per oggi e per domani», ricordare come in Italia si possa ancora morire, basta pensare al luglio del 2001 a Genova e a Carlo Giuliani, per mano delle forze dell’ordine proprio come accadde a quello studente di sinistra dell’Università di Milano tanto tempo fa.
«La storia di Roberto Franceschi è davvero attuale, drammaticamente attuale», ci spiega infatti Daniele Biachessi, impegnato oggi a Milano nella presentazione del libro presso il Circolo della stampa insieme a Ferruccio de Bortoli, Pietro Folena, Laura Curino, GianMaria Flick e alla mamma di Roberto, Lydia Franceschi. «Parlo di attualità – aggiunge Biachessi – perché la dinamica della vicenda di cui Franceschi è stato vittima, si è prodotta e riprodotta nel corso della storia di questo paese fino ai giorni di Genova e fino a Carlo Giuliani». «La sera della morte di Franceschi la polizia sparerà numerosi colpi di pistola, se ne conteranno almeno quindici. E per quei fatti si arriverà perfino a processare l’allora vicequestore di Milano – sottolinea ancora il giornalista milanese – Ma ciò che viene accertato per quell’omicidio, così come è accaduto per tutte le vicende nelle quali lo Stato è coinvolto per l’operato delle forze dell’ordine, è la manomissione dei corpi di reato e il depistaggio. Come in tante altre vicende infatti, penso ad esempio alle stragi, emerge cioè con chiarezza come questo Stato non sia riuscito ad auto-riformarsi e non sia riuscito soprattutto a dire la verità ai suoi cittadini. Per questo il libro non si rivolge soprattutto a quanti allora c’erano e possono contare su dei ricordi personali, quanto piuttosto ai più giovani, come uno strumento in più per capire i meccanismi del potere».
Il filo che lega la vicenda di Carlo Giuliani a quella di Roberto Franceschi, e ai tanti morti nelle piazze per mano della polizia, risiede cioè soprattutto nel tentativo costante delle istituzioni di negare la verità?
Nei processi di primo grado, che vedevano imputati due agenti di nome Gallo e Puglisi e poi nel processo che vedeva imputato il vicequestore Tommaso Paolella, se non si fosse trattato della morte di un ragazzo, si sarebbe potuto pensare di assistere a una rappresentazione della Commedia dell’arte, tanti sono stati i “non so”, “non ricordo”, “io non c’ero”, “non era affar mio” che si sono potuti ascoltare nelle aule dei tribunali. E rileggendo l’intervento del Ministro degli Interni dell’epoca, Mariano Rumor, mi è venuto in mente, quasi si trattasse di una fotocopia, quello pronunciato dal responsabile degli Interni Claudio Scajola subito dopo i fatti di Genova e la morte di Carlo Giuliani. E, allo stesso modo, potrei citare quanto disse Francesco Cossiga, Ministro degli Interni nel 1977, dopo la morte di Giorgiana Masi. Tutti e tre hanno cercato di difendere l’indifendibile o, al massimo, hanno provato a scaricare le responsabilità su singoli agenti – come è accaduto nel caso di Franceschi – quando l’intera catena di comando era in realtà coinvolta in modo pesante».
Il libro si apre con alcune pagine redatte dalla Fondazione Roberto Franceschi che mettono l’accento sui molti elementi che hanno contribuito a rendere oscure tante parti della storia italiana. Ci sono le responsabilità degli apparati dello Stato, ma anche la debolezza della magistratura e dei media. Anche questi temi attuali.
Questo libro racconta un pezzo di storia dimenticata del nostro paese, ma un pezzo di storia che condiziona ancora il presente, specie nel rapporto molto fragile tra Stato, istituzioni e cittadini. Penso che il punto più alto di quanto io ho raccolto e racconto nel libro, sia racchiuso nelle dichiarazioni e nelle testimonianze di Lydia Franceschi, una madre colpita nell’affetto più caro che cerca una verità, ma non una verità qualsiasi, che si accontenta se viene individuato un colpevole magari di comodo, ma che vuole arrivare alla verità vera. Nel suo non arrendersi, nel suo continuare a bussare alle porte di uno Stato sordo, c’è, una lezione morale, anche questa valida per tutti e per tutti i tempi.
Basti pensare che al termine del processo che assolve per insufficienza di prove l’allora vicequestore di Milano, la madre di Roberto Franceschi, che era preside di una scuola milanese, si dimette da suo incarico perché con quell’atto il rapporto tra Stato, istituzioni e cittadini è venuto a mancare».
Un libro per ricordare una storia che sembra lontanissima nel tempo, quella della morte di Roberto Franceschi. Nelle manifestazioni i ragazzi cantavano che ”era un compagno ed un combattente” e che ”nel cuore e nel canto di chi lottera’ il compagno Franceschi vivra”’. Sono passati 31 anni da quella sera del 23 gennaio quando a Milano, davanti all’Universita’ Bocconi, venne ucciso lo studente Roberto Franceschi, 20 anni, e ferito l’operaio Roberto Piacentini.
Trentun anni ma sembrano molti di piu’ perche’ nel frattempo il mondo e’ cambiato. Eppure il ricordo di Franceschi e’ ancora vivo ed ora la vicenda processuale, conclusasi dopo anni senza alcun colpevole, e’ diventata un libro. ”Roberto Franceschi. Processo di polizia” di Daniele Biacchessi, che ha alle spalle numerosi libri sul terrorismo, presentato questa sera al Circolo della stampa di Milano con l’intervento dell’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli e di Pietro Folena, e’ la storia dell’istruttoria e dei processi ai poliziotti accusati di avere sparato quella sera, senza pero’ che si concludessero con l’individuazione dei responsabili dell’omicidio. Di quella tragica sera davanti alla Bocconi resta come ricordo un maglio che un gruppo di architetti milanesi fece arrivare da una fabbrica tedesca, sul quale e’ stato inciso ‘Roberto Franceschi, vittima della nuova Resistenza’. Una scelta estetica quella di trasformare un maglio in una stele per ricordare un ragazzo ucciso, che oggi sembra quasi incomprensibile e che segna proprio la lontananza rispetto a quegli anni. Il ricordo pero’ non e’ scemato e a Milano e’ ancora attiva la Fondazione Franceschi, voluta dagli anziani genitori dello studente, che ogni anno assegna un premio. Alla presentazione del libro c’erano anche molti ex studenti che quella sera erano all’assemblea della Bocconi trasformatasi in tragedia. Tra questi, Sergio Cusani:
”Roberto – ricorda l’ex finanziere – faceva parte del mio collettivo. Ricordo bene quella sera. Lui indossava un maglione bianco di quelli a collo alto di lana grossa con le trecce. Ero vicino a lui, mi ricordo ancora gli spari, si sentivano le pallottole sibilare. Dicevano che erano stati sparati un paio di colpi, non e’ vero, ne hanno sparati una quantita’ enorme ed e’ un miracolo se non c’e’ stata una carneficina”. Sono passati tanti anni da quel 23 gennaio. I compagni di Franceschi hanno percorso strade diverse: ”Si’ – dice Cusani – ognuno ha fatto la sua strada. Poi pero’ alla fine siamo sempre ancora qui”.
Sono 163 i Cesare Battisti del mondo. Qualcuno sta in Francia, altri in America Latina. Certi hanno fatto fortuna, sono luminari della medicina oppure scrittori affermati, altri barcamenano il magro lunario come possono. Alcuni vivono con la targhetta d’ottone in evidenza sulla porta; altri continuano a nascondersi dietro un nome falso e un fermacarte di silenzio sul passato. Latitanti italiani all’appello: dalla «B» di Battisti, il leader dei Proletari armati per il comunismo (oggi giallista di successo) sulla cui estradizione si è recentemente discusso, alla «V» di Enrico Villimburgo, brigatista «irriducibile», condannato all’ergastolo nel processo Moro Ter. Sono appunto 163 i terroristi di sinistra tuttora ricercati nel mondo, sulla base di condanne definitive o almeno d’imputazioni espresse da un tribunale. Ne compila una lista il giornalista Daniele Biacchessi, che già si è occupato dei delitti D’Antona e Biagi e adesso firma Vie di fuga (Mursia, pp. 190, euro 12,50); volume che ha – tra gli altri – il pregio di esporre il problema senza preconcetti. C’è chi è fuggito in panfilo, chi con gli sci e chi con la barba finta in treno. Chi ha goduti di evidenti appoggi dei servizi segreti e chi ha ricominciato facendo l’imbianchino. Chi lotta per ottenere un’amnistia e tornare in Italia; chi invece s’accontenta di non imboccare almeno il vicolo buio d’un carcere. Furono 400 i terroristi che, tra il 1978 e il 1982, traversarono il confine verso la Mecca dei clandestini: la Francia, dove il presidente François Mitterrand aveva garantito – e mantenne la promessa, in barba ai vari trattati internazionali – che avrebbe firmato l’estradizione «solo a quanti si renderanno protagonisti di vicende legate al terrorismo, dimostrando così di non essere cambiati. In quel caso, ma solo in quel caso, li allontaneremo dalla Francia».
Altri sono sparsi tra Nicaragua (il governo dei guerriglieri sandinisti spalancò le porte ai «colleghi» italiani), Argentina, Cuba, Libia, Angola, Algeria, isole di Oceania e Centramerica.
Storie a cavallo tra Puerto Escondido (il romanzo di Pino Cacucci, da cui il film di Gabriele Salvatores, ispirato appunto alle vicende di Battisti) e i libri di Daniel Pennac. Non è un caso – nota Biacchessi – che parecchi latitanti italiani abbiano preso dimora a Belleville, il sobborgo multietnico prediletto dallo scrittore transalpino: un quartiere puzzle di culture e profumi dove l’estraneità non è un difetto.
Ma c’è chi ha avuto decisamente successo, emergendo in specializzazioni raffinate: come l’ex di Potere Operaio Luigi Rosati – primo marito della postina delle Br Adriana Faranda, molti attentati all’attivo -, oggi etno musicologo esperto d’Africa; o Gianfranco Pancino, condannato a 25 anni, ora ricercatore dell’Istituto Pasteur nei settori cruciali dell’Aids e del cancro: quando nel 1987 si prospettò la possibilità di un’estradizione per lui, persino dei premi Nobel si mobilitarono indignati. Professioni d’élite anche per Andrea Morelli (già fondatore dei Comitati Comunisti Rivoluzionari), dirigente informatico di una grande azienda, Roberta Cappelli ex brigatista e adesso architetto, Giambattista Marongiu (Potere Operaio) intellettuale e giornalista del quotidiano Libération. Achille Lollo – anche lui Potop, 18 anni per omicidio preterintenzionale – fa l’editore in Brasile. Il romano Guglielmo Guglielmi, già leader delle Unità Comuniste Combattenti, è medico di base a Managua. La stessa città dove Alessio Casimirri, che partecipò all’agguato di via Fani contro Moro e la sua scorta, tiene tre cerbiatti nel giardino della sua villa. Altri terroristi si sono dovuti accontentare di molto meno: lezioni di italiano «in nero», manovalanza da cantiere, correzione di bozze, piccola o grande malavita (Oscar Tagliaferri di Prima Linea organizzò un traffico di eroina dal Perù). Qualcuno è scomparso, come il brigatista genovese Gregorio Scarfò, segnalato di volta in volta tra Brasile e Canada, oppure Lorenzo Carpi, condannato all’ergastolo per l’omicidio del sindacalista Guido Rossa. Potrebbe essere morto il killer delle Br Livio Baistrocchi. Alcuni sono invece tossicodipendenti, alcolisti, afflitti da problemi psichici. «Solo pochi si possono considerare soddisfatti», testimonia Biacchessi pur senza pietismi. Sintomatica l’osservazione di un connazionale fuoriuscito: «Molti di noi hanno pensato di potersi salvare solo grazie alle proprie risorse personali, vale a dire titolo di studio, specializzazione, amici influenti. La nostra sconfitta si può leggere anche in questo: il trionfo dell’individualismo e la scomparsa di un punto di riferimento collettivo». Un barlume di comunità rimane nell’associazione «XXI secolo» – capeggiata da Oreste Scalzone (storico collega di Toni Negri in Autonomia operaia) – che reclama un’amnistia politica per gli ex terroristi. Perché quasi tutti i latitanti ammettono la sconfitta, sì; ma molti meno consentono al pentimento, a rinnegare il passato. Lo rivela la tendenza dei latitanti a giustificare sempre in maniera «alta» il loro operato: non siamo stati criminali – è il ritornello – ma esponenti di un’opposizione politica; abbiamo condotto una guerra civile e non della volgare delinquenza. Già: ma i morti reclamano giustizia; e anche moltissimi fra i vivi non sono disposti a interpretare le gesta del terrore come imprese di un’avanguardia sfortunata. «La nostra pena già l’abbiamo scontata: l’esilio», argomentano allora gli ex. «Ma almeno voi siete vivi», ribattono con ragioni non minori i parenti delle vittime degli anni di piombo. Si marcia dunque sul crinale: di qua il desiderio di chiudere una stagione che traviò migliaia di giovani promettenti, di là l’esigenza di non fondare il futuro della Repubblica sull’ennesimo embrassons-nous all’italiana. Da una parte la considerazione per tante persone che indubbiamente hanno tentato di rifarsi una vita; dall’altra la necessità di non deludere milioni di cittadini per i quali la distinzione tra bene e male è sempre stata un esercizio rigoroso e senza scorciatoie armate. Vent’anni fa hanno scavalcato il confine; adesso, per tornare indietro, ai latitanti serve almeno un passo in più.
DANIELE BIACCHESSI A CONTRORADIO FIRENZE
“L’ultima bicicletta é un libro documentario di stretta attualità. Costruito attraverso un abile montaggio di materiali inediti non si limita a ricostruire l’uccisione di Marco Biagi ma traccia la mappa più aggiornata del lavoro di indagine volto ad individuare i suoi assassini. La ricerca di Biacchessi mostra in modo inoppugnabile la continuità tra vecchie e nuove Br”
“Le idee di Marco Biagi rivivono in un documentato libro del giornalista Daniele Biacchessi”
“Trascorso un anno dal tragico agguato molti fatti rimangono ancora di difficile comprensione, come la mancata conferma della scorta e l’improbabile suicidio del tecnico informatico Michele Landi. Il libro di Biacchessi copre quel vuoto”.
“Quali segreti dietro la fine dell’informatico trovato impiccato? Michele Landi aveva capito, qualcuno lo ha suicidato. L’ultima bicicletta svela tutti i particolari inediti della vicenda e li mette in relazione all’agguato al professor Biagi”.
“Un libro che aiuta a capire e comprendere perché il passato può ancora ritornare e perché il terrorismo possa colpire gli obiettivi di sempre”
“Un libro scritto in punta di penna per capire e per non dimenticare”
«Un uomo e la sua bicicletta. E’ l’immagine di quella fredda sera bolognese di marzo. Biagi è da solo…». Era davvero solo Marco Biagi, era minacciato, ma gli avevano tolto la scorta. Daniele Biacchessi, giornalista di “Radio 24” racconta in un libro, “L’ultima bicicletta”, l’uccisione di quel professore di diritto del lavoro che lo Stato non seppe difendere. Marco Biagi, sceso alla stazione di Bologna, andò al parcheggio a prendere la bicicletta, la sua passione: era il 19 marzo 2002. Le Brigate rosse non hanno mai coperto sotto l’anonimato i loro delitti, li hanno sempre rivendicati con una produzione maniacale di comunicati, spesso li hanno perfino preannunciati. Come il delitto Biagi. Nessun uomo normale, se non ha un motivo preciso, legge volentieri i loro documenti funerei, fumosi, poveri di idee, ripetitivi in modo ossessivo. Biacchessi li studia, cerca di decifrarli, li interpreta, per darci un ritratto il più possibile attendibile delle motivazioni omicide delle Br, andando oltre la ricorrente, superficiale spiegazione che per scegliere la prossima vittima basta leggere i giornali e navigare in Internet. Il libro è molto documentato e questo ci dà modo di “leggere” il progetto eversivo delle Br nella sua continuità, scandita dai delitti Ruffilli, D’Antona, Biagi. La condanna a morte del senatore Ruffilli in qualche modo preannuncia quella di D’Antona e di Biagi. Il senatore democristiano non era un personaggio di bandiera, un dirigente di grande popolarità, ma le Br, in qualche modo, attraverso canali misteriosi, lo identificano come «uomo chiave», capace di «ricucire concretamente, attraverso forzature e mediazioni tutto l’arco delle forze politiche intorno al progetto (della Dc, ndr), compreso le opposizioni istituzionali». La citazione di queste frasi dai documenti Br è una felice intuizione investigativa di Biacchessi. Se non altro perché ci sollecita a porre un interrogativo. Se è vero che Ruffilli aveva quel ruolo, è altrettanto vero che ne era a conoscenza solo un gruppo limitato di politici e funzionari di partito. E’ difficile immaginare che un gruppetto di terroristi, deciso ad assumere l’eredità delle Br, e per questo costretto a vivere nella clandestinità e a limitare le sue relazioni, abbia i mezzi per indagare in profondità sulla Dc, scoprire che c’è un “uomo chiave”, che quell’uomo è proprio Ruffilli e che ammazzarlo è facile. Vero o no che Ruffilli avesse quel ruolo, per far sì che le Br potessero scoprirlo o semplicemente crederlo, c’era bisogno di un suggeritore: è un’ipotesi che ne presuppone un’altra ancora più inquietante: il progetto terroristico cammina sulle gambe delle Br, ma la testa che lo governa è quella del “suggeritore”. Sono le stesse Br, nel comunicato sull’omicidio D’Antona, a richiamare la continuità con “l’azione contro Ruffilli”. Il fine è lo stesso: impedire il progetto di riforma dello Stato. Anche D’Antona è identificato come un uomo chiave, “il responsabile dell’esecutivo nel patto di Natale”. E’ del tutto immaginario che D’Antona potesse condizionare la dialettica tra governo, partiti e forze sociali: anche qui dobbiamo ipotizzare che un “suggeritore” abbia assecondato il progetto terroristico enfatizzando il ruolo di D’Antona. Non c’è nessun mistero sul progetto delle Br, ma è buio fitto sugli intrighi del suggeritore. Nell’omicidio Biagi la situazione si ripete: il professore di Bologna era un autorevole giuslavorista, ma le decisioni sulla riforma della legislazione del lavoro erano al di là della sua portata. C’era uno scontro tra governo e forze sociali, rispetto al quale il suo ruolo era marginale. Il ministro dell’Interno dirà brutalmente, dopo il delitto, che era un «coglione». Le Br nella rivendicazione dicono che «l’azione riformatrice di Marco Biagi, esperto giuslavorista e delle relazioni industriali, rappresentante delle istanze e persino dei sogni della Confindustria, si è espressa nell’esecutivo Berlusconi…». Chi ha fatto credere ai terroristi che Biagi avesse un ruolo così decisivo? L’intrigo si svela attraverso elementi concreti. Le Br erano informate che gli era stata tolta la scorta, lui sapeva che l’assassino era fuori la porta di casa. Il libro di Bianchessi ci offre molte pagine di toccante umanità su Marco Biagi, ma il suo pregio è anche quello di fornirci una rigorosa documentazione da cui nascono interrogativi ai quali, finora, sono state date risposte approssimative.
Come la strage di Bologna, anche il delitto Biagi si poteva evitare. Lo ha detto Paolo Bolognesi, presidente dell’Unione nazionale familiari vittime delle stragi e del terrorismo, durante la presentazione del libro di Daniele Biacchessi ‘L’ultima bicicletta. Il delitto Biagi’ che alla festa de l’Unità ha affrontato l’argomento insieme allo stesso autore, al consigliere regionale della Quercia Massimo Mezzetti e all’attore Stefano Paiusco che ha letto alcuni toccati brani del libro. «Questo libro è importante – sottolinea Bolognesi – perché aiuta a far sì che il delitto Biagi non resti una cosa a sé. La negata scorta, le continue segnalazioni ai servizi segreti che i possibili obiettivi dei terroristi potevano essere consulenti del lavoro, dimostrano ancora una volta che in Italia la storia si ripete, anche questa una storia di segreti più che di misteri». E’ lo stesso Biacchessi a cercare di mettere ordine e in fila i nomi che hanno quasi fatto da comune denominatore a precedenti azioni terroristiche, a partire da Ezio Tarantelli fino al delitto D’Antona. «Tutte le figure colpite in questi ultimi anni – ricorda Biacchessi – non sono mai persone di primo piano, non vanno in tv, ma sono esperti fondamentali per il Governo e le Br uccidono proprio uomini che sono di cerniera tra Governo e parti sociali, colpendo il dialogo». La bicicletta, tanto amata da Marco Biagi, apre il libro con tutti i significati che rappresenta per un emiliano: la porta sempre, con le maniche corte o con il maglione, per andare in edicola o al lavoro e Biagi è un gran pedalatore, conosce a memoria tutte le scorciatoie di Bologna, le salite, le discese che potrebbe fare anche a occhi chiusi, come a occhi chiusi poteva fare il tragitto dalla facoltà di Economia di Modena alla stazione e da quella di Bologna a casa con la sua bicicletta nera, il portapacchi, la dinamo già inserita e di corsa tra i dedali del ghetto ebraico insieme alla sua borsa nera con dentro gran parte della sua vita per l’ultimo tragitto verso via Valdonica. «Il brigatista di oggi – continua Biacchessi – è il vicino della porta accanto, lavora, non fa politica, non va ai cortei. Uccidere Biagi nei giorni di accesa discussione dell’articolo 18 è stata una grande provocazione». Ricorda quei giorni di marzo anche il consigliere regionale Ds Mezzetti, la sera del delitto impegnato in una conferenza sulla pace. «Siamo rimasti esterrefatti – racconta. Quello che tutti abbiamo provato è stata una forte sensazione di fastidio, basti solo pensare che forse nei giorni precedenti qualcuno era a Modena per seguire Biagi. E ancora: questi individui erano anche modenesi o venivano tutti da fuori?». Ma il libro di Biacchessi pone altri inquietanti interrogativi negli ultimi tre capitoli: ‘la scorta negata’, ‘la storia si ripete’ e ‘la traccia informatica’. Proprio l’ultimo capitolo riapre il caso di Michele Landi, il perito informatico trovato morto, mentre forse era arrivato alla verità sul percorso della mail di rivendicazione: suicida o suicidato? “La storia si ripete”.(Fra. Zarz.)
La storia italiana degli ultimi trent’ anni è stata nostro malgrado condizionata da trame eversive più o meno occulte, volte a mettere in discussione la legalità democratica e la sovranità nazionale. Dalla strage di piazza Fontana, passando per le bombe in piazza della Loggia, sul treno Italicus e alla stazione di Bologna, gruppi terroristici di estrema destra hanno seguito un disegno golpista contando sulla complicità dei servizi segreti italiani e di alcuni ambienti Nato. Questa sera alle 18 alla libreria Feltrinelli di piazza Piemonte, il giornalista Daniele Biacchessi presenterà il suo saggio Ombre nere (Mursia) che ricostruisce il percorso politico e militare dell’ eversione di destra dalla fine degli anni Sessanta alla tentata strage nella sede del manifesto di due anni fa. Il libro prende spunto dalla sentenza del giudice Guido Salvini che dopo trent’ anni, e un lungo lavoro di riesame di documenti e testimoni, ha finalmente messo la parola fine al processo per la strage di piazza Fontana, condannando Delfo Zorzi e i militanti di Ordine Nuovo come autori materiali dell’ attentato. Biacchessi, con stile chiaro e scorrevole, descrive il diversificato mondo della destra eversiva, il suo radicamento sociale e i suoi legami con i partiti politici e i servizi segreti. Insieme all’ autore parteciperanno all’ incontro il deputato ds Walter Bielli e Manlio Milani, Presidente dell’ Associazione famigliari vittime di piazza della Loggia. “Ombre nere” di Davide Biacchessi, ore 18 libreria Feltrinelli, piazza Piemonte 2, tel. 02-433541 –
Sono lunghe e lastricate di sangue la strada e la storia dell’ eversione nera in Italia e, almeno per quanto ha ritenuto la magistratura, segnata da episodi cruenti che hanno portato il Paese sul limite del baratro istituzionale, prima ancora che politico. Perche’ taluni di quegli episodi (ma anche degli «altri», firmati dall’ opposto ed estremo schieramento ideologico) hanno costretto a pensare che le regole della democrazia dovessero essere difese da misure che forse tradivano la motivazione stessa per le quali erano state adottate. Daniele Biacchessi, nel ricostruire la storia del terrorismo di destra in Italia, ricostruendo quattro vicende, la racchiude in due precisi momenti storici. Il primo e’, ovviamente, la strage di piazza Fontana, il secondo, l’ ultimo, e’ la bomba che poteva fare una strage nella redazione romana del Manifesto e per la quale e’ stato gia’ condannato il neofascista Andrea Insabato. In ‘mezzo’ la strage di piazza della Loggia, a Brescia e la folle corsa nel terrore dei Nar. Chi ha tentato di ricostruire il cammino dell’ eversione in Italia e’ stato sempre attraversato dalla certezza che la rozzezza delle tematiche alla base del fenomeno nascondesse regie di menti piu’ raffinate, aduse piu’ d’ altre alla sottile arte dell’ inganno. Peraltro se per arrivare ad un ennesimo – per l’ accusa definitivo – pronunciamento di una Corte d’ assise sulla strage di piazza Fontana s’ e’ dovuto attendere il giugno del 2001, se si da’ per scontato che tutti i magistrati e gli inquirenti hanno fatto per intero il loro lavoro, c’e’ quantomeno da sospettare che chi ha orchestrato la stagione degli attentati neri l’ abbia fatto forte di coperture e connivenze ai livelli piu’ alti. Certo, chi appena un anno fa e’ stato condannato per la bomba alla Banca dell’ agricoltura parla oggi di una sentenza politica. Ma appare un copione scontato, ancorche’ comprensibile. Biacchessi, nel suo «Ombre nere», non solo racconta, ma ricostruisce, fornendo elementi di riflessione (grazie a documenti processuali presssoche’ sconosciuti) , anche quando tratteggia la storia personale dei mille personaggi che nel terrorismo di destra hanno agito, oppure soltanto vi hanno svolto compiti da comprimari.
Il racconto di Biacchessi, giornalista investigativo di Radio 24, utilizzando soprattutto fonti processuali, affronta le ultime inchieste sul terrorismo di destra in Italia: il processo di piazza Fontana, le istruttorie sulla strage di piazza della Loggia a Brescia, lo stragismo dei Nar, fino alla bomba al “manifesto” di Andrea Insabato. La narrazione ha il fascino e l’agilità del buon reportage, che alterna alla descrizione degli eventi la ricostruzione delle piste investigative e dei depistaggi, nonché il ritratto biografico degli attori più importanti. Senza la pretesa di fornire nuove interpretazioni storiografiche, l’autore sottolinea come le recenti dichiarazioni di Carlo Digilio, di Vincenzo Vinciguerra e di Antonio Labruna abbiano reso meno oscure le trame nere del terrorismo eversivo, evidenziando in particolare due elementi: il ruolo fondamentale della struttura di Ordine nuovo, con cellule a Milano, Venezia e Padova, da un lato, e, dall’altro, il rapporto decisivo con le basi americane situate nel Nord-Est d’Italia. Ne emerge un quadro di ampio respiro, che inserisce le strategie eversive degli anni sessanta e settanta all’interno di una cornice più estesa: il conflitto internazionale Usa-Urss, la “guerra non ortodossa” al comunismo e le connesse “operazioni sporche”, presentate come operazioni difensive. Utile l’appendice conclusiva, con l’elenco dei siti Internet dedicati alla documentazione del terrorismo nero in Italia.
Ombre nere. Il terrorismo di destra da Piazza Fontana alla bomba al Manifesto (edizioni Mursia, 195 pagine, 14,30 euro) di Daniele Biacchessi, non è un saggio storico. Diviso in quattro capitoli, con intervista finale al giudice milanese Guido Salvini, si presenta al lettore come una ricostruzione a livello di cronaca delle ultime inchieste sulle stragi di Piazza Fontana e di Piazza della Loggia, oltre che della storia di alcune formazioni eversive della destra radicale in Italia. Strutturato in forma di racconto, si pone volutamente un intento divulgativo, fornendo circostanze, nomi, date e fatti per ciascuna vicenda. Si passa in successione dall’ultimo processo per le bombe del 12 dicembre 1969 a Milano, all’inchiesta ancora in corso per la strage di Brescia del 28 maggio 1974, per giungere alle “gesta” terroristiche dei Nuclei Armati Rivoluzionari, a cavallo fra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, e all’attentato al Manifesto del 22 dicembre 2000. Il filo che viene tirato corre in questo modo tra passato e presente, cogliendo figure e passaggi di una continuità spesso colpevolmente ignorata. Un lavoro di cronaca capace comunque di fornire un valido supporto anche per la ricerca storica. La strategia della tensione viene infatti qui ricondotta, sulla base dei fatti oggettivi, alla sua essenza reale. Non semplice concatenazione di attentati e stragi, con una storia a sé per ciascun episodio come se il terrorismo avesse avuto più padri e diversi ispiratori (e per questa via fosse in definitiva quasi intellegibile), ma organico progetto politico di attacco e scardinamento delle istituzioni democratiche da parte della destra. Da Terza Posizione a Forza Nuova Anche l’attentato al Manifesto non viene in definitiva interpretato come il gesto isolato di uno squilibrato. Daniele Biacchessi nel ripercorrere la biografia di Andrea Insabato, condannato a 12 anni per tentata strage nel febbraio scorso (con il rito abbreviato che ha potuto garantirgli la diminuzione di un terzo della pena), riannoda i capitoli più recenti della destra radicale italiana, da Terza Posizione a Forza Nuova, sottolineando la naturale evoluzione, la manifesta continuità fra queste due organizzazioni, contraddistinte dagli stessi riferimenti “teorici”, i medesimi simboli, il comune modello organizzativo e i dirigenti di sempre. L’ origine lontana di Forza Nuova è messa a fuoco in questo contesto, nell’evoluzione dei concetti evoliani dell’ “azione eroica” e del “soldato politico”, nell’idea di “rivoluzione di popolo” da proporsi attraverso l’attività delle “avanguardie” e la guida di una élite di uomini selezionati, fino all’articolazione in “Cuib”, cellule di tre, quattro militanti, mutuata dall’esperienza della “Guardia di Ferro” di Corneliu Codreanu, setta ultracattolica e antisemita cresciuta negli anni ‘30 in Romania, da sempre presente nella mitologia della destra radicale europea. Il lato oscuro I dirigenti di Terza Posizione furono nei primi anni ’80 perseguiti giudiziariamente per associazione sovversiva e banda armata, alcuni di loro anche condannati con sentenza definitiva, come Roberto Fiore, poi fondatore di Forza Nuova. I magistrati ricostruirono parallelamente al livello politico anche la struttura militare clandestina dell’organizzazione, destinata, fra l’altro, a reperire “mediante furti e rapine” armi e mezzi di autofinanziamento. Il rapporto tra Tp e i Nar fu tanto stretto quanto conflittuale. Da un lato l’accusa di Terza Posizione rivolta a Valerio Fioravanti per aver sottratto loro molti giovani militanti, dall’altro il giudizio sferzante dei Nar di “megalomania” ma anche di codardia dei “capetti” alla Roberto Fiore. La resa dei conti avverrà con l’assassinio da parte di un nucleo dei Nar, guidato da Valerio Fioravanti, di Francesco Mangiameli dirigente nazionale di Terza Posizione. Una storia che in realtà porta lontano, fin dentro al lato ancora oscuro della più efferata strage compiuta nel nostro paese dal neofascismo, quella del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna: 85 morti e più di 200 feriti. Scrivono i giudici nella sentenza della Corte di Cassazione del 23 novembre 1995: “…una sola ipotesi: Mangiameli è stato ucciso solo quando chi aveva eseguito quella strage ha avuto la materiale certezza che Mangiameli potesse rivelare ciò di cui era venuto a conoscenza”. Una storia, in conclusione, quella destra radicale italiana, intessuta dal ricorso all’assassinio politico e alla strage di innocenti cittadini come metodo di lotta politica. Andrea Insabato, lungi dall’essere un “pazzo” isolato, ne è figlio legittimo. In una fase certamente di sviluppo in Europa e nel nostro paese di complesse società multietniche, indagare sul passato della destra più estrema non è un esercizio inutile. Le “ombre nere” che hanno gravato sulla storia degli ultimi 30 anni d’Italia, solo ora, processo dopo processo, forse si stanno in parte diradando. Ma da questo stesso passato giungono a noi i concetti razzisti di un tempo, lo stesso odio, la stessa esaltazione della violenza.
A due anni dall’omicidio di Massimo D’Antona e a pochi giorni dall’operazione dei carabinieri che ha portato in prigione otto presunti ‘nuovi brigatisti’, arriva in libreria questa ricostruzione delle tappe dell’inchiesta sul delitto del 20 maggio 1999. Il giornalista Daniele Biacchessi mette a confronto i documenti recenti con quelli che rivendicarono l’omicidio Ruffilli, nel 1988, e scava ancora piu’ indietro, fino all’alba degli anni di piombo, sulle motivazione ed il modus operandi delle Br di Curcio e Franceschini. Ripropone il dibattito politico, che l’omicidio D’Antona bruscamente chiuse, sull’indulto ed analizza il mazzetto di sigle, dai Nuclei comunisti combattenti ai Nuclei territoriali antimperialisti, considerati vicini alle Br-Pcc. Infine intervista il giudice Giancarlo Caselli sulla tecnica investigativa utilizzata nelle indagini sul sequestro Sossi, sul clima degli anni ’70, sull’ipotesi che vi sia un filo conduttore che lega le Br di Curcio e Moretti a quelle che uccidono D’Antona. ”Se le nuove leve sono davvero quello che appaiono, allora c’e’ una continuita’ ideologica, certamente il riproporsi della tragica illusione che la violenza armata possa essere un modo della lotta politica, mentre ormai tutti dovrebbero aver capito che e’ soltanto sangue e ferocia, rischio di involuzione e imbarbarimento politico -risponde Caselli-. Per quanto riguarda le modalita’ operative, le nuove Br si presentano subito con un omicidio, senza atti precedenti che rappresentino una escalation di violenza. Non sembra esservi stata una ‘campagna’, posto che dopo D’Antona, per fortuna, le armi dei brigatisti tacciono a lungo e non si verificano fatti analoghi. Un conto, poi, -conclude il magistrato- era il clima per certi versi favorevole degli anni ’70, ben diversa e’ la situazione in cui si muovono oggi”.
”Il nucleo che uccide Massimo D’Antona e’ stato organizzato da qualche irriducibile dell’ultima stagione delle Br, soprattutto toscane.” Giovanni Pellegrino, che ha guidato la Commissione d’inchiesta sulle stragi che si e’ a lungo interessata dell’omicidio dello studioso torna sulla sua idea di un ‘retroterra’ toscano’ nel sanguinoso episodio. Nel volume ”Il Delitto D’Antona. Indagine sulle nuove Brigate Rosse”, di DanieleBiacchessi (Edizioni Mursia), che sara’ presentato oggi a San Macuto, il senatore traccia un quadro di questo ‘retroterra’ ricomposto su elementi diversi: ”Gente – spiega nel volume – nota per aver ucciso Roberto Ruffilli e Lando Conti. Riprende l’attivita’ eversiva, la’ dove era stata interrotta dalle operazioni di polizia e dagli arresti. Qualcuno che in semiliberta’ ha preso contatti con personaggi non scalfiti dalle indagini o piu’ probabilmente quelli individuati ma non catturati e che oggi sono latitanti”. Il contesto storico in cui Pellegrino collocai ‘fili’ toscani delle Br risalgono fino al caso Moro. A riscontro cita una riflessione che nasceda una audizione, quella del sostituto Procuratore Antimafia Chelazzi, nel 1978 tra i magistrati impegnati a Firenze sulle indagini riguardanti le Br. ”Chelazzi – spiega nel libro Pellegrino – ci ha fatto capire quale era la casa in cui si riuniva il comitato esecutivo delleBr, e chi ne era il proprietario. Lo aveva scoperto da anni, senza rendersi conto del rilievo che la sua scoperta poteva avere nel caso Moro. Da un’indagine giudiziaria fiorentina, mai utilizzata all’interno dei vari processi Moro celebrati a Roma, abbiamo finalmente accertato che, durante i 55 giorni, il comitato toscano delle Br, composto tutto da irregolari, aveva a disposizione un unico covo, che si trovava in una zona di Firenze, corrispondente alla descrizione di Moretti nel libro intervista di Carla Mosca e Rossana Rossanda. Si tratta della casa di un architetto, Gianpaolo Barbi, membro del comitato toscano delle Br. Un appartamento che era proprio sul percorso dell’autobus su cui Lauro Azzolini aveva smarrito il borsello che porta a via Monte Nevoso, a Milano ( il covo Br in cui vengono trovate nell’ottobre ’78 le carte di Moro,Ndr). A quel punto abbiamo capito perche’ Azzolini negasse le riunioni di Firenze durante il sequestro: per coprire la partecipazione d’irregolari del comitato toscano nella gestione del rapimento Moro. Ma l’altra cosa che Chelazzi ci ha fatto notare e’ che del comitatofaceva parte anche Giovanni Senzani, sin dal 1977. Ecco cosi’ emergere tutto uno spezzone delle Br, coinvolto nel caso Moro, ma rimasto completamente ignorato dalle indagini giudiziarie romane.”Nel volume, che analizza la vicenda D’Antona, le inchieste, la nascita delle Br-Pcc, sigla che ha rivendicato l’omicidio, e il dipanarsi nel tempo delle molte sigle che si sono ispirate a quella ”eredita”’, si citano diverse analisi sul perche’ e come sia ripreso in Italia il terrorismo che uccide. Tra le altre il giudizio di Roberto Sandalo, il primo pentito di Prima linea: ”Il cosiddetto cervello e’ nuovo. Chi ha guidato l’azione e’ un vecchio. Chi ha sparato e’ alle prime armi. Non conosce le tecniche”.
La tragedia e il dolore della strage della stazione del 2 agosto 1980 rivivono ancora per oggi attraverso la mostra fotografica allestita al Centro Commerciale Vialarga (via Larga, Quartiere San Vitale), promossa dal Centro e dal quartiere San Vitale, per le celebrazioni del ventesimo anniversario del sanguinario attentato. Una cinquantina di scatti ripropongono le visioni e le azioni che seguirono l’esplosione registrate dai fotografi ad arrivare sul luogo, tra i quali Marco Vaccari, il curatore dell’esposizione. Il cumulo impressionante delle macerie che ricoprirono gli 85 morti e i 200 feriti, i soccorritori medici, militari, vigili del fuoco ma anche semplici cittadini e gli autisti dell’Atc che misero a disposizione i loro autobus, trasformati in autoambulanze o carri funebri. Accanto alle immagini ci sono testi tratti da due libri, pubblicati recentemente: “Bologna 1980. Vent’anni per la verità” di Fedora Raugei, sull’iter processuale del caso, e “10.25, cronaca di una strage” di Daniele Biacchessi, che raccoglie dolori e peripezie dei familiari delle vittime, un calvario alla ricerca di conforto e di giustizia. E parole dei familiari, talvolta vergate con mano incerta su biglietti: «Miei figli carissimi, Domenico, Angelino, Luca e Antonella, il ricordo di voi sarà sempre vivo nei nostri cuori mamma e babbo». La mostra è dedicata ai fotografi Ezio Orsi e Gianni Ottolini (che in passato si sono prodigati per la diffusione delle immagini della strage), ai soccorritori, ai medici e infermieri degli ospedali bolognesi che operarono senza riposo e che rientrarono volontariamente dalle ferie. La mostra si può visitare oggi dalle 9 alle 21.
Ansa, 15 giugno 2000
”Mentre la Mambro viene chiamata dalla Rai a fare da testimonial per la festa dell’ 8 marzo noi aspettiamo ancora l’ abolizione del segreto di Stato”. Lo ha detto oggi Paolo Bolognesi, presidente dell’ Associazione dei familiari delle vittime della strage di Bologna del 2 agosto 1980, in occasione della presentazione a Milano del libro ”10.25, cronaca di una strage” scritto dal giornalista Daniele Biacchessi ”per sostenere la causa contro il segreto di Stato e per ricordare le vittime invisibili delle stragi”. ”Molti libri vengono raccontati dalla parte dei carnefici, per capire e spiegare cos’ h successo, ma a me – ha spiegato l’autore – non interessa sapere se e’ stato Fioravanti a mettere la bomba alla stazione di Bologna, voglio capire come e’ avvenuto il passaggio delle vittime alla consapevolezza o alla rassegnazione”. All’ incontro erano presenti anche Luigi Passera, presidente dell’ associazione delle vittime di Piazza Fontana e Federico Silicato, avvocato di parte civile nel processo per la strage alla Banca Nazionale dell’ Agricoltura, che ha tracciato un quadro dei collegamenti tra le grandi stragi che hanno insanguinato l’ Italia tra il ’69 e l’ 80. ”L’ estrema destra eversiva veneta – ha affermato – ha lavorato per 15 anni al servizio di una strategia eterodiretta, sicuramente non nata all’ interno dello stesso gruppo, ma coordinata da istituzioni dello Stato”.
”La classe politica italiana non ha un reale interesse all’accertamento della verita’ sulle stragi” in quanto ciascuna forza politica punta ”ad una verita’ che giovi al proprio interesse”. Lo ha detto il presidente della commissione stragi Giovanni Pellegrino nel corso della presentazione del libro del giornalista DanieleBiacchessi sulla strage alla stazione di Bologna. Pellegrino, nel ripercorrere le difficolta’ incontrate dalla commissione da lui presieduta in questi anni, si e’ detto amareggiato e ha parlato di ”un popolo italiano che non ha coscienza nazionale e che discute del proprio futuro come se non avesse un passato alle spalle”. Sulle stragi – ha aggiunto – ”ci si augura che, attraverso l’attivita’ di indagine, venga fuori un risultato finale che giovi al proprio interesse politico”. Fatti di vent’anni fa come la strage di Bologna – ha sottolineato Pellegrino – ”sono vissuti come se fossero parte dell’attualita’ politica”, e altrettanto e’ vero per il caso Ustica sul quale ”siamo riusciti a far diventare la bomba di destra e il missile di sinistra”. Nel definire tutto cio’ sintomo ”di un elevato grado di stupidita”’, Pellegrino ritiene che vi debba essere ”uno scatto di umilta’ intellettuale che porti alla rinuncia di a priori”. E proprio parlando del rapporto tra verita’ e giustizia, Pellegrino si e’ chiesto se ”dopo tanti anni sia davvero possibile fare giustizia” e se ”sia vera giustizia quella che viene dopo cosi’ tanto tempo”. A concordare con Pellegrino sullo scarto che vi e’ tra verita’ giudiziaria e verita’ storica e’ stato poi il presidente del Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, Franco Frattini: ”Alle vittime la giustizia viene data sia dai giudici che da un importante contributo di ricostruzione della verita’ storica”.
Diecimila chilometri attraverso l’Italia del dissesto e dello scempio ambientale e paesistico non sono solo un viaggio, sono soprattutto un angolo visuale, anzi, l’insieme di diversi punti di vista, accomunati da un unico comune denominatore, la volontà precisa di testimoniare sistematicamente allo scopo di non dimenticare. Frana del Vajont, alluvione del Piemonte, colate di fango di Sarno e terremoto dell’Umbria e delle Marche sono le tappe più radicate nel dissesto idrogeologico del Belpaese. Ovviamente da qui partono i mali recenti che hanno condotto all’incapacità di prevenire prima e allo spreco negli interventi successivi poi. Porto Marghera, la discarica di Pitelli, le ecomafie sono invece altrettanti paradigmi di come in questo paese l’impostazione dei problemi ambientali sia sempre stata demandata ai codici di uno sviluppo ormai insostenibile. Neppure le tradizionali forze sane del paese – i lavoratori e le loro organizzazioni – sono state capaci di uscire dalla logica ricattatoria di chi offriva un posto di lavoro in cambio di uno scempio ambientale o di un cancro. E dispiace vedere come ancora oggi sia ritenuta una bestemmia quella di chi vuole chiusi, e per sempre, i maledetti petrolchimici o le tante Acne: purtroppo non c’è riconversione per quelle polpette avvelenate gettate un po’ qui e un po’ lì come capita in un territorio che non ha, per vocazione e formazione, alcuna capacità di sostenere un pesante e suicida sviluppo industriale. Attraverso la testimonianza e la denuncia di libri come questo (e di altri, quali il vero gioiello Diritto all’ambiente del pretore Maurizio Santoloci, Edizioni Ambiente – Wwf, 1997, che ci insegna come fare, in pratica, per mettersi di traverso rispetto agli ecocriminali) possiamo cercare di fare in modo che ci venga restituito quell’ambiente che non vogliamo più negato.
«La monnezza è oro». E’ una frase famosa, pronunciata da un personaggio passato alle cronache, giudiziarie e non, per averla apoditticamente lasciata cadere sul tavolo del sostituto procuratore presso la Direzione nazionale antimafia di Napoli. Il magistrato era Lucio di Pietro e il personaggio Nunzio Perrella: con quella locuzione Perrella spiegava come la mafia si sia impossessata di un nuovo tesoro, di un business miliardario che riposa sulla cattiva coscienza del Belpaese: l’affare dello smaltimento dei rifiuti tossico-nocivi. La monnezza, appunto. Novanta pagine per percorrere diecimila chilometri e andare a sollevare la polvere che si è depositata sulla memoria ambientale del nostro paese. E’ un po’ questo il senso de «L’ambiente negato» il libro di Daniele Biacchessi. Un libro che l’autore ha scritto dopo aver ripercorso all’indietro le inchieste che ha condotto in questi anni per conto delle emittenti «Radio Popolare», «Radio Regione» e, adesso, per il circuito radiofonico nazionale di «Italia Radio». Sull’Icmesa aveva già lavorato in un libro denuncia che nel `95 faceva le pulci ai numeri dell’industria di Seveso, responsabile di uno dei maggiori drammi ecologico-sanitari del nostro paese. Ma dopo quella denuncia, Biacchessi è andato avanti. E’ tornato a Pitelli, dove forse si trovano ancora i fusti dell’Icmesa. Ed è tornato sui luoghi del delitto a Porto Marghera, nel Vajont, a Sarno e a La Spezia, in Lombardia e in Campania, nel Veneto o in Puglia. «Il mio non è esattamente un libro inchiesta dice Biacchessi ma un viaggio nella memoria: per non dimenticare. Non solo: vuol essere di sprone a un giornalismo che ormai si fa sempre di più al tavolino, al “desk”, riscrivendo notizie anziché andandole a cercare. Se invece i giornalisti si muovono, le notizie le trovano. Perché sono lì, ad aspettare che qulcuno le tiri fuori dall’oblìo». Le notizie sono sempre notizie di reato. Ci sono le indampienze, le furberie, i raggiri quotidiani di normative e leggi e, soprattutto, l’immenso business delle ecomafie. «Un affare _ dice Biacchessi _ che fa impallidire la droga o la prostituzione. Anche perché è un lavoretto “pulito”, in cui tutti hanno interesse a stare zitti». Il libro di Biacchessi ripercorre le storie, le inchieste, il lavoro spesso oscuro di molti magistrati: i Franz, i Di Pietro che scavano (tra le carte e tra la terra) sulle rovine di un dissesto che non è solo idro geologico ma, soprattutto, umano. Perché c’è l’uomo al centro dell’ambiente: a usufruirne, prima di tutto, ma anche a rapinarlo. E perché si possa continuare ad usufruire è necessario fare luce e non dimenticare chi lo ha rapinato. La prefazione di Edo Ronchi fissa il punto: «Un racconto di fatti _ dice il ministro _ che fissano nella memoria notizie che, dopo le apparizioni nella cronaca, si rischia di dimenticare. Storie di ambiente e persone, di luoghi e di eventi che richiamano il filo verde della necessità di un salto di qualità nella consapevolezza ambientale in questo nostro paese».
Oggi i giudici della Corte d’ Appello decidono se il processo Calabresi è da rifare. Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani, che hanno fatto istanza di revisione, sapranno se i nuovi elementi di prova sono stati ritenuti sufficienti. La vigilia della decisione è stata attraversata da voci e indiscrezioni che propendono per il rifiuto. Tanto da far sì che i giudici, con una mossa insolita, smentissero in un comunicato di aver già concordato il verdetto: “Il collegio della quinta sezione penale della Corte d’ Apello di Milano precisa che nessun provvedimento è stato a tutt’ oggi adottato da questa Corte”. Segue firma dei tre magistrati: Giorgio Riccardi, Niccolò Franciosi e Giovanni Budano. In caso di rigetto, i tre imputati potranno ricorrere in Cassazione. “Sono sereno – ha detto l’ avvocato Alessandro Gamberini, autore del ricorso – Mi attendo che i giudici si mostrino indipendenti. Relativamente a tutte le voci di questi giorni, che considero prive di fondamento, io sono sereno e ottimista. Anche se il mio è un ottimismo dovuto, di maniera. Un ottimismo fondato sulle molte ragioni che dimostrano come la sentenza di condanna faccia acqua da tutte le parti, e sia una pagina da cancellare con un nuovo processo”. Ma cosa faranno Sofri, Bompressi e Pietrostefani in caso di rifiuto, a parte il ricorso in Cassazione? Gamberini dice: “Sono sereni, attendono la decisione con trepidazione ma anche con serenità. Cosa accadrà dal punto di vista delle loro reazioni, io non lo so. Sono stato in contatto costante con loro, e posso dire che attendono un giudizio di ammissibilità, come è giusto che sia”. Gamberini ha partecipato ieri alla presentazione del libro Il caso Sofri di Daniele Biacchessi, insiema con Marco Boato, Franco Corleone, Marco Taradash, Lisa Foa, Andrea Purgatori. “Il processo Sofri – ha detto Boato – doveva essere chiuso nel ‘ 92, e solo un artifizio legale di un giudice a latere, che ha scritto una motivazione suicida, ha permesso alla Cassazione di riaprire il processo dopo l’ assoluzione di tutti gli imputati”. Per Corleone, sottosegretario alla Giustizia, “rifare il processo sembra necessario”: “Non voglio dire nulla che faccia sospettare che i giudici non decidano in piena autonomia. Domani può essere una giornata importante perché la vicenda si è arricchita di episodi che non possono rimanere insoluti”. Ieri Le Monde ha pubblicato in prima pagina un lungo articolo di Umberto Eco, intitolato “Bisogna rivedere il processo Sofri in nome del buonsenso”, già comparso in Italia su Micromega. “Ammettendo che Sofri sia colpevole – scrive Eco – le ragioni che hanno indotto a dichiararlo colpevole sono cattive. E questo dovrebbe preoccupare tutti, compresi i sostenitori della colpevolezza di Sofri”. Le 200 pagine dell’ istanza presentata dall’ avvocato Gamberini contengono numerosi elementi nuovi, rispetto ai processi precedenti. Il racconto di Luciano Gnappi, uno dei testimoni oculari dell’ omicidio, la testimonianza di un vigile urbano che vide Bompressi a Massa, due ore dopo l’ assassinio, una perizia balistica sui proiettili. Ci sono poi rivalutazioni di testimonianze non prese in considerazione. La Corte d’ Appello non deve entrare nel dettaglio, ma solo valutare se i nuovi elementi possano ragionevolmente far prevedere che si arrivi a un giudizio di contraddittorietà o insufficienza delle prove di colpevolezza.
”Il caso Sofri” e’ un libro che oltre a raccontare la vicenda processuale fa emergere, ”attraverso la cronaca di un’ inchiesta” – l’ omicidio del commissario Luigi Calabresi – ”tutto quello che non e’ stato fatto per la verita”’ e tutte le ”piste non seguite”. Ad un giorno dalla decisione di riaprire o meno il processo – e’ atteso per domani il pronunciamento della quinta Corte d’ Appello di Milano sulla richiesta di Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bombressi – la presentazione del libro ”Il caso Sofri”, di Daniele Biacchessi (Editori Riuniti), si e’ trasformata in un dibattito tra protagonisti tutti concordi nel ritenere necessaria la revisione del processo. Per Marco Boato, relatore della Commissione giustizia della Bicamerale, all’ epoca segretario di Lotta Continua di Trento, il ”processo a Sofri doveva essere chiuso nel ’92” e ”solo un artifizio legale di un giudice a latere che ha scritto una ‘motivazione suicida’ ha permesso alla Corte di Cassazione di riaprire il processo”. Ora ”spero – ha detto Boato – che la Corte d’ Appello decida non tanto sulla fondatezza di elementi di prova ma sull’ ammissibilita”’. Alessandro Gamberini, il legale di Sofri, Bompressi e Pietrostefani, che ha redatto la memoria per la richiesta di revisione del processo, si e’ detto ”ottimista” e attende ”serenamente la decisione” perche’ convinto che ”il processo fa acqua da tutte le parti”. Per Marco Taradash, parlamentare di Forza Italia, la revisione del processo si deve fare perche’ ”e’ inaccettabile” che ”il presentarsi di un pentito faccia iniziare una storia giudiziaria diversa”. Inoltre ”non puo’ succedere” che possa essere ”annullata la sentenza di una Giuria popolare da un giudice togato”. Per il sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone il libro racconta ”di una questione irrisolta: il caso Sofri, su cui c’e’ stato, da parte dei carabinieri, un accanimento per arrivare alla soluzione” ed ”e’ stimolante” perche’ dimostra che ”in tutto il lavoro fatto manca la scoperta del colpevole”. Un appello ”a non dimenticare i molti casi irrisolti” e’ poi venuto da Lisa Foa dell’ Associazione ”Liberi liberi” vicina ai tre detenuti.
‘Rifare il processo sembra necessario” perche’ ”con il nuovo rito si puo’ arrivare a determinare quello che e’ successo”. Questo e’ quanto ha affermato oggi il sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone alla vigilia della decisione della quinta Corte d’Appello di Milano a proposito dell’ammissibilita’ della richiesta di revisione del processo per l’uccisione del commissario Luigi Calabresi presentata da Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi.”Non voglio dire nulla – ha aggiunto Corleone intervenendo alla presentazione del libro ”Il caso Sofri” del giornalista DanieleBiacchessi – che faccia sospettare che domani i magistrati non decidano in piena autonomia. Ho fiducia che la loro piena autonomia verra’ esercitata” ma non v’e’ dubbio che si tratta di ”un caso esemplare”.”Domani – ha detto inoltre – puo’ essere una giornata importante perche’ c’e’ bisogno di dipanare una vicenda che” nelle diverse fasi ”si e’ arricchita di episodi che non possono rimanere insoluti”.
Faceva freddo a Milano il 18 marzo 1978, e il centro era intasato di auto della polizia e dei carabinieri: lampeggianti accesi, posti di blocco, mitra spianati. Due giorni prima a Roma era stato rapito Aldo Moro, e la macchina dello Stato sembrava impegnato in una buffa parodia di efficienza e “pronta risposta alla sfida brigatista”, come promesso dal ministro dell’Interno Francesco Cossiga. Ma non c’erano sirene e poliziotti al Casoretto, quartiere di periferia. Solo persiane sbarrate a tener fuori lo smog e televisori accesi, in attesa del tg delle 20.
A quell’ora Fausto Tinelli e Iaio Iannucci camminano lungo via Mancinelli, stretti nei paltò. Chiacchierano, e il freddo forma nuvolette di vapore davanti alle loro bocche. Hanno trascorso un pomeriggio tranquillo: Lorenzo in piazza Duomo insieme alla sua ragazza, Fausto al Parco Lambro con gli amici. Mezz’ora prima si sono incontrati alla “Crota Piemunteisa”, un bar-trattoria di fronte al centro sociale Leoncavallo, e ora si dirigono verso casa di Fausto, in via Montenevoso 9, per l’appuntamento del sabato col risotto di mamma Danila. L’edicolante all’angolo tra via Casoretto e via Mancinelli li vede fermarsi davanti alle edizioni straordinarie dei giornali, a commentare i titoli sul sequestro Moro. Sono ragazzi come oggi ce ne sono sempre meno, Fausto e Iaio: attenti al mondo intorno a loro, impegnati nel quartiere. Negli ultimi mesi hanno lavorato ad un dossier sullo spaccio di droga al Casoretto.
All’altezza dell’Anderson School di via Mancinelli ci sono tre persone infagottate in trench bianchi. Una signora, Marisa Biffi, vede Fausto e Iaio fermi alla loro altezza. Ecco il suo racconto, tratto dal libro Fausto e Iaio, di Daniele Biacchessi, uno dei tanti giornalisti che hanno tentato di ricostruire il delitto: “Tre ragazzi sono in piedi sul marciapiede, a 5-6 metri da me. Contemporaneamente un altro giovane è leggermente piegato e si comprime lo stomaco con entrambe le mani. Odo tre colpi attutiti che lì per lì sembrano petardi. I tre giovani sul marciapiede scappano velocemente mentre quello che è piegato su se stesso cade a terra. Mi avvicino al giovane caduto… Subito oltre il suo corpo, a un paio di metri, il corpo di questo ragazzo che prima non avevo visto né in piedi né a terra. Nessuno dei due ragazzi pronuncia un parola… Altrettanto fanno gli assassini che fuggono nel silenzio, avviandosi verso via Leoncavallo. Noto che il giovane con l’impermeabile ha un sacchetto che sembra di cellophane bianco in mano”.
Dalla testimonianza si deduce che gli assassini sono professionisti: agiscono rapidamente, non dicono un parola, raccolgono i bossoli nel sacchetto di plastica che la signora Biffi ha visto nelle mani di uno dei killer. A sparare otto o nove volte è stata una Beretta 80 calibro 7,65, arma leggera e agile, ideale per colpire da vicino. Prima è caduto Fausto, colpito all’addome, al torace, al braccio destro e ai lombi. Poi è toccato a Lorenzo: torace, ascella destra, inguine, fianco destro.
Dopo l’omicidio, il gruppetto di tre sparisce nel nulla. L’indomani un funzionario della Questura parla con i cronisti: “E’ chiaro, si tratta di una faida tra gruppi della nuova sinistra, o inerente al traffico di stupefacenti”. La scientifica fa circolare la voce che l’assassino abbia sparato con una pistola calibro 32. “E’ un’ipotesi tirata per i capelli, come del resto quasi tutte quelle formulate – scrive L’Unità -. C’è almeno un elemento certo nelle indagini sulla barbara uccisione di Lorenzo Iannucci e Fausto Tinelli. I killer per uccidere hanno usato pistole automatiche avvolte in sacchetti di plastica”.
L’articolo è firmato da Mauro Brutto. Non ancora trentenne, Brutto è il prototipo di una specie oggi in estinzione, il cronista di nera. La Milano di quegli anni, splendidamente raccontata da Scerbanenco, gli offre mille spunti di lavoro. Ma Brutto è anche un uomo di sinistra, e nella morte di Fausto e Iaio vede chiaramente la mano della destra milanese. Ne parla mesi dopo il delitto con Danila, la mamma di Fausto: “Mauro venne a casa mia – ha raccontato la donna – si stava occupando del connubio tra trafficanti di eroina, fascisti milanesi e romani, apparati dello Stato; mi disse che la verità su Fausto e Iaio non era chiara”.
Per mesi Mauro Brutto raccoglie elementi sul delitto di Via Mancinelli. In novembre qualcuno gli spara tre colpi di pistola senza colpirlo. Pochi giorni dopo il giornalista mostra una parte del suo lavoro ad un colonnello dei carabinieri. Il 25 novembre, dopo cena, Brutto ha appuntamento con una sua fonte. Lo vedono entrare in un bar di via Murat, comprare due pacchi di Gauloise, uscire, attraversare la strada. A metà della carreggiata si ferma per far passare una 127 rossa. In senso inverso arriva una Simca 1100 bianca, lo investe e scappa.
“La Simca sembrava puntare sul pedone”, dirà nel corso della rapida inchiesta l’uomo a bordo dell’altra auto, la 127. Sparisce il borsello di Brutto, pieno di carte, forse trascinato dalle auto in corsa. Lo ritrovano qualche ora dopo in una via vicina, vuoto.
Ci sono elementi sufficienti per fare ipotesi, ma non per evitare che la morte di quel bravo cronista sia archiviata come incidente, mentre prosegue l’inchiesta su Fausto e Iaio. Dopo il delitto sono arrivate alcune rivendicazioni di ambienti di estrema destra. La più credibile appartiene all’Esercito nazionale rivoluzionario – brigata combattente Franco Anselmi. Anselmi era un neofascista romano, morto dodici giorni prima dell’omicidio di Fausto e Iaio, mentre tentava di rapinare un’armeria della capitale. Tra i camerati del gruppo di Anselmi c’è Massimo Carminati, il guascone senza paura che svolge i lavori sporchi per conto della banda della Magliana, la più potente organizzazione criminale romana, e ha rapporti con i servizi deviati. Tra le molte cose, Carminati è stato accusato di aver ucciso Carmine Pecorelli ed ha lavorato con due ufficiali del Sismi a un tentativo di depistaggio dell’inchiesta sulla strage di Bologna…
Dopo anni d’indagine, Carminati sarà prosciolto per l’omicidio di Fausto e Iaio insieme ai camerati Claudio Bracci e Mario Corsi. Nei loro confronti ci sono alcuni indizi e le dichiarazioni dei pentiti, ma niente che si tramuti in prove certe. Del gruppo, oggi il più famoso è Corsi. Lo chiamano Marione, ed è il conduttore di una popolare trasmissione calcistica sulla Roma, in onda su “Radio Incontro”. Cliccando sul suo sito internet ci si trova davanti ad un volto aperto e sorridente che incornicia due occhi gelidi. Ma è davvero un esercizio inutile, a distanza di tanti anni, cercare di rintracciare su quel viso i segni dell’uomo che Mario Corsi è stato, e di quello che ha fatto o non ha fatto.
Resta invece una domanda: perché Fausto e Iaio? Due ragazzi come tanti, di sinistra ma senza strette appartenenze. Più politicamente in vista di loro, a Milano, vi sono migliaia di persone. Si è parlato molto del dossier sulla droga cui i due ragazzi avevano collaborato, ma quel lavoro, una rigorosa analisi dello spaccio milanese, non contiene rivelazioni di alcun tipo.
E allora bisogna fermarsi su una coincidenza, come ha fatto recentemente Aldo Giannuli, consulente della commissione Stragi: i due ragazzi vengono ammazzati cinquantasei ore dopo il sequestro Moro, e Fausto Tinelli abita in via Montenevoso 9, dirimpetto al covo dei misteri brigatisti, quello in cui sarà custodito il memoriale di Moro. Dalla stanza di Fausto alla finestra del covo brigatista ci sono meno di dieci metri, e in quell’ambiente il ragazzo del Casoretto passa buona parte delle sue giornate, a leggere e ascoltare musica. Se esiste un misterioso legame tra il sequestro Moro e il duplice delitto di Milano, bisogna dare atto ai registi della trama di aver fornito anche la controprova: nel 1981 in provincia di Roma venne ucciso il capitano di polizia Francesco Straullu, e il delitto fu rivendicato dal nucleo fascista che si rifaceva a Franco Anselmi. Il fatto è che anche il nome di Straullu riporta al caso Moro: il capitano aveva indagato sul famoso borsello trovato nel 1979 in un taxi romano, e carico di “simboli” riferiti a Moro e al giornalista Pecorelli. Coincidenza per coincidenza, Carminati è stato indagato e prosciolto anche per l’omicidio Pecorelli. L’autore di quel delitto, chiunque fosse, indossava un trench bianco. Come i carnefici di Fausto e Iaio.
Milano, ventisette anni fa. Otto colpi di pistola. In via Mancinelli, una strada vicina alle case dove abitavano, nella zona del Casoretto. Vengono ammazzati così, la sera del 18 marzo del 1978, più o meno verso le venti, due ragazzi di diciotto anni – Fausto Tinelli e Lorenzo Iannuzzi detto Iaio – che frequentavano il centro sociale Leoncavallo. I bossoli, mai rinvenuti, furono certamente raccolti in un sacchetto applicato dagli attentatori alle armi per impedirne il recupero. Un espediente tipico del “modus operandi” tra i killer neofascisti del Nar. La perizia balistico accertò che a sparare furono armi piuttosto vecchie e che tali armi corrispondevano al tipo di dotazione logistica di cui l’area eversiva di estrema destra del Fuan-Nar disponeva sino all’inizio del 1979. Ciononostante, le indagini presero inizialmente una piega ben diversa, compromettendone l’esito. Qualche prova sparì, persino. Già. Perchè per anni chi doveva indagare l’ha fatto brancolando nel buio, senza ottenere granchè, alla fine i giudici che dovevano giudicare si sono arresi. L’inchiesta si è arenata su una montagna di indizi, di confidenze, di “piste” che portavano a muri di omertà, infine il 14 dicembre del 2001 il gip milanese Clementina Forleo accolse la richiesta del pm Stefano Dambruoso e archiviò l’inchiesta, “pur in presenza dei significativi elementi indiziari a carico della destra eversiva”.
La verità è sepolta, insieme agli incartamenti giudiziari. All’inizio il sostituto procuratore Armando Spataro, il primo ad occuparsene, qualificò l’indagine (“droga”) e dispose l’esame tossicologico sui corpi dei due ragazzi. Un regolamento di conti nel sottobosco del narcotraffico, fu dunque l’ipotesi iniziale, quasi un atto d’accusa nei confronti dei due ragazzi: il possibile movente (un’azione ritorsiva contro i giovani del Leoncavallo da parte di soggetti legati al traffico di droga o comunque in avvenimenti strettamente interni alla vita del quartiere ove i due giovani abitavano) si rivelò una pista fasulla. Passano gli anni. Il giudice Guido Salvini riapre il caso Fausto e Iaio, accerta elementi “di carattere comunque prettamente indiziario” (così leggo sul documento 271/80F che il giudice Guido Salvini trasmette alla Procura della Repubblica di Milano il 14 luglio 1997) “che individuerebbero gli autori del duplice omicidio in elementi dell’estrema destra romana in trasferta a Milano, mossi dall’intento di vendicare alcuni loro camerati caduti, colpendo due giovani non personalmente conosciuti ma comunque sicuramente appartenenti all’area di estrema sinistra”. I sospetti di Salvini sono indirizzati verso l’estrema destra perchè, dopo l’agguato a Fausto e Iaio, viene ritrovato a Roma un volantino di rivendicazione (in zona Prati) che riporta un elenco di camerati assassinati ed è firmato “Esercito Nazionale Rivoluzionario – Brigata Combattente Franco Anselmi” (Anselmi era un elemento di spicco del Fuan-Nar di Roma ucciso nel marzo del 1978 durante la rapina all’armeria Centofanti di Roma, commessa assieme ai fratelli Fioravanti). Ma Salvini non riesce ad andar oltre questi “elementi significativi”, né le rivelazioni di ex camerati aiutano a dipanare il mistero, e le stesse perizie sui proiettili lasciano il tempo che trovano. Questi indizi non reggerebbero in un’aula di tribunale, è ormai la convinzione dei magistrati. Dunque, archiviazione.
Un mese fa fece scalpore la riapertura – in chiave politica – del rogo di Primavalle. La destra scatenò roventi polemiche per l’archiviazione del caso, “delitti senza un colpevole”, il solito teatrino per dare addosso alle sinistre.
Pochi giorni fa (ero andato ad intervistare la madre di Fausto, poi il giornale non ne fece nulla) ricevetti una e-mail dall’associazione familiari ed amici di Fausto e Iaio: “La Verità giudiziaria non c’è stata, è arrivata l’archiviazione in cui si dichiarava: esistono forti indizi su tre estremisti dell’estrema destra, ma non abbastanza elementi per un processo. Per la giustizia italiana la nostra storia finisce qua. Sono passati 27 anni e noi familiari, amici e compagni di Fausto e Iaio rivendichiamo che la verità storica su questo assassinio la conosciamo come conosciamo quella di altri casi analoghi che fanno parte della storia politica italiana, rimasti senza colpevoli. A noi non rimane che mantenere viva la memoria, non fine a se stessa, ma legata alle problematiche sociali nel contesto attuale: la casa, il lavoro, il disagio giovanile, il razzismo, il fascismo…Vogliamo che si mantenga viva la memoria affinché soprattutto i giovani diventino consapevoli e critici rispetto alla realtà attuale. “Se si vuole far luce” ci va bene ma non vogliamo essere strumento di chi usa fatti tragici del passato per i propri interessi di potere in modo demagogico. Noi chiediamo solo verità e giustizia”.
”L’unica possibilita’ di avere finalmente risposte chiare sulla vicenda della diossina di Seveso, uno dei misteri della prima Repubblica, e’ che indaghi Di Pietro nel suo nuovo ruolo di coordinatore delle indagini della Commissione Stragi”. La richiesta e’ stata fatta dal consigliere regionale Verde Carlo Monguzzi, ex assessore all’ ambiente nella Giunta Ghilardotti, intervenendo oggi alla presentazione del libro-inchiesta di Daniele Biacchessi ”La fabbrica dei profumi. La verita’ su Seveso, l’Icmesa, la diossina”, edito da Baldini e Castoldi. Nel libro, che si basa su documenti ufficiali dell’archivio dell’Ufficio Speciale su Seveso, vengono ricostruiti la storia e i retroscena del piu’ grande disastro ambientale italiano, portando alla luce le complicita’ e le omerta’ che hanno costellato la vicenda nella quale non sono estranei, secondo l’ autore, i servizi segreti. Innanzitutto si precisa quanta diossina era uscita: dai 15 ai 18 chilogrammi e non 300 grammi come e’ stato sempre detto. A questa conclusione era giunta pure la Commissione d’indagine su Seveso, istituita nel 1994 dalla Regione Lombardia su richiesta dello stesso Monguzzi che ha anche aperto dopo 17 anni l’archivio di Seveso. Un documento ritrovato da Biacchessi e consegnato alla Commissione, conferma poi che all’Icmesa veniva prodotto triclorofenolo ”sporco” e quindi non adatto alla produzione di cosmetici. Secondo Biacchessi, questo triclorofenolo ”sporco” sarebbe stato utilizzato per la produzione di armi chimiche per la guerra batteriologica. L’ inchiesta di Biacchessi accerta poi la presenza di ufficiali americani nella zona di Seveso nei giorni successivi all’ incidente e il ruolo depistante dei servizi segreti, non solo italiani, e da’ anche una risposta alla domanda su che fine hanno fatto i fusti contenenti la diossina (domanda alla quale la Commissione regionale non e’ invece riuscita a rispondere). Dal libro emerge un’altra verita’ sul viaggio dei fusti da Seveso verso la Francia e la Germania. Documenti inediti indicano l’esistenza di due carichi, uno contenente diossina pura che venne prelevato da un agente segreto francese e portato nell’allora Germania dell’Est, nella cava di Shoenberg, l’altro, contenente terra, che venne scortato dal Commissario Luigi Noe’ sino a Ventimiglia ‘Da una indagine parallela sulla destinazione dei fusti fatta da Legambiente – ha sottolineato Monguzzi – e’ emerso, sulla base di testimonianze di alti ufficiali dei carabinieri, che una parte di essi sarebbe tornata in Italia, vicino a La Spezia”. ”In tutta la vicenda – ha detto ancora Andrea Poggio, della Legambiente – vi sono complotti orchestrati per nascondere qualcosa, per questo serve una nuova indagine. Ben venga Di Pietro”.